Vittorio Foa, Il paradigma antifascista: Premessa, 1, 2, 3

2. Effetti dell'attivismo giellista





Ecco: noi abbiamo preso queste due cose da Piero Gobetti e su queste due cose noi, ossia il Partito d'Azione, siamo stati sconfitti. Ci siamo dovuti accorgere tra il '43 e il '46 che queste due cose non funzionavano. Abbiamo dovuto prendere atto che il socialismo tradizionale era ben vivo e per una ragione profonda, che noi non riuscivamo a vedere. Vedevamo che i socialisti non erano presenti nelle fabbriche e nel movimento partigiano o che vi erano presenti solo in forza di accordi di vertice, che noi, naturalmente, disprezzavamo e nelle prime elezioni dopo la Liberazione non ci aspettavamo davvero il successo del Partito Socialista. Non capimmo che esso nasceva dalla voglia diffusa, dopo tante sofferenze, di cambiare, sì, qualcosa, ma senza traumi, senza violenza. I socialisti, per la verità, facevano uso di un linguaggio violento, di tipo sovietico, ma la gente non li prendeva sul serio e votò socialista nel '46 - persino la regina Maria Josè votò socialista - perché voleva qualcosa di nuovo, ma in modo pacifico. Noi eravamo alla ricerca di un socialismo autonomo e libertario, intimamente rivoluzionario e siamo stati sconfitti dal riemergere del socialismo tradizionale come fattore di rassicurazione.
L'altro elemento su cui siamo stati gobettiani sino in fondo, e abbiamo perduto, è stato - lo ripeto - il disgusto per la democrazia classica. Disgusto è forse una parola sbagliata. Però… Ho riletto recentemente il Manifesto di Ventotene, quello dei federalisti europei, scritto da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. È tutta una polemica contro la democrazia rappresentativa. L'azionismo è venuto fuori a dire basta con questa roba, bisogna fare qualcosa che venga direttamente dal popolo e che attivi la volontà popolare. Che ci volesse la democrazia rappresentativa l'abbiamo capito, ma, in fondo, la consideravamo un elemento non dico marginale, ma quanto meno da integrare con la democrazia diretta, con l'autonomia operaia, con l'iniziativa dal basso, che sola avrebbe dato alla democrazia un contenuto di liberazione vera, perché la democrazia rappresentativa di per sé non ha contenuti, fornisce, tutt'al più delle garanzie formali. Questa convinzione dell'insufficienza della democrazia rappresentativa l'abbiamo ereditata da Gobetti.
Certo, l'eredità gobettiana era anche un elemento di forza. Sul quale, però, abbiamo perduto. L'intransigenza che abbiamo adottato come insegna ci ha fatto fraintendere dalla gente quando abbiamo dovuto affrontare la costruzione di uno Stato e la formulazione della sua costituzione. Abbiamo creduto per molto tempo, proprio perché eravamo intransigenti, e perché le cose non andavano come avremmo voluto, che fosse in corso una restaurazione. E invece no. Era qualcos'altro, che non era ciò che volevamo noi, ma non era neppure una restaurazione. Era una cosa diversa, nuova. Franco Venturi, uno dei nostri grandi torinesi, diceva che il Termidoro non era stato una restaurazione, ma, piacesse o meno, qualcosa di nuovo. Ho ricordato questa frase nella prefazione degli scritti politici di Venturi. Venturi viveva a Parigi, perché suo padre era emigrato lì, ma era un torinese e ha fatto tutta la Resistenza a Torino, come dirigente del Pd'A. Venturi nel suo realismo, agli insoddisfatti della democrazia parlamentare, che vedevano dappertutto Termidoro (e con Termidoro intendevano la restaurazione) non si stancava di ripetere che stava invece nascendo in Italia qualcosa di nuovo e che quando nasce qualcosa di nuovo, bisogna innanzi tutto cercare di capire che cosa è.
