Vittorio Foa, Il paradigma antifascista: Premessa, 1, 2, 3

3. Il popolo italiano e il paradigma antifascista





Penso che le scelte politiche che abbiamo fatto allora siano state molto legate al nostro tipo di antifascismo, che era l'antifascismo delle autonomie, l'antifascismo del popolo che si ridesta e viene avanti. Il mio impegno nell'antifascismo è stato fortissimo, ma, come ho detto più volte, non era legato né a una sorta di pessimismo cosmico, né all'idea che l'Italia fosse costituzionalmente malata. Quando Gobetti va a Parigi sottolinea che vuol rompere con l'Italia, che a Parigi non ci va a fare lotta politica, ma cultura europea, il che va benissimo. Però è chiaro che poteva suonare come un segnale di abbandono, come un dire agli italiani, agli antifascisti, fate un po' quel che vi pare, io me ne vado… Gobetti lo dice esplicitamente: la Francia è il luogo dove posso essere quello che sono. In un articolo di un Annuario del 1999 dell'Istituto Einaudi, D'Orsi parla del malfrancese, si intitola Il malfrancese nella cultura torinese. Non è un gran che, ma c'è qualche citazione gobettiana interessante.
Il nostro antifascismo era dettato piuttosto dalla voglia di "risvegliare" gli italiani. Questa immagine del risveglio ci era stata suggerita da Rosselli. L'idea di un Italia costituzionalmente malata è antica e si trova in fondo già in Machiavelli, e c'era nel Gobetti di Carlo Levi È l'idea che l'italiano per natura non ha il coraggio di lottare, di esistere, di affermarsi. Su "Giustizia e Libertà", il settimanale di Parigi, c'è stata una polemica molto interessante al riguardo: si trattava del rapporto tra Risorgimento, fascismo e antifascismo. Alcuni giellisti, soprattutto Nicola Chiaromonte e Andrea Caffi, negavano che gli ideali e l'azione di GL fossero in continuità con quelli del Risorgimento. Il Risorgimento, sosteneva Chiaromonte, aveva generato anche il fascismo ed era inutile nasconderselo. Insomma Chiaromonte e Caffi contestavano Rosselli e il modo un po' facile e propagandistico con cui cercava di accaparrarsi l'eredità risorgimentale.
Chiaromonte era durissimo nel giudicare il Risorgimento e gli si oppose l'allora giovanissimo Venturi, negando la possibilità di prendere una realtà storica e giudicarla o buona o cattiva nel suo insieme. Rosselli, un po' suo malgrado, accettò la posizione di Venturi: la ripeté con meno rigore ma con la sua grande capacità di mediazione e riuscì a mettere d'accordo le diverse voci. Il giudizio sul Risorgimento era importante per valutare quale conto si potesse fare del popolo italiano. A scomporre l'esperienza risorgimentale qualcosa di buono si trovava, prenderla tutta assieme era una rovina. Chiaromonte e Andrea Caffi, che erano uomini di grande intelligenza, si occupavano allora del problema della società di massa, e sostenevano che con il suo avvento qualcosa era finito per sempre, anche la tradizione, in fondo aristocratica, del Risorgimento, lasciando il campo alla plebaglia fascista, ossia al popolo nella sua peggiore espressione.
Per noi l'idea del risveglio degli italiani era un'idea-forza. L'idea di un'Italia costituzionalmente malata implica quella di un rapporto terapeutico con il popolo italiano. In un rapporto di tipo terapeutico l'attore dell'eventuale guarigione è il medico, mentre il paziente è passivo. Invece l'attore del risveglio è il popolo stesso.
Noi avevamo puntato molto sull'idea del risveglio. Però quando ripenso alla Resistenza, mi viene il dubbio che rappresentandola come risveglio, abbiamo di fatto assolto il popolo italiano dal suo essere stato fascista. Abbiamo presentato gli italiani come se sotto sotto fossero stati antifascisti, ma antifascisti dormienti. Forse è stato un bene, perché in questo modo abbiamo dato alla Repubblica un paradigma antifascista. Poi i comunisti, visto che nel '45 abbiamo liberato l'Italia dai tedeschi oltre che dai fascisti, hanno negato anche l'esistenza di una guerra civile riconducendo la Resistenza alla formula della guerra patriottica, della guerra di liberazione: il vero nemico, insomma, era il tedesco, mentre i fascisti italiani erano semplici strumenti dell'occupante.
