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Montaldi e i protocolli ideologici del PCI: 1, 2, 3, 4, 5, 6, indice dei nomi
La sfortuna
Il Saggio sulla politica comunista in Italia
(1919-1970) venne pubblicato postumo nel 1976 dai “Quaderni piacentini”,
cioè da un non-editore, dopo che era stato rifiutato dagli editori presso cui
Montaldi aveva lavorato e pubblicato: Feltrinelli ed Einaudi. Era stato un
lavoro lungo e tormentato, sviluppatosi nel corso di un decennio, con varie
interruzioni dovute alle gravi difficoltà materiali, ai molteplici impegni
politici, alle scelte costantemente controcorrente. Montaldi era però certo
dell’utilità e necessità della sua ricerca: «Per questo sono venuto via dalla
casa editrice. Per poter completare dopo tante andate “alla base” un discorso
sul comunismo che questa volta partisse dal vertice, e anziché arrivare alla
questione totale prendendo le mosse dalla rivendicazione minima, questa volta
partisse dalla critica generale per giungere a compiti immediati, pratici e
organizzativi»[1].
Per un insieme
di motivi, non casuali, il libro ha ben poca fortuna e rimane l’opera meno
conosciuta e meno apprezzata di Montaldi, anche presso i suoi estimatori. Con
questo contributo mi prefiggo di dar conto della natura e delle motivazioni
della sfortuna del Saggio, per
passare poi ad una analisi dell’opera alla luce di due considerazioni: il fatto
che il Saggio è ineludibile se si
vuole capire il progetto complessivo che ha impegnato Montaldi, in cui lo
studio non può essere separato dall’azione politica; in secondo luogo vorrei
dimostrare che il lavoro di Montaldi fornisce spunti preziosi per la conoscenza
del comunismo italiano novecentesco, rispetto a cui pone alcune questioni
cruciali tuttora aperte, almeno sul piano storico.
Nell’immediato
la sfortuna del Saggio è
riconducibile al momento della pubblicazione avvenuta allorché il PCI è
all’apice della sua parabola storica, quando raggiunge il massimo dei consensi
elettorali, mentre le formazioni della “nuova sinistra” sessantottesca
oscillano vanamente tra istituzionalizzazione, radicalizzazione e autodissoluzione.
Sia la convinzione di marciare, ancora una volta, sull’onda della storia, che
la percezione di un fallimento senza vie d’uscita, fanno ritenere priva di
interesse e di importanza, e comunque del tutto inattuale, la ricostruzione
della politica comunista puntigliosamente condotta da Montaldi a livello di
analisi critica della produzione ideologica, con un approccio che già di per sé
poteva sconcertare i lettori delle Autobiografie
e dei Militanti.
Spinto da
motivazioni politiche, nella sua veste di rivoluzionario senza tessere,
Montaldi gioca fuori tempo e d’anticipo nel tracciare un bilancio
critico-analitico della politica comunista in Italia e, in particolare, del
ruolo senza eguali che vi ebbe Togliatti. Non rispetta i rituali della ricerca
storica e non intende rinviare analisi e diagnosi, anche se «non è ancora
venuto il momento di vedere come “problema storico” l’arco di un’attività che
non è stata un fatto individuale, ma ha interessato vaste masse sociali e la
determinazione di un’idea e di un’epoca»[2].
Il suo
obiettivo non è di scrivere una storia del PCI, sia pure critica, ma, più
ambiziosamente, di coglierne la fisionomia, i tratti salienti, definiti in
alcuni passaggi cruciali (la sconfitta di Bordiga, la costruzione del “partito
nuovo”) senza che intervenissero cambiamenti radicali sino al momento in cui il
Saggio veniva scritto e completato.
Quel che gli
interessa è individuare un modello, un modello di partito, il cui funzionamento
fa perno su due fulcri: il rapporto privilegiato con la classe operaia, in
quanto segmento centrale della base sociale del partito; la produzione e il
controllo di un dispositivo ideologico amministrato dal gruppo dirigente e, in
definitiva, monopolio del capo del partito.