Carlo Levi ha raccontato la nostra sconfitta nell'Orologio, dove ha fatto l'apologia di Parri e ha dipinto me e Spinelli come giovani dirigenti del partito tutti presi dai giochi della politica-tecnica. Fede, quello che veniva dalla prigione, ero io. Dice che Fede viveva nel cielo sacro della prigione, così alto e lontano che non riusciva a vedere il contadino in carne e ossa. In questo un po' mi ci riconosco: quel giudizio l'ho registrato e accettato. Quando sono entrato nel sindacato, ho cercato appunto di riprendere il contatto con la realtà, con la realtà del lavoro proletario. Quando scopro negli uomini esperienze e valori che prima non conoscevo, vengo trascinato dall'entusiasmo. La scoperta del lavoro proletario è stata uno di questi momenti. Ne Il Cavallo e la Torre, ho raccontato che quando sono entrato nella segreteria confederale, e ho cominciato a girare, sono venuto a contatto con settori per me nuovi del lavoro, dai contadini del Piemonte ai coloni del Mezzogiorno e non più soltanto con i metalmeccanici di Torino, a cui si era rivolta la mia prima attività di sindacalista.
Nell'Orologio Levi dice che Fede, cioè io, voleva tutto, ma non sapeva che cosa voleva. In realtà io volevo l'azione, volevo dei fatti. Ero circondato dai poeti. Nell'Orologio Ferruccio Parri è descritto come una figura piena di fascino, così incapace di fare il Presidente del Consiglio da apparire, nelle parole di Levi cariche di amore, un poeta. Allora ho avuto modo di conoscere molto bene Parri e anche a me appariva un poeta. Poi c'era Lussu, questo grande signore sardo, che dava grandi, divertenti sciabolate. Da Don Chisciotte vedeva la vita come una grande battaglia, come un torneo. Poi c'era Dorso, l'erede di Gobetti. Allora era apparso a noi come il grande campione del Mezzogiorno. Era un gobettiano meridionale, che diceva che la piccola borghesia meridionale fregava sempre i contadini e quando sembrava voler fare qualcosa di nuovo, finiva per fregarli nuovamente.
Secondo Dorso si doveva fare la rivoluzione. Io avevo letto di Dorso la Rivoluzione meridionale, nell'edizione di Gobetti del 1924, un bel libro che mi era rimasto impresso. Ma il vero meridionalista era Rossi Doria, che cominciò a dire che esistevano diversi tipi di Mezzogiorno, quello interno e quello costiero, per esempio, e che non si poteva fare la rivoluzione, ma bisognava invece fare delle cose. Il vero azionista meridionale, che voleva fare delle cose, e poi le ha fatte davvero con la Democrazia Cristiana e con i socialisti, era Rossi Doria. Guido Dorso era il poeta, Rossi Doria era il politico, il tecnico.
Dorso lo avevamo fatto responsabile dell'azione meridionalista e fu un fallimento, perché entrò subito in conflitto con altri meridionalisti, anche del nostro partito. Dorso parlava con il suo tono profetico e sottolineava lo schifo della situazione, la necessità della rivoluzione, ma non ricordava mai i contadini: non li aveva ancora scoperti. A un certo punto sia Levi sia Rossi Doria si avvicinarono a Dorso e nelle elezioni del'46 inventarono, su sua richiesta, una lista non di partito, una lista di meridionalisti rivoluzionari, che si presentò a Bari con Pasquale Fiore e a Potenza con Guido Dorso. Gli azionisti di Bari, tra cui Calace, che era stato in prigione per molti anni, accettarono questo tentativo e ci si buttarono con entusiasmo. Anche Levi e Rossi Doria, che erano su posizioni più concrete di Dorso, ci si buttarono con entusiasmo. Fu una sconfitta spaventosa, che parve ancora più grande per le illusioni che ci eravamo fatti vedendo i comizi sempre affollati. Ma la gente, allora, andava a tutti comizi. Una vera sconfitta gobettiana…
Insomma, io, rispetto ai politici-poeti, ero un politico-tecnico. Lo dico con un po' di autoironia, come dire, vi guardo, poeti, vi ammiro, sono in ginocchio, sono un povero diavolo che vive la sua politica-tecnica... È una canzonatura di me, naturalmente, non di loro. Anche perché, poi, chissà, anch'io, forse, ero un po' poeta...



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Vittorio Foa

Il paradigma antifascista


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Indice

Premessa

1. Gobetti e Rosselli

2. Effetti dell'attivismo giellista

3. Il popolo italiano e il paradigma antifascista



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