Quali sono state le luci e le ombre di questa nostra scelta? Le luci ci sono, perché il paradigma antifascista ha impedito, anche negli anni più bui della guerra fredda, un imbarbarimento della situazione. Il paradigma antifascista ha permesso, e, per così dire, costretto la Democrazia Cristiana a fare una cosa assai importante: isolare i fascisti. Ci sono stati momenti difficili con Sturzo prima, poi con Tambroni nel '60, ma De Gasperi e Fanfani hanno tenuto fermo, nonostante tutti i loro limiti, a questa linea.
Le ombre consistono nel non aver messo in discussione il passato. Leggevo ieri la prefazione agli scritti di Lutero di uno storico dell'Università di Pisa, Prosperi. La figura di Lutero assolutista, fortemente antisemita e non solo per motivi di religione… Quella che pone il pensiero di Lutero alle radici del Nazismo è una tesi diffusa, che Adriano Prosperi giustamente rifiuta. In realtà il nazismo ha avuto molte fonti e tra queste, forse, anche le teorie di Lutero. Be' i tedeschi hanno fatto passare due generazioni prima di parlarne, ma poi hanno discusso la questione del nazismo con estrema franchezza. In Italia, ricorda Prosperi, la campagna razziale del '38, è stato un episodio durissimo, durante il quale uomini come Bottai si sono macchiati di atti crudeli, ma non ha spinto nessuno ad indagare a fondo sulle colpe degli italiani che hanno condiviso quegli atti. Basta pensare all'impunità garantita ai professori che avevano preso il posto dei colleghi allontanati dall'università perché ebrei, come se non sapessero che cosa stavano facendo: non hanno neppure dovuto restituire le cattedre! Insomma, come dice Prosperi, i tedeschi discutono il loro passato, gli italiani no.
Questa mancanza d'analisi critica mi pare evidente e da tempo penso che sia all'origine delle nostre difficoltà nell'affrontare la corruzione, la mafia, lo stesso terrorismo, cioè i grossi nodi della nostra vita nazionale. E se in Italia non si è affrontato il passato, è anche colpa nostra, di noi antifascisti, che abbiamo assolto, almeno in parte, gli italiani raccontando loro una pietosa bugia. Io non penso più che gli Italiani fossero semplicemente addormentati. Penso che li abbiamo assolti dalle loro colpe, che non siamo andati a vedere dov'era il guasto, nel fascismo e prima del fascismo.
Naturalmente queste nostre colpe, le colpe degli antifascisti, ammesso che siano colpe, sono molto inferiori a quelle del fascismo. Però mi domando se l'antifascismo mentre ha fatto cose molto buone, non abbia permesso anche alcune cose cattive, come la sordina messa per amor di patria all'adesione di massa degli italiani al fascismo. So già che mi diranno che questa è una posizione revisionista, ma, insomma, è certo che gli italiani erano fascisti, non è possibile negarlo. Sapessi com'era profonda la solitudine di un antifascista nei primi anni Trenta! eravamo soli, solissimi.
Ci troviamo oggi in una situazione in cui rimettere in discussione il mio passato, le mie idee di un tempo, rischia di farmi apparire vicino alle posizioni del revisionismo, che si sforza di rivalutare i valori che io ho sempre negato e nega quelli per i quali mi sono sempre battuto. Il revisionismo sostiene, per esempio, che durante la Resistenza c'erano due schieramenti che si affrontavano per degli ideali diversi ma equivalenti o almeno ugualmente meritevoli di rispetto. Io ho sempre pensato, invece, che quegli ideali fossero assolutamente opposti. Una volta ho partecipato a una trasmissione televisiva con Pisanò, uno dei fondatori del Movimento Sociale, che allora era senatore. Pisanò mi si è rivolto dicendo: "Lei sa quanto me che avevamo degli ideali tutti e due. Diversi, certo. Ma la patria era un valore per lei e per me". Io gli ho risposto "Senta, sarà pure come dice Lei. Però se vinceva Lei io sarei ancora in prigione. Avendo vinto io, Lei è senatore della Repubblica e parla qui con me".
A proposito dell'adesione degli italiani al fascismo c'è naturalmente da stabilire quale fosse la natura di quel consenso. Come vedevamo allora questo consenso e come lo vedo adesso io? Trovo abbastanza utile questo confronto tra passato e presente, anche se non bisogna usare le parole di ora per allora, perchè le parole di oggi sono piene di mille altre esperienze.
Riguardo al consenso c'è una tesi, anche questa proposta da Pavone, che ipotizza l'esistenza nell'opinione pubblica di una zona grigia, nella quale la gente non sta né da una parte, né dall'altra. Io ho qualche dubbio in proposito, un dubbio che nasce dalla mia stessa esperienza. Io vedevo allora le cose cambiare attorno a me e l'evoluzione del consenso al fascismo non era affatto lineare. Credo che la cosa nascesse dalla natura specifica del consenso in un regime autoritario (e a maggior ragione in un regime totalitario) nel quale il compito del capo è, per così dire, di omologare tutti. In un regime totalitario il capo riesce in un modo o nell'altro a convincere il popolo a pensarla come lui, e nel popolo il consenso di ciascuno si esprime nel farsi omologo agli altri, ossia nel non mostrarsi diverso, nel non dare la sensazione di essere diverso. Il consenso in questo caso non è il voler agire come gli altri, ma il non voler agire diversamente dagli altri. Anche questa omologazione, per la verità, in Italia è riuscita solo in parte.
Visto che parlo di presente e di passato, forse è opportuno dire ancora qualcosa sull'uso della memoria. Io dico spesso che non bisogna essere prigionieri della memoria. Cosa vuol dire essere prigionieri della memoria? Vuol dire concepire la memoria come mera riproduzione di quel che è stato, che si è creduto, che si è pensato. Mentre la memoria, che è comunque selettiva, è sempre una risposta alle domande di oggi. La memoria viene sollecitata dal presente. Il passato, allora, non è qualcosa di oggettivo, di chiuso in sé, e non puo`essere puramente e semplicemente riprodotto, perché è sempre ripensato da un essere vivo. Certo, nel passato ci sono eventi incontrovertibili. Se ci sono i documenti che ne testimoniano l'esistenza, non si può negare che siano avvenuti. Ma la testimonianza, la memoria, non è essa stessa un documento?
Io sento molto il fatto che la schiera di testimoni di cui faccio parte stia scomparendo. Tra pochi anni non ci sara`piu`nessuno di noi. Ho vissuto da giovane e poi da uomo maturo la scomparsa dei reduci della Prima Guerra Mondiale. Li vedevo scomparire uno ad uno, finché sono scomparsi tutti. L'assenza della loro testimonianza la sento come una perdita, direi quasi un pericolo. La storia si fa con i documenti. Però anche la testimonianza è un documento.
C'è chi dice che tutto è relativo, che "la storia è lo storico che la fa". Questo genere di teorie relativistiche sta alla base del revisionismo e ne costituisce la legittimazione. Si può sempre discutere, ma quando il revisionismo nega i fatti, ad esempio l'esistenza delle camere e gas, ogni discussione è impossibile. C'è un sì o un no, punto e basta. Lo stesso quando inventa qualcosa. Quando De Felice, nonostante che non ci sia alcuna testimonianza in merito, afferma che Mussolini aveva nelle mani un pacco di lettere di Churchill penso che abbia bene il diritto di pensare che tra i due ci fosse stata una corrispondenza, ma anche che, visto che non c'è alcuna prova, non abbia affatto il diritto di trasformare in prova una sua congettura.
Rimettere in discussione il proprio passato non significa essere contigui con il revisionismo. Il fatto è che bisogna sempre dire la verità, senza subordinare l'analisi del passato alla strumentalizzazione che può esserne fatta. Ma che cos'è poi la verità? Una volta un giovane prete mi ha chiesto: "Nei suoi libri parla di giustizia e parla di libertà e io capisco. Ma non parla mai di verità". La domanda era pertinente: la verità di cui mi chiedeva conto non era la verità rivelata, quella di Dio, era la verità degli uomini. Io non parlo della verità perché mi trovo continuamente a doverla cercare demistificando le "verità" della mia parte politica (ed è così che posso apparire "contiguo" ai revisionisti).
Ecco, questo discorso della demistificaziomi mi fa ripensare a Levi: immagina il giovane Levi al confino, in Lucania, che esce dalle sue esperienze torinesi, parigine, dal movimento di Giustizia e Libertà, e incontra quella gente di laggiù: quanti schemi, quanti pregiudizi, quanti miti deve abbandonare… Certo ci si può anche domandare se il passaggio dal mito all'analisi critica sia sempre reale, se in questo passaggio non accada talvolta di scambiare semplicemente un mito con un altro…



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Vittorio Foa

Il paradigma antifascista


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Indice

Premessa

1. Gobetti e Rosselli

2. Effetti dell'attivismo giellista

3. Il popolo italiano e il paradigma antifascista



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