Il primo a
recensire il Saggio è Stefano Merli
su “Il quotidiano dei lavoratori” il 15 gennaio 1977, anticipando quanto
avrebbe scritto poco dopo in L’altra storia.
Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra. Sempre ne “Il quotidiano
dei lavoratori” esce il 2 febbraio un’ampia recensione piuttosto simpatetica di
Maria Grazia Meriggi. Negativo è invece il giudizio di Guido Crainz che, su
“Lotta Continua” del 14 febbraio, considera quello di Montaldi un «lavoro non
organico, in parte datato»: la demistificazione su cui si sofferma Montaldi del
rapporto «revisionismo – cioè PCI – masse» era ormai acquisita nei fatti dopo
il ’68/69. Se si eccettua una scheda dedicatagli da “Il lavoro” di Genova il 22
febbraio, la stampa quotidiana non dedica altre attenzioni al libro del
cremonese.
Di fronte a
questa situazione, Giorgio Bocca, già biografo di Togliatti, si dimostra
disponibile a riaprire il caso e pubblica su “La repubblica” del 19 aprile 1977
un ampio articolo basato su una sua conversazione con Piergiorgio Bellocchio e
Stefano Merli: «Un libro e un personaggio aspettano nel silenzio: Danilo
Montaldi, come cancellato da una morte misteriosa, e questo suo postumo Saggio sulla politica comunista in Italia
[...]. Ne hanno parlato Lotta Continua
e Il quotidiano dei lavoratori, non
se ne è accorto Il Manifesto, per gli
altri è inesistente. E sì che di Danilo Montaldi e di questo suo
“Antitogliatti” fuori da ogni prevedibile schema si sarebbe potuto fare
agevolmente un caso politico e letterario».
Rivolgendosi ai
due amici che cercano di evidenziare le caratteristiche fuori dal comune
dell’autore e del suo lavoro, Bocca, con un certo paternalismo, insiste sulla
sua tesi: «Se volevate fare un caso di questo saggio potevate intitolarlo l’“Antitogliatti”. Ercoli-Togliatti è il protagonista negativo del libro, il
liberale borghese che coglie nello stalinismo, sin dall’inizio, lo strumento
per conservare e rafforzare lo stato liberal-borghese. È una tesi in cui c’è
qualcosa di vero, ma è anche scopertamente forzata ed a posteriori. Di mezzo
c’è una storia che è andata come è andata».
Bocca è
disposto a riconoscere dei meriti a Montaldi, ad esempio è stato il primo ad
occuparsi delle lettere di Gramsci e a denunciare lo “scempio” fattone da
Togliatti, trova però campata per aria la ricerca montaldiana di un leninismo
allo stato puro, a cui contrapporre il tradimento riformista e nazionalista di
Togliatti. Secondo Bocca «se prendiamo questo saggio come una avventura
intellettuale o come una sfida ai partiti, alla storia, al buon senso che
finisce regolarmente in sconfitta, ai conformismi che portano comunque
all’umiliazione, c’è poco da osservare, c’è da seguire il viaggio sempre a metà
strada tra l’astrazione e la passione, fra l’utopia più totale e la più
concreta verifica popolare. Se invece facciamo un discorso storico (e un po’
bisogna pur farlo) dobbiamo dire che la tesi di Montaldi è esagerata, forzata».
In ogni caso il
tentativo di accendere qualche interesse e polemica attorno al libro postumo di
Montaldi non sortisce alcun effetto. Tutta quanta la cultura comunista,
compresa quella storiografica, mantiene un silenzio completo e ininterrotto sul
Saggio, pur essendo, al di là di ogni
valutazione di merito, uno dei primi tentativi di analisi critica complessiva
della politica del PCI in Italia.
Poco prima
dell’articolo di Giorgio Bocca, era apparso sul numero 62/63 dei “Quaderni
piacentini” un impegnativo intervento di Sergio Bologna: non tