Il taccuino: 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
Frammenti di un museo virtuale
Vertenza all'ASGEN.
Dal taccuino di Pippo Bertino



Nel '70, al momento della stesura degli appunti che qui si pubblicano, Pippo Bertino aveva 19 anni e lavorava da circa un anno in Sala Prove dove era stato eletto delegato di reparto nelle elezioni che si erano tenute subito dopo la conclusione, nel gennaio, del contratto nazionale. Nelle riunioni di reparto aveva già preso la parola ma in quella del 29 aprile tace. Non si trattava solo di timidezza. Il confronto avveniva tra personaggi "scafati" «ed io», osserva Bertino, «non dominavo completamente gli argomenti in discussione. L'abitudine di pigliare appunti l'ho presa non tanto per fare il resoconto di quanto ascoltavo: mi capitava di scrivere qualcosa, magari solo una frase, una parola, che mi serviva piuttosto per colmare i vuoti, quello che non sapevo o non capivo. Ho fatto così in varie occasioni, a partire dalla scuola».
Alla riunione del 29 aprile 1970 partecipavano, ricorda Bertino, i "Comitati-delegati”. Non erano la stessa cosa del "Consiglio di fabbrica" (Cdf) previsto dal contratto da poco firmato, ma rappresentavano qualcosa di più e di particolare. Erano infatti nati come comitati di agitazione, eletti dalle assemble di reparto, nel corso della lunga agitazione che aveva investito l'Asgen nel '69. Alla riunione partecipavano sia i membri di questi Comitati, sia i delegati eletti, in seguito all'ultimo contratto nazionale, dai "gruppi omogenei" della fabbrica. Di lì a poco sarebbe stato il Consiglio di fabbrica a concentrare la rappresentanza di tutti i lavoratori dell’Asgen. Per alcuni anni, però, nel Consiglio di fabbrica i delegati di reparto o ufficio, di “gruppo omogeneo” come si diceva, furono eletti su scheda bianca, senza distinzione di componenti sindacali o di partito e tutti erano eleggibili, anche i non iscritti al sindacato.
Complessivamente tra nuovi delegati e membri dei comitati di reparto, alla riunione del 29 aprile partecipava una settantina di persone. Era una delle prime riunioni e, grazie al nuovo contratto, la rappresentanza dei lavoratori poteva riunirsi all'interno della fabbrica, in un locale apposito della portineria. Era lo stesso locale dove ogni quindici giorni venivano distribuite le buste paga e in quei giorni il Consiglio doveva cedere il passo: sarebbe stato impensabile ritardare la consegna delle paghe.
Ospitare i Cdf negli ambienti delle portinerie era stata una scelta comune a moltissimi stabilimenti in tutta Italia. Così le aziende potevano rispettare il contratto nazionale e il dettato dello Statuto dei lavoratori - legge 300 del maggio 1970 - che prevedeva la partecipazione di "esterni" alle riunioni. Ma i locali della portineria non erano considerati pertinenze della fabbrica propriamente detta e destinarli ai Cdf era un modo di aggirare la lettera dello Statuto. La chiave del locale era, in quella prima fase, a disposizione della Commissione interna, ma ancora per poco, perché il nuovo contratto prevedeva che le ore di esenzione prima a disposizione della Commissione interna fossero attribuite al neonato Consiglio di fabbrica.
Il locale dove si svolgeva la riunione era una sala lunga e stretta: su un lato gli “sportelli” da cui venivano distribuite le buste paga, sul fondo un tavolone e alla parete un paio di bandiere e un ritratto di Buozzi; due blocchi di sedie divise da un corridoio. La riunione avveniva nel pomeriggio, in orario di lavoro. «Nel complesso sembrava una specie di chiesetta, c'era abbastanza casino e non mancavano quelli che già si facevano i cazzi propri». Delle riunioni del Consiglio non esistono né erano previsti verbali o resoconti. «Solo se si decideva di produrre un volantino o un comunicato se ne stilava la bozza di massima».
Gli appunti in cui Pippo Bertino, per suo uso, ha fissato le posizioni espresse dai vari interventi appaiono più chiari se messi a confronto con i volantini prodotti nelle settimane precedenti dai principali reparti dello stabilimento. Questi volantini erano il risultato di assemblee svoltesi sia in orario di lavoro sia durante gli scioperi - «se ne faceva anche di mezz'ora: c'era in ballo la questione del trasferimento di una lavorazione ad un altro stabilimento» - durante i quali si restava all'interno. A volte si concludevano con votazioni palesi, altre volte l'alzata di mano era addirittura superflua. Il dissenso c'era e si manifestava sia col mugugno sia con un atteggiamento di distacco verso le assemblee. Ma all'epoca il gruppo politicizzato della classe operaia aveva un forte potere di coinvolgimento e ad esso faceva riferimento la maggior parte degli operai.
Le assemblee di reparto si facevano ormai da un paio d'anni e avevano assunto un proprio stile, diverso da reparto a reparto. Avevano anche rivelato nuove personalità che spesso andavano a comporre il comitato di reparto. La composizione di questi comitati era la più diversa e numericamente poteva variare da un solo delegato a quattro, cinque e anche più. Una parte dei delegati, decisamente più esigua, partecipava alle riunioni del consiglio dei delegati che, fino a prima dell'ultimo contratto, si riuniva fuori dell’orario di lavoro e fuori dalla fabbrica.
A gennaio del '70, la firma del nuovo contratto nazionale dei metalmeccanici non aveva messo fine all'ASGEN allo stato d'agitazione. A muoversi era specialmente la parte più giovane della fabbrica, quella più penalizzata dalle qualifiche e dai ritmi. Per di più, come si è accennato, era in corso la smobilitazione della lavorazione Trasformatori medi di cui era previsto il trasferimento a Pomezia, il che costituiva un ulteriore motivo di preoccupazione. I volantini qui riprodotti (anche quelli non datati) risalgono ai mesi di marzo e aprile '70, sono cioè precedenti la riunione del 29 aprile, di cui hanno in larga misura determinato i contenuti. Tra i volantini ha un rilievo particolare quello del 6 aprile. Veniva dai Comitato di reparto della caldereria, considerato il più influente della fabbrica, e raccoglieva le istanze già emerse in altre simili riunioni di altri reparti.


Il comitato di reparto della caldereria e i delegati sindacali

Il Comitato di reparto TRAN

Il Comitato di reparto delle medie e piccole macchine (MAPI)

Reparto Sala Prove GM

Assemblea ALES TORP dell'8 4 '70

Comitati di reparto e delegati sindacali

Dai volantini emergono tre cose: 1) i Comitati di reparto non si erano sciolti con la firma del contratto nazionale. C'erano ancora e avrebbero continuato ad agire con i modi usati sino a quel momento: assemblee di reparto, discussione e formulazione degli obiettivi almeno per quella parte del rapporto di lavoro non risolta dal contratto nazionale. 2) Il prossimo appuntamento dei lavoratori dell'Asgen era la messa in discussione del cottimo. 3) I tempi di lavoro erano giudicati insopportabili.
Con queste premesse la riunione del 29 aprile non poteva fare dell'accademia. La convinzione che avendo il contratto nazionale definita l'ossatura complessiva del rapporto di lavoro si potesse aprire a livello locale la pagina degli ulteriori miglioramenti era abbastanza diffusa. Ma su che cosa rivendicare, come e con quali tempi e con quali cautele, la discussione era più che aperta. Era inevitabile che essa riproducesse posizioni personali e dinamiche più vecchie, residuo degli scontri dei mesi precedenti. «Ma in quel momento», dice Bertino, «c'era ancora (ed è durata ancora qualche mese mentre dopo le posizioni si sono irrigidite, incancrenite) una discreta comprensione reciproca. Chiamiamola lealtà. Sapevo già da che parte avrebbe tirato quello o quell'altro, ma ero attento agli argomenti che usava perché erano motivazioni reali, non roba buttata lì giusto per metterti in difficoltà».
Alla riunione del 29 aprile il messaggio giunto dalle assemblee di reparto era dunque, soprattutto: superamento del cottimo. «In quel momento si trattava più di una formula che di un obiettivo. Tutti eravamo convinti che si trattava di una questione fondamentale, il problema era semmai come affrontarla. Ma il fatto che fossimo decisi a porla dice molto del clima della fabbrica di allora, di come ci sentivamo forti, in corsa». La riunione del Consiglio aveva il compito di riflettere su questa istanza e di restituire ai reparti un indirizzo unificante, che superasse le differenze che pure esistevano.
Quindici interventi, compreso quello di un sindacalista; il tutto per la durata di un paio d'ore. Da una parte - di sostegno alla lotta e per un indirizzo più radicale - c'erano Cafferata, Sartori, Pianese, Bottoni; dall'altra il gruppo "conservatore". Scontro ma anche confronto vero, costruttivo, con una certa stima reciproca. «Nella discussione la domanda che aleggiava era: ne vale la pena? Eravamo reduci dal contratto del '69 che ci era costato parecchio: ci chiedevamo se battere il ferro finché era caldo o invece prendere respiro. Si capisce che alcuni di noi tiravano a battere il ferro, ma la preoccupazione c'era. Capivamo benissimo che questioni importanti come il cottimo (o come sarà poi l'inquadramento unico) non erano proporzionate all'iniziativa di una sola fabbrica. Agendo da soli rischiavamo di schiantarci. Per l'inquadramento unico sarà diverso: in quel caso sarà lo stesso sindacato a spingere anche pesantamente per aprire quella strada insieme ad altri stabilimenti e a fare poi di quelle problematiche la base del nuovo contratto nazionale«.
Ma nell'aprile del '70, al tempo della riunione del Consiglio quella fase era lontana e prevaleva la preoccupazione. Si capisce dal primo intervento - Bernardi, 45 anni circa, un comunista di seconda fila, ma con un certo prestigio sulla base: di cottimo, sostiene, non si può parlare a livello di fabbrica, bisogna aspettare una vertenza nazionale. Gli risponde Cafferata, quarantenne, comunista prestigioso che ha la fiducia dei vecchi comitati di agitazione: la questione dei ritmi, dei carichi di lavoro, sostiene, "è passata in assemblea". Come dire che il Consiglio non deve inventare nulla e invece è da lì che deve partire. L'intervento successivo - "Marion" Torarolo (45 anni circa), comunista autorevolissimo, con un profilo intellettuale alto, ma non appartenente all'apparato sindacale o della Commissione Interna, è contro: la questione del cottimo non è attuale. E' invece opportuno muoversi a breve per altri obiettivi. Con Torarolo si allinea Remaggi (50 anni circa), altro senior comunista, che concede, sul cottimo, che se ne possa trattare con la direzione ma caso per caso e limitatamente alle situazioni "più aberranti". Sartori, comunista, più giovane dei precedenti (è nato nel 1941), è sicuramente il quadro più importante emerso con le lotte del ‘69: era inutile spendersi, dice, su cose già ottenute e solo da applicare. Meglio cominciare un confronto con la direzione sulla base delle istanze venute dai reparti avendo l'avvertenza di tenerlo "aperto". Respinge la linea dei singoli "casi" proposta da Remaggi: se vogliamo aprire la pagina del cottimo non possiamo farlo avendo già in testa una proposta di mediazione. Bertolotti, 50 anni, socialista, si allinea anche lui con Torarolo e gli replica Pianesi (45 anni) rivendicando la validità delle piattaforme uscite dai reparti. Di nuovo a favore degli scettici Casu (50 anni c.) che non crede alla possibilità del superamento del cottimo.
Poi tocca a Bavosi (55 anni c.), sino a poco prima (e da trent'anni) segretario della Commissione Interna. Comunista storico, fa parte della generazione che ha fatto programma dell'efficienza della fabbrica. Il suo stupore per il proposito di superamento del cottimo è genuino, disarmante. Perché il cottimo, osserva, è questione politica e al massimo si può cercare di aggiustarlo. Se no, dice, si mette in discussione la "competitività della fabbrica". Mitra (35 anni c.), sindacalista Cisl, si tiene distante dal tema chiave, ma è facile capire come la pensa: invita alla cautela, a misurarsi solo su cose su cui la fabbrica intende impegnarsi. L'ultimo intervento è di Bozzo (50 anni c.), comunista, da anni responsabile Fiom in Asgen. Anche lui fa parte dei tradizionalisti ma sente il vento e poi è responsabile della Fiom che del movimento cerca la guida. Bertino annota la sua formula, "sdrammatizzare il cottimo", con un punto interrogativo. Non si capisce che cosa Bozzo voglia dire, ma non è un caso che la riunione si concluda con l'intervento di uno che appartiene al partito della prudenza. E dopo tutto è appunto con la "sdrammatizzazione" del cottimo - se ne era già parlato in sede di apparato? - che si concluderà la vertenza.
La riunione del comitato è stata un pourparler. Le posizioni si sono confrontate, ma non è stata presa alcuna decisione. La discussione, però, era tutt'altro che chiusa. Lo stato di agitazione dei reparti non permetteva di accantonare la questione del cottimo. Dopo la riunione del 29 aprile il Consiglio tornò a riunirsi il 15 maggio e decise la formazione di tre commissioni di lavoro: ambiente di lavoro, cottimi e ritmi, qualifiche. Nei giorni successivi le commissioni si riunirono separatamente e poi riferirono al Cdf che a sua volta decise di aprire una trattativa con l'Intersind. In discussione non c'era l'abolizione tout court del cottimo, ma la sua cosiddetta sdrammatizzazione: si trattava in sostanza di rendere secondaria la parte di guadagno dovuta al cottimo rispetto alla quota di guadagno garantita. L'accordo firmato la notte di San Giovanni - il 24 di giugno - fu una vittoria. Oltre alla "sdrammatizzazione del cottimo" si ottenne l'abolizione di fatto della categoria manovali (che da quel momento sarebbero stati retribuiti come OC2, "operai comuni di seconda"), l'introduzione di pause individuali per le lavorazioni più nocive, l'eliminazione dei carrelli a nafta dall'interno dei capannoni e un aumento in paga base uguale per tutti. Inoltre, essendo il 24 di giugno festa del santo patrono di Genova, l'azienda riconobbe a tutti gli intervenuti alla trattativa una giornata di ferie supplementare.
«In quel primo anno seguito al contratto abbiamo vissuto una stagione politica molto intensa; le riunioni del Consiglio avevano - più o meno - una cadenza settimanale e fu così fino a quando intorno al '71 venne formato l'esecutivo espresso dal Consiglio: una dozzina di persone (di cui due esentati) ripartite per quote sindacali e politiche. La scelta di costoro fu sin dall'inizio una esclusiva delle segreterie sindacali. Era un passo indietro rispetto alla vecchia Commissione interna, dove la scelta era lasciata alle urne. Ma si trattava di un passato che allora non destava rimpianti».


Manlio Calegari

Il Museo degli Operai


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2004

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Il taccuino di Pippo Bertino
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