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Manlio Calegari
Ricordo Gino Canepa








Ho conosciuto Gino Canepa (1921-1991), operaio tornitore Asgen (Ansaldo S. Giorgio Società Generale), all'inizio del 1968. Ne è nata una amicizia proseguita fino al 1991, anno della sua morte. Gino era appassionato alla cultura e io allora insegnavo all'università. Ma questo non basta a definire il nostro incontro – come l'infinità degli analoghi di quell'anno – se non si ricorda quanto allora avvenne in Italia e in Europa. Il Sessantotto fu l'anno dell'incontro tra studenti e operai, due gruppi sociali diversi per storia, frequentazioni, censo e, da anni, privi di canali di comunicazione reciproca. Nel 1968, studenti da una parte e operai dall'altra si scoprirono improvvisamente interessati gli uni agli altri per ragioni diverse. Gli operai erano stati colpiti dal fatto che gli studenti delle occupazioni delle università – verificatesi a partire dal '67, ma sporadicamente anche prima – avessero modi e linguaggio di sinistra. La memoria degli operai più anziani li ricordava come campioni del nazionalismo interventista della prima guerra e poi guidati dai fascisti nelle manifestazioni per l'italianità di Trieste negli anni Quaranta e Cinquanta. Per la maggior parte di loro restavano i figli dei ricchi, quelli che potevano andare a scuola, che li avrebbero comandati, destinati a un futuro di benessere. Ma nel Sessantotto le parole degli studenti erano di segno opposto e malgrado la diffidenza di alcuni erano state accolte con entusiasmo dagli operai in particolare dai più giovani. L'interesse degli operai per il movimento degli studenti andò crescendo nel corso del '68. Le parole d'ordine degli studenti, "basta delega", "lotta ai burocrati", "potere all'assemblea", apparvero ancora più convincenti quando si vide che il movimento che le propagava era capace di imporre alle istituzioni – con azioni originali e spesso estrose – le proprie richieste.
Da parte loro gli studenti chiamavano gli operai "compagni" ed erano interessati a conoscere la loro opinione sugli argomenti più disparati: dalla neutralità della tecnica, alla medicina, alla scuola, alla famiglia e altro ancora. Pensavano infatti che il mondo plasmato dal capitalismo come un'unica grande fabbrica, potesse essere cambiato solo attaccandolo al cuore, nei luoghi della produzione, nelle fabbriche, nei centri di produzione del sapere, nella scuola. Scuole e fabbriche scese in lotta, avrebbero trasformato i luoghi della moderna alienazione in centri di elaborazione dei nuovi valori da contrapporre a quelli della nefasta cultura industrialista. Non è importante stabilire quanto queste posizioni fossero sempre presenti e uniformemente condivise all'interno di ognuno dei due gruppi. Ma è certo che l'interesse e la fascinazione reciproca c'erano, anche se si manifestarono in modo diverso a seconda dei luoghi e delle loro peculiarità sociali ed economiche.
La rivolta degli studenti guardò presto alle fabbriche: già poco dopo il suo inizio, tra la fine del '67 e i primi del '68. A dirigere gli occhi degli studenti verso i luoghi della produzione contribuirono in parte i gruppi "operaisti". Eterodossi rispetto alla sinistra ufficiale, il loro messaggio fu accolto non tanto per una loro improvvisa popolarità – erano in genere entità modeste e la loro consistenza non crebbe a contatto col movimento; anzi in alcuni casi scomparvero del tutto – quanto per il fatto che del movimento facevano parte e per il fascino delle loro affermazioni. Contribuirono a far scoprire l'esistenza di un mondo sotterraneo, sconosciuto agli studenti, dove abitavano uomini che, essendo i produttori di ogni bene materiale, erano anche gli unici in grado di mettere in stallo i meccanismi del capitalismo.
Ma, almeno sino alla primavera del '68, i segnali di risposta che dalle fabbriche arrivarono all'università, furono modesti, a volte poco più che individuali. La svolta decisiva venne dai fatti francesi, la notizia degli scioperi ad oltranza, delle occupazioni, delle barricate erette dagli studenti parigini. Col passare dei mesi divennero importanti anche i fatti italiani: le occupazioni, la notizia della repressione e degli arresti di studenti manifestanti o occupanti. Il potere ce l'aveva con gli studenti: era un buon argomento per trovarli interessanti. In quei mesi l'incontro operai studenti visse esperienze diverse da una sede universitaria all'altra secondo particolarità che già dalla fine del '68 risultavano difficili da ricostruire. I gruppi nati o cresciuti su quell'onda e trasformatisi a partire dalla fine dell'estate '68 in piccoli partiti, erano infatti interessati solo ad una lettura che gli permettesse di dichiararsi gli unici coerenti interpreti dello spirito della rivolta.
Anche a Genova, l'incontro tra operai e studenti ebbe una sua storia. Capitale delle Partecipazioni statali, un tessuto industriale esteso, settori della meccanica e della siderurgia molto rappresentati, classe operaia anziana governata con sicurezza dal Partito comunista e dalla Fiom, tendenze operaiste eterodosse e altre forme di dissenso decisamente emarginate; nel complesso una situazione chiusa. A smuoverla fu il combinarsi un po' casuale di alcuni processi. Uno di questi interessò l'Asgen, la fabbrica dove lavorava Gino Canepa.
Qui alcuni sindacalisti, nella seconda metà del '67, avevano preso una iniziativa mirante a conoscere e reclutare al sindacato un certo numero di giovani assunti negli ultimi mesi. La convinzione era che insieme al turn-over l'azienda stesse progettando nuovi indirizzi – sia produttivi sia nella gestione della manodopera – di cui quei giovani erano un fattore strategico. Di loro però il sindacato sapeva poco o niente: formazione, abitudini, canali di comunicazione, attese. Lo strumento scelto fu – come spesso in simili casi – l'inchiesta: quali scuole frequentate, quale specializzazione professionale, quale collocazione sul lavoro, quanto straordinario, quale inquadramento, quali effetti del lavoro sulla salute e così via. L'inchiesta, inizialmente circoscritta ai giovani e concepita in modo abbastanza strumentale, coinvolse anche altri operai. Il tema della riorganizzazione aziendale, della "nuova fabbrica" che si stava affermando, riaprì vecchie ferite e produsse discussioni inattese. Franco Sartori, comunista, operaio carrellista, uno degli animatori dell'Inchiesta, fu il primo a intuire i vantaggi che il gruppo dell'Inchiesta avrebbe tratto da una collaborazione con gli "studenti" di cui allora tutti parlavano. Da qui la decisione di mettere in campo, contro le perplessità della sezione comunista di fabbrica e le resistenze sindacali, il "comitato operai e studenti ASGEN" (inizialmente : "Un gruppo di studenti universitari-Un gruppo di giovani operai dell'ASGEN") che durante il '68 doveva conquistare un posto rilevante nell'iniziativa politica in fabbrica.
Il fatto che potesse essere distribuito in stabilimento un volantino attinente a questioni relative alla fabbrica di cui una delle due firme era "un gruppo di studenti universitari" potrebbe bastare da solo a restituire la profondità dei cambiamenti e delle lacerazioni avvenute in brevissimo tempo. Gli "studenti" del comitato ASGEN erano in realtà un gruppo molto domestico, reclutato nell'area del partito comunista, ma tanto bastava per dar vita ad un gruppo misto di "giovani operai" e studenti; autonomo – sia pure con i limiti che gli derivavano dal muoversi nel frondismo comunista – dalle organizzazioni di partito e sindacali di fabbrica. La forza del comitato, in verità poca cosa, aumentò gradualmente per l'appoggio, quasi sempre palese, fornitogli da quadri sindacali e politici e più in generale da operai "più grandi" (come Mario Sfrisi, classe 1914), per lo più comunisti, che misero la loro esperienza e le loro conoscenze al servizio del gruppetto. Fu l'inizio di un confronto interno, molto duro, che investì tutta la fabbrica: partito comunista, Fiom e Commissione interna compresi. Da una parte il comitato e i nuovo alleati che si era conquistato per via, dall'altra l'ufficialità sindacale e politica, i timorosi delle infiltrazioni anticomuniste, delle novità e specialmente degli studenti che anche in Italia, in poche settimane, avevano ormai oscurato l'epica operaia.
A giugno del '68 l'ASGEN conobbe i primi scioperi spontanei sulla base di piattaforme elaborate da assemblee dei vari reparti: diverse tra loro erano accomunate dalla critica all'immobilismo della rappresentanza sindacale giudicata impotente a fronteggiare il quotidiano aggravarsi delle condizioni di lavoro. L'agitazione, proseguita nel mese successivo con fermate spontanee e mini assemblee, culminò, il 17 luglio '68, in una assemblea generale dove, a grandissima maggioranza, venne deciso che da allora in poi solo all'assemblea di fabbrica spettava la direzione dei modi e dei contenuti della lotta.
Quella dell'Asgen non era certo la prima assemblea generale di fabbrica ma fu la prima che metteva in discussione le rappresentanze ufficiali come la Commissione interna e i vari organismi previsti dal Contratto nazionale del 1966. Nelle settimane successive anche altre fabbriche seguirono l'esempio dell'Asgen. Ma il fatto di essere stati i primi diede alla fabbrica la consapevolezza del ruolo di guida che assumeva di fronte alle altre situazioni e si tradusse in un ulteriore aumento di attenzione per ciò che stava avvenenendo in quei mesi nelle altre fabbriche e nelle università.
A ottobre, mentre il "comitato" cercava di consolidare la sua posizione – tra l'altro pubblicando un foglio "Lotta di classe" dove, oltre a documentare la "nuova fabbrica" padronale, proseguiva nell'attacco alla commissione interna – il partito comunista, preoccupato del movimento così rapidamente debordato dall'alveo assegnatogli, decideva di tirare il freno. All'ASGEN il richiamo all'ordine dei suoi iscritti voluto dal partito comunista impose la fine dei rapporti tra la sezione comunista di fabbrica e gli "studenti". Non fu la fine del Comitato: il contesto locale e nazionale era infatti rapidamente mutato e nelle fabbriche gli scioperi e le agitazioni si erano moltiplicati. Nel corso dell'estate il monopolio comunista in fabbrica era stato messo in discussione dalla nascita delle formazioni "extraparlamentari" e tra queste quella del "Manifesto", la stessa a cui alcuni del comitato facevano riferimento. A partire dalla fine del '68 la vicenda del "Comitato studenti lavoratori Asgen" andò così ad intrecciarsi con quella del "Manifesto" e poi con la radiazione dal partito del suo gruppo dirigente genovese, di poco successiva a quella nazionale avvenuta a novembre del 1969.

Nel '68 avevo ventinove anni, lavoravo nell'Istituto di Storia moderna e contemporanea dell'Università di Genova e avevo conosciuto da poco Franco Sartori (classe 1941). Entrambi frequentavamo la federazione del Partito Comunista. Fu lui che mi coinvolse nell'Inchiesta all'Asgen e da quel momento, fino ai primi mesi del '69, la nostra collaborazione fu strettissima. Franco della politica aveva l'intuizione e la univa ad una straordinaria capacità di lettura e di composizione dei fatti, dai più generali ai più particolari. Almeno due o tre volte alla settimana veniva da Sampierdarena a casa mia, in centro città. Portava notizie fresche dalla fabbrica, bozze di volantini da rivedere, documenti da interpretare, appuntamenti da fissare con questo o quel compagno. Il passo successivo – coinvolgere un gruppetto di compagni studenti convinti dell'operazione politica che stavamo portando avanti – era nelle cose. Demmo così vita all'anomalia di una sezione di fabbrica del Partito comunista con dentro un gruppetto di studenti. Dalla nostra avevamo il consenso di parte della dirigenza provinciale del partito che intendeva così dare una scossa ad una organizzazione che si voleva rinnovare. A quei tempi nessuno immaginava il putiferio che a breve avrebbe sconvolto le fabbriche e messo duramente in discussione proprio l'organizzazione comunista.
Fu appunto in una riunione della sezione dei comunisti ASGEN – una stanzetta, a poca distanza dalla fabbrica, all'interno della Società di Mutuo Soccorso "Concordia" – che conobbi Gino Canepa. Eravamo all'inizio del 1968, forse in febbraio. In seguito lo rividi altre volte. Pur non appartenendo alla nomenclatura dei comunisti della fabbrica, Gino godeva tra i suoi compagni – ma non solo – d'un evidente prestigio. Aveva un suo modo di partecipare alle riunioni: seduto quasi sempre di fianco, in posizione defilata rispetto al gruppo, ascoltava con gli occhi socchiusi, fumando, il volto concentrato. Parlava poco. I suoi rari interventi proponevano spesso riflessioni “filosofiche” o di carattere generale che avevano il potere di spiazzare i presenti, rendendoli dubbiosi sul vero argomento della riunione.
Discretamente alto, sembrava più corpulento di quanto non fosse per una certa flemma che imponeva ai suoi movimenti come al suo ragionare. Anche il suo abbigliamento non era dei più comuni. Portava sempre – era inverno – una giacca tre quarti di velluto a coste, verdastro, alla quale era molto affezionato e poi una camicia scozzese a colori vivaci accompagnata da un cappellino di lana – rossi o verdi o azzurri, ne aveva diversi e tutti col ponpon – che coprivano il cranio dove i capelli biondo rossicci se ne erano andati quasi del tutto. L'insieme aveva un che di comico di cui era consapevole e che – si capiva – non gli dispiaceva per nulla.
Rispetto ad altri comunisti della sua età – in verità non molti – che come lui avevano accettato di mettere in discussione il loro prestigio nelle riunioni di quei giorni, Gino mostrava un interesse sincero per le parole – anche quelle dal marchio più utopistico – che provenivano dal mondo di quegli “alieni” che erano gli studenti. Era poco interessato alla fabbrica e molto di più all'università. Amava sottoporre agli studenti i quesiti che più gli stavano a cuore: ad esempio sulla famiglia, sul tempo dell'apprendimento come tempo di tutta la vita, sulla medicina da intendersi prima di tutto come controllo delle condizioni di vita e di lavoro, e ancora – ma era questione da lui messa al primo posto – sull'importanza del divertimento nella scala dei valori della vita. Inoltre, al contrario di quasi tutti i presenti, non mostrava alcuna ansia circa la possibile conclusione pratica delle nostre riunioni – “che facciamo domani?”. In quei giorni in cui la politica aveva su tutti un effetto ubriacante era facile sentirgli dire che essa non andava scambiata con un fine essendo piuttosto un mezzo per raggiungere la “felicità” e il “piacere”.
Divenimmo amici anche se trovavo un po' snobistico il suo riportare la politica alla filosofia; eravamo lì per fare la rivoluzione e lui si ostinava a parlare di “piacere”. Scoprii in seguito che, nell'immediato dopoguerra, sollecitato anche dagli incontri avuti con “giovani professoresse” nelle sale da ballo di Pegli, Arenzano e altri luoghi di villeggiatura della piccola borghesia piemontese e lombarda, era andato, con un paio di amici, “a lezione di cultura”. Una o due volte la settimana, all'uscita dal lavoro, si trovavano in casa di Agostino Biagi (n.1882), pastore della chiesa battista di Sampierdarena. Già vescovo cattolico in Cina, Biagi, nel '27, era stato denunciato per sospetta appartenenza ad una cellula comunista. “Era uno coltissimo, conosceva nove lingue e aveva tradotto la Divina Commedia in cinese, ma il Vaticano, anzi proprio Pacelli quando era Segretario di Stato, l'aveva perseguitato, così lui era diventato evangelico”. Biagi era un uomo del mondo e gli raccontava di paesi lontani, di lingue, religioni e sistemi politici d'ogni tipo. Un mondo complesso a cui suggeriva di avvicinarsi attraverso parole semplici come politica ed etica. “Ci insegnava anche la storia, ma per grandissime linee, le migrazioni, i sistemi politici, i principi del governo". Si capiva facilmente come Gino avesse fatto tesoro del suo insegnamento. Ad esempio Gino proponeva – con mano leggera e senza toni didascalici – una visione della fabbrica, l'ASGEN, molto diversa da quella di Sartori. La fabbrica di Gino era un luogo frequentato da uomini e donne più che da operai e operaie. Una volta disse che uno dei suoi primi motivi di interesse per gli studenti del '68 era stata la loro ricerca di un rapporto diretto, "umano" e non solo "politico" con gli operai. Era una cosa, disse, che aspettava da anni e si riteneva fortunato di esserne stato testimone.
Accettava di buon grado ogni domanda e neppure la più personale gli appariva inopportuna. Un gioco della verità a cui si sottoponeva volentieri non per compiacere un fatuo dire di sé; piuttosto per approfondire il modo di ragionare del suo interlocutore, a maggior ragione se era una “persona di cultura". Diceva di non capire i suoi compagni di partito così sospettosi nei confronti delle frequentazioni di quei mesi tra operai e studenti. Se davvero gli intellettuali, i professori avevano deciso di interessarsi agli operai si trattava d'un'ottima cosa. Tra l'altro si offriva agli operai un’occasione straordinaria: sapere cosa quelli pensavano di loro.
Nei lunghi colloqui che avemmo in seguito fece capire che considerava tra i compiti miei e degli studenti che all'epoca si erano rivolti agli operai delle fabbriche, dare una spiegazione della “curva” che aveva preso il mondo: quel lavorare sempre di più per consumare sempre di più, il disinteresse per la cultura e il divertimento e, più importante di tutto, la nefasta diffusione delle automobili. In politica non conosceva il patriottismo di partito o di sindacato. Il passato, diceva, era passato; era del presente e del futuro che era importante occuparsi. E in quel presente e futuro erano finalmente entrati gli studenti. Le occupazioni delle università, gli slogan utopistici, l'affermazione dei comitati di base, lo slogan “tutto il potere all'assemblea” gli apparivano segnali importanti di un mondo che aveva finalmente iniziato la critica del suo modo di vita.
In seguito, a metà degli anni Settanta, acquistai un piccolo vigneto confinante col suo e divenni un ospite fisso di casa Canepa. Un’occasione per tornare a riflettere di ciò che avevamo vissuto qualche anno prima, il Sessantotto appunto. Una volta mi disse che si ricordava con precisione del giorno in cui aveva intuito che stava succedendo qualcosa di speciale. Era stato durante una riunione sindacale, una delle tante. A monte, ormai da mesi, c'era la “rivoluzione culturale” in Cina, il Vietnam, le manifestazioni degli studenti. Ancora più lontane c'erano certe lotte clamorose degli operai a proposito delle pensioni; ma, precisava Gino, si trattava di “cose di prima”. La riunione di cui lui mi parlava invece era avvenuta in un giorno preciso, convocata allo stesso modo di tutte quelle dei mesi precedenti quando “quelle cose” erano già successe e, malgrado ciò, i partecipanti non avevano mai superato la trentina. Invece quella sera, nonostante che per riunirsi avessero a disposizione solo la sala di un convento di frati non troppo vicina alla fabbrica – aveva sentito dietro a sé, mentre si incamminava, un brusio più forte del solito; uno “sci, sci, sci”, diceva lui per rendere l'idea dello strascicamento dei passi sul selciato. Si era girato stupito e aveva visto, con lo stesso interrogativo negli occhi (“ma proprio lo stesso”), un centinaio di operai; un numero strabiliante, ma non di sconosciuti. Erano infatti quelli che avrebbero dovuto esserci ma che, nelle tante riunioni precedenti, mai si erano fatti vedere.
Perché – era la sua domanda – quella sera la riunione era riuscita? Perché quella sera nessuno aveva dovuto "andare a prendere la moglie al lavoro” o “andare dal barbiere”, nessuno aveva accampato le solite scuse per andarsene a casa? E perché proprio quella sera e non un mese prima? “La Cina, il Vietnam e tutto il resto che poi è stato chiamato in causa per spiegare il Sessantotto – diceva Gino – c'erano già da mesi, ma è quella sera che, dopo non so quanti anni, tutti abbiamo pensato che dovevamo essere lì”.
Per le sue domande Gino aspettava una risposta dalla “storia”. Sapeva che non si trattava di risposte facili: dovevano infatti dar ragione nello stesso tempo sia della storia “dei molti” – come amava chiamarla – sia di quella dei singoli, come la sua. Era più facile, aggiungeva, trovare le risposte nei romanzi che non nei libri di storia. Romanzi ne possedeva parecchi. Amava Flaubert, Kafka, Calvino; io gli avevo fatto conoscere Fenoglio, Orwell, Flaiano e tanti altri. Il massimo della sua stima l'avevo conquistata quando gli avevo portato Vita e imprese di Stefanello Gonzalez uomo di buon umore. “Era quello il mio tempo – diceva – quello dove avrei voluto vivere”.


Le carte di Gino

In seguito alla morte di Gino, nel dicembre del 1991, e alla vendita della casa dove fino ad allora era vissuto, a Begato, una frazione collinare del comune di Genova, la moglie Delia mi offrì di disporre delle sue carte che si trovavano sparse in una stanza da tempo adibita a deposito di materiali diversi: vestiario, biancheria, prodotti per il trattamento del frutteto e della vigna. Oggi sono conservate presso di me in cinque raccoglitori: 1) titoli di proprietà della casa e della terra annessa; 2) documenti relativi alla vita scolastica di Gino conclusasi nel 1936-37 con un diploma di licenza della "Scuola di avviamento professionale, indirizzo industriale, Piero Gaslini", Bolzaneto; 3) corrispondenza privata di Gino costituita per la gran parte da lettere ricevute e spedite ai genitori tra il 1941 e il 1943 durante il servizio militare; 4) documenti relativi all'impiego all'ASGEN tra cui numerose buste paga, un grosso quaderno dove tra il 1955 e il 1963 Gino ha annotato i pezzi eseguiti al tornio, a cottimo, e i guadagni relativi, un secondo quaderno, simile al precedente, compilato tra il 1973 e il 1976, quando Gino era addetto alla manipolazione di vernici e resine; 5) materiali vari relativi all'attività politica di Gino (tessere di partito e sindacato, documenti politici, volantini, minute) e due quaderni a righe con annotazioni di diario. ll primo quaderno contiene la cronaca di un viaggio in Grecia e in Egitto fatto con la moglie Delia. Si tratta di 34 fogli (recto e verso) che iniziano con il 5 novembre 1963 e si concludono con il 26 dello stesso mese. Il secondo quaderno di 41 fogli (recto e verso) è intestato "1966": inizia con una annotazione in data 10 gennaio cui seguono altre 14 relative allo stesso mese. A febbraio appartengono 12 annotazioni, 13 a marzo, 18 ad aprile, 13 a maggio, 4 a giugno, 5 ad agosto, 5 a settembre, 2 a novembre. Si salta poi al 1969 (una annotazione), al 1970 (due), al 1971 (nove), al 1972 (sei), al 1973 (cinque). L'ultima annotazione è del 18 agosto 1973. Di questo quaderno riproduco le prime 75 pagine con il diario dell'intero 1966.
In casa di Gino esisteva anche una libreria – otto scaffali aperti in camera da pranzo – con una piccola biblioteca di circa 200 volumi che è rimasta in uso agli acquirenti della casa e che comprendeva una enciclopedia medica, molti classici della letteratura europea dell'Otto e Novecento e due vocabolari della lingua italiana. Gino scriveva faticosamente – "la penna mi è sempre sembrata piccola, difficile da tenere in mano; comunque scrivevo malissimo anche a scuola, basta vedere i quaderni" – e dal momento in cui l'ho conosciuto di rado l'ho visto applicarsi alla scrittura. Preferiva in ogni caso la matita alla penna – "così posso cancellare anche se poi non trovo mai la gomma" – e le minute sopravvissute di alcune lettere di genere sentimentale risultano tutte scritte matita. Faceva gli errori di ortografia tipici di chi aveva per buona parte della vita parlato il dialetto, ma della lingua parlata era curioso, appassionato. Spesso chiedeva a me, o a chi a suo parere ne sapeva più di lui, di restituire in italiano la ricchezza di un termine dialettale. "Piove vuol dire che scende dell'acqua, ma le piogge che bagnano una villa sono una infinità e tutte hanno un nome. E ci sono anche quelle che si distinguono per il vento che le porta o per come le vedi scendere". Tra queste ultime quella più decantata era la pioggia fitta portata dal Grecale, che "fiagnezza", cioè disegna nell'aria delle sequenze come quelle dei "fiagni", i filari della vigna. "Ecco – chiedeva – ce l'ha un nome in italiano una pioggia così?"
Alla fine degli anni Cinquanta aveva scoperto il Pasolini dei Ragazzi di vita e ne era rimasto affascinato. Tra il dialetto e la lingua italiana esisteva una zona intermedia, una neolingua che non apparteneva né all'uno né all'altra ma che poteva risultare più efficace di entrambe, capace di mantenere particolarità che nel passaggio tra l'uno e l'altra andavano perdute. Così, specie quando eravamo tra noi, sfoggiava volentieri le sue creazioni; a volte con verve provocatoria. Da giovane era stato un elegante dongiovanni e ballerino di successo e, nelle sale da ballo del dopoguerra, aveva stabilito relazioni con ragazze dai titoli di studio più solidi dei suoi – insegnanti ad esempio. A loro aveva inviato lettere con molti errori di scrittura, ma non banali, anzi spesso audaci nella riflessione. In quel periodo, diceva, non aveva ancora scoperto le possibilità creative che gli erano invece apparse in seguito con la lettura di Pasolini. Ad esempio gli piaceva dire "un pochettin" con cui intendeva restituire il genovese in pitinin. Così diceva suiolo, tortaiolo e cagnaro perché trovava questi derivati dal dialetto più espressivi dei corrispondenti termini italiani solaio, imbuto e canile.


Le interviste

Tra i materiali di Gino Canepa conservo le registrazioni di cinque incontri avvenuti in casa mia, a Genova, tra il gennaio e l’aprile del 1975. In quel periodo intervistavo anche altri cinque operai dell'Asgen, conosciuti alla fine del 1967, Luigi Porcile, Carlo Meirana, Paolo Cafferata, Elio di Venti, Franco Sartori. Venivamo tutti da un periodo dove di fabbrica e di operai si era parlato molto ed era consuetudine tra noi giudicare la politica e formulare proposte e desideri alla luce della "condizione operaia"; era la nostra scoperta di allora. Così se si parlava di salute, di ricerca scientifica, di scuola, di democrazia il nostro riferimento erano la fabbrica e gli operai. Perché allora, mi ero chiesto, non provare a raccontare la storia di uno stabilimento industriale, nel caso specifico l'Asgen, a cui tutti i miei interlocutori appartenevano, a partire proprio dalle loro esperienze individuali e di gruppo? Ognuno di loro si sarebbe impegnato a raccontare la sua favola, dove vita e lavoro, politica, realtà e sogni si sarebbero mescolati secondo la ricetta che ognuno avrebbe preferito. Il disegno non resse alla prova dei fatti: dopo mesi di interviste mi resi conto che non riuscivo a dare un senso univoco ai materiali prodotti. Ognuno di loro raccontava di una fabbrica che aveva in comune con quella degli altri solo un po' di nomi, di luoghi e di prodotti, ma tutto finiva lì. Forse era inevitabile e avrei potuto aspettarmelo, ma era la dimostrazione che l'esperimento che avevo in mente era fallito.
Quando avevo accennato a Gino di questo mio progetto, s'era mostrato interessato e disponibile a imbarcarsi anche lui nell'avventura. Ne è venuto fuori un lungo racconto autobiografico, forse più interessante della progettata storia dell'Asgen attraverso la memoria dei suoi operai.
Gino arrivava a casa mia con la sua vespa, subito dopo l'uscita dal lavoro, il che voleva dire almeno mezz'ora di strada. Se ne andava attorno all'ora di cena e malgrado lo invitassi a fermarsi non lo fece mai. Voleva andare a casa (ci voleva un’altra mezz’ora abbondante) perché, diceva, là c'erano moglie e madre. Durante i nostri incontri non diede mai mostra d'aver fretta. Era costruttivo, attento: negli anni successivi, quando cominciammo a frequentarci assiduamente scoprii che ancora ricordava molte delle domande con cui lo avevo tartassato. Mi ha detto che, tornato a casa dai nostri incontri, mentre era a letto prima di prendere sonno, spesso tornava a pensare a quelle domande sia per vedere se poteva propormi risposte più esaurienti sia per cercare di capire chi ero io, che cosa pensavo, che cosa spingeva me ed altri come me ad interessarsi di lui e dei suoi amici. Era convinto che l'esperienza che avevamo vissuto insieme nel '68 e nel '69 e che considerava finita ("almeno per la parte politica perché invece l'amicizia resta") era stata la grande occasione degli operai. Che però l'avevano mancata; "non per colpa degli studenti ma per colpa loro". Erano anni che aspettavamo e aspettavamo, diceva, ma non sapevamo che cosa. E quando siete arrivati voi "ci siamo impauriti, non eravamo preparati".
Ho raccolto il materiale delle interviste in un unico blocco – che intitolo Vita di Gino Canepa raccontata da lui stesso – all'interno del quale, però, è facile riconoscere le parti che lo compongono. Nel pubblicarlo mi sono limitato a eliminare le ripetizioni e qua e là a completare qualche frase o a rispettare la sintassi più di quanto non si faccia nella lingua parlata.


Manlio Calegari

Il Museo degli Operai


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