Vittorio Foa, Il paradigma antifascista: Premessa, 1, 2, 3

1. Gobetti e Rosselli





Prima del mio arresto ho scritto per i "Quaderni di Giustizia e Libertà" quattro saggi piuttosto discutibili: ero molto giovane e quegli articoli non dicevano niente di importante. Importanti sono invece due saggi di Leone Ginzburg e di Carlo Levi in cui vengono attribuite a Gobetti idee, che in realtà nei suoi libri non c'erano. Di recente, quando ho riletto le opere di Gobetti, ho trovato straordinarie le cose che Carlo Levi è riuscito a fargli dire. Per esempio le cose che Carlo Levi ha scritto sul fascismo erano bellissime, ma non tutte venivano da Gobetti. Prendi l'idea del fascismo come delega totale: se la democrazia è un sistema fondato sulla rappresentanza, che implica una delega a governare, il fascismo è un sistema di delega totale e definitiva, ossia, paradossalmente, è una forma estrema di democrazia. L'idea che Levi si faceva del fascismo era una sorta di estensione della critica, durissima, che rivolgeva alla democrazia rappresentativa e che era fortemente influenzata dal pensiero di Mosca.
Ho detto Gobetti, ma penso anche a Rosselli: i contributi di pensiero di Levi e di Ginzburg erano, a mio avviso, anche più interessanti di quelli di Rosselli e dei fuoriusciti. A Torino si viveva in una solitudine che favoriva la riflessione e permetteva di non restare prigionieri dell'immediatezza della politica. Non si doveva persuadere nessuno né si era costretti ribadire la propria identità. Rosselli, invece, come leader di un gruppo politico in polemica con altri gruppi antifascisti e in lotta contro il fascismo, doveva continuamente tener conto dei risultati della sua propaganda, dell'eco che le sue parole potevano avere.
Nel mio ultimo libro, Passaggi, mi sono posto il problema della parola in politica, leganto al tema dell'ascolto. In politica chi parla non dialoga mai davvero, perché deve innanzi tutto adoperare parole che in qualche modo possano certificare la sua identità. Se voglio dimostrare di essere socialista, devo usare parole dalle quali l'ascoltatore mi possa riconoscere come tale. La mia idea è che sia necessario, invece, in politica parlare ascoltando. Ho sempre pensato al silenzio forzato dell'antifascismo in Italia come a una situazione privilegiata rispetto a quella degli emigrati. I fuoriusciti dovevano testimoniare continuamente chi erano, che cosa facevano, che cosa avevano fatto. C'era in loro, inevitabilmente, uno spirito di emulazione, di competizione con gli altri. In noi no: noi torinesi mandavamo all'estero scritti nei quali cercavamo di riflettere su quel che era l'Italia, punto e basta. Ed è questo che probabilmente d'Orsi non ha capito, o non ha voluto capire… D'Orsi sostiene che gli intellettuali antifascisti torinesi erano in qualche modo condizionati dal fascismo e che, per opportunismo scendevano a mille compromessi. Ma i grandi quadri del periodo lucano Levi li ha fatti quando era confinato. Era un opportunista? La sua arte era condizionata dal fascismo? Lo era il nostro pensiero, i nostri comportamenti? No davvero. La verità è che, semplicemente, noi avevamo una percezione del fascismo dal di dentro, non esterna, non meramente ideologica come i fuorusciti. Ma D'Orsi è convinto che i comunisti fossero in Italia gli unici veri antagonisti del fascismo e cerca di dimostrare che gobettiani e giellisti erano politici improvvisati e antifascisti "per caso".
C'era una marcata differenza fra Levi e Ginzburg. Ginzburg era fondamentalmente un grande filologo, dotato di una straordinaria capacità pedagogica, di una cultura vastissima e di forte recettività. Levi, invece, inventava: inventava quando dipingeva e inventava quando faceva politica e, in entrambe i casi, lo faceva molto bene. Ha inventato una tesi politica, la tesi dell'autonomia, che poi ha attribuito a Gobetti, ma che, a mio avviso, in Gobetti non c'è, ed era tutta sua. Le idee di Levi sull'autonomia, alle quali ho aderito con molta convinzione, sono lì, negli articoli sui "Quaderni di Giustizia e Libertà".
Rientrano nella tradizione consigliare la cui forza di suggestione sta nell'immaginare la trasformazione della società come incorporata nell'atto stesso, non separata dall'azione rivoluzionaria. La democrazia diretta è questa cosa qui: può assumere forme particolari, per esempio quella della revocabilità da parte dei rappresentati della delega concessa ai rappresentanti, ma nell'essenza è tutta qui. L'autonomia di Levi è poi concepita in un contesto di tipo federativo: a questo riguardo ci sono nei "Quaderni" molti articoli, alcuni dei quali derivavano da Cattaneo ma altri da Silvio Trentin socialista e, appunto, teorico del federalismo, che vedeva il socialismo non come gestione statale della ridistribuzione sociale, ma come creazione autonoma del mondo del lavoro, come sistema di autonomie locali.
Per noi di GL l'autonomia era anche autonomia operaia, intesa come risposta al potere padronale da parte degli operai, che doveva nascere lì, nella fabbrica, dove c'era l'organizzazione dell'autorità. Credo però che questa linea non sia né gobettiana , né genericamente azionista, ma sia molto azionista piemontese, anzi, torinese e prevalentemente un prodotto di Carlo Levi. Bisognerebbe vedere se è realmente così e in che modo Ginzburg accoglie queste idee, se Lussu e gli altri fanno altrettanto. Nei "Quaderni" le posizioni più interessanti sono quelle dei piemontesi, e tra queste meriterebbero attenzione quelle di Mario Levi, fratello di Natalia Ginzburg.
In Gobetti la rivoluzione aveva come punto di forza la classe operaia. Ma credo che i consigli rappresentassero per lui proprio quello che rappresentavano per Gramsci e per l'"Ordine Nuovo" nel 1919: non una espressione di autonomia operaia, ma uno strumento per costruire il Partito Comunista.
È un discorso un po' complicato. Ho dedicato alla questione dei consigli un libro, La Gerusalemme Rimandata, che fra tutti mi è più caro. Quando, negli anni '70, lavoravo a questo libro, mi sono accorto di diverse cose, tra cui, appunto, del fatto che il movimento consigliare dell'"Ordine Nuovo" non era legato tanto all'idea di autonomia, quanto alla volontà di rompere con il socialismo. Lenin aveva detto che bisognava far fuori il partito socialista e il movimento consigliare poteva essere il modo di farlo. Non è un caso che, durante l'occupazione delle fabbriche, nella sezione centro della Fiat, il segretario del consiglio delle commissioni interne, Giovanni Parodi, con il quale, poi, io ho lavorato a Roma, aveva dato vita a un movimento consigliare il cui unico obbiettivo che era la scissione del partito socialista e la nascita del partito comunista.
Se uno riprende gli scritti di Gobetti, vede che la sua linea era molto simile a quella dei comunisti del 1919. Piglia il Paradosso dello Spirito Russo che Ginzburg recensisce nei "Quaderni". Gobetti faceva ripetutamente riferimento al pensiero religioso e in questa luce esaltava l'esperienza bolscevica, che per Gobetti era ancora principalmente quella del comunismo trotskijsta. Io ho esaminato attentamente gli articoli di Gobetti sui consigli: sono presi quasi alla lettera dall'"Ordine Nuovo" e alla base dell'esperienza dell'"Ordine Nuovo" non c'era l'idea dell'autonomia delle masse, c'era l'idea del partito. I partiti comunisti si sono formati sulle esperienze consigliari, che, anche se piene di contraddizioni, erano esperienze di autonomia forti. Però c'era da subito l'idea di far partito. E l'ultimo Gobetti era comunista e basta.
Assieme all'idea che bisognasse rompere con la tradizione socialista, nell'esperienza consigliare c'era anche l'idea che la classe operaia si fosse ormai impadronita della cultura del padrone e fosse tecnicamente capace di gestire la fabbrica tanto quanto il padrone. Non c'era però l'idea di una cultura specificamente operaia, non c'era l'idea che nell'azione della classe operaia potesse già esserci la nuova società. Se uno va a rivedere gli scritti riguardanti le occupazioni del 1920, in tutte le città dove queste avvengono, le posizioni dei comunisti si attestano sempre sulla rivendicazione del sapere padronale e non del sapere operaio. Questi consigli operai li ho studiati in particolare per l'Inghilterra, nel Clyde e a Glasgow nel 1915, nell'Inghilterra settentrionale nel 1917, e mi sono formato la convinzione che il fallimento dell'autonomismo consigliare fosse dovuto proprio alla mancata rottura con il sapere padronale.
Li ho visti come tentativo di far nascere una politica dalla stessa condizione operaia, una politica, dunque, che non calasse dall'alto, ma che venisse dal basso, dalle contraddizioni interne della classe operaia e come coscienza di queste contraddizioni, che è la condizione per risolverle. Però dopo il 1917 il movimento consigliare è stato assorbito da una idea più elementare: quella che la rivoluzione in Occidente fosse impossibile e che il solo modo per salvaguardarla fosse difendere il primo stato rivoluzionario, la Russia.
I comunisti guardavano al movimento dei consigli non come a un moto di autonomia, ma come occasione di rottura con la tradizione socialista e in particolare con il determinismo storico, proprio di quella tradizione, che ipotizzava nella storia tante fasi successive, dove il passaggio alla fase più avanzata era possibile solo quando la precedente fosse sufficientemente matura. La cultura del primo '900 aveva rifiutato il determinismo. L'attivismo, il volontarismo suggerivano che le cose si potessero fare anche subito, senza rispettare rigide gradualità, saltando, se necessario, le tappe intermedie.
Queste cose noi, giellisti e azionisti, le abbiamo apprese anche attraverso Gobetti. E avevamo simpatia per i comunisti, nonostante il loro autoritarismo, proprio perché anche noi eravamo contro il determinismo storico. Bisogna fare delle cose? la rivoluzione? il socialismo? be' si fanno!
L'influenza di Gobetti a Torino è stata molto forte. Ma quanto ai suoi effetti mi sono venuti dei dubbi, che mi hanno anche creato qualche problema con i giovani gobettiani di Torino. Noi abbiamo preso da Gobetti alcune cose. Tra queste c'è l'intransigenza, quella che lui cercava in Vittorio Alfieri e che ha sempre praticato nella sua vita di scrittore, di giornalista e di editore. Gobetti è stato un grande editore e anche nel suo modo di fare l'editore invitava a parlare e a esprimersi in un continuo richiamo alla libertà e ai doveri che la libertà pone. Noi sentivamo fortemente il suo disprezzo per l'opportunismo e la piccineria, e penso, ad esempio, che questo abbia avuto una grossa influenza su di me personalmente. Noi questo disprezzo lo avevamo interiorizzato ed è diventato l'imperativo di salvaguardare la "dignità del ruolo". Il nostro ruolo di oppositori era la testimonianza, che richiedeva una certa dignità, l'impossibilità di dire e fare cose meschine o volgari.
Nelle mie lettere dal carcere c'è una vicenda, per la quale mi arrabbiai moltissimo: una ragazzina aveva fatto per me una domanda di grazia al Duce. Io ignoravo del tutto la cosa, anche perché con quella ragazzina non avevo alcun rapporto. La domanda mi venne portata dall'Ovra in cella: quando lessi quel foglio, ci scrissi sopra un bel no, sottolineandolo tre volte. Nei documenti dell'Ovra è detto che il condannato ha rifiutato di aderire alla domanda. Ecco: questo rifiuto deve molto all'esempio gobettiano.
L'essere antifascisti, però, allora, presentava davvero il rischio di farsi determinare dal fascismo, nel senso che se io dico semplicemente di no, finisco con l'essere determinato da ciò che nego. Ed è appunto quello che accadeva all'antifascismo propagandistico. Quando abbandonavamo il facile linguaggio della propaganda, capivamo che, ci piacesse o meno, nel fascismo c'era lo Stato italiano e che quindi non potevamo disfarcene semplicemente negandolo. Dovevamo sforzarci di vedere che cosa era in sé il fascismo, non solo quello di cui il fascismo era la negazione. Allora, l'essere antifascisti voleva dire esserlo criticamente, significava capire i risvolti "attivi" e "affermativi" che c'erano nel fascismo e nel paese che si era evoluto in senso fascista, senza illuderci che il fascismo si fosse semplicemente imposto e sovrapposto ad una presunta anima democratica dell'Italia.
La scelta di campo antifascista ti coinvolgeva al punto che alle volte avevi il timore di essere intellettualmente zoppo, incapace di analisi critica, perché il coinvolgimento morale e politico era troppo assorbente rispetto a ogni altra cosa. Io ho provato spesso questo timore. Invece, se penso a Levi e a Ginzburg, che erano intransigenti quanto me, non vedo nulla di cieco o di acritico nella loro intransigenza.
Da Gobetti oltre all'intransigenza, abbiamo preso altre due cose che, però, alla lunga avrebbero segnato la nostra sconfitta politica. Una era la convinzione che il socialismo storico fosse morto. Noi abbiamo creduto che fra riformisti, rivoluzionari e massimalisti quella esperienza fosse finita. In Gobetti era fortissima la convinzione, che oggi viene tenuta un po' in ombra dai suoi storici, che l'unico vero socialismo fosse il comunismo sovietico. L'altra cosa che abbiamo preso da lui era la critica radicale della democrazia politica, che noi sapevamo essere l'unica accettabile via di uscita dal fascismo e l'unico modo di creare qualcosa di decente in Italia, ma di cui percepivamo tutti i limiti. In Gobetti il disprezzo per la democrazia parlamentare era molto forte e noi lo abbiamo bevuto tutto. Era una posizione che, come ho già detto, veniva in parte dal pensiero di Mosca, che, appunto, con la critica alla democrazia e con la teoria delle élites aveva detto delle cose straordinariamente intelligenti. Le teorie di Mosca hanno avuto però due sviluppi completamente diversi: uno di destra, nel senso di Oriani e del fascismo, ove l'unica alternativa alla democrazia rappresentativa era la forza, l'autoritarismo e l'altro di sinistra, e penso a Gobetti e a Dorso, ove l'alternativa era invece la rivoluzione. L'idea che il fascismo fosse espressione non tanto del grande capitale, quanto della piccola borghesia che riproduce se stessa continuamente in forme diverse, restando sempre la stessa, meschina, chiusa, incapace di solidarietà vera, spingeva Gobetti e Dorso, a sostenere la necessità di una rottura rivoluzionaria. Che cosa poi dovesse contenere questa rivoluzione nessuno, però, l'ha detto.



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Vittorio Foa

Il paradigma antifascista


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Indice

Premessa

1. Gobetti e Rosselli

2. Effetti dell'attivismo giellista

3. Il popolo italiano e il paradigma antifascista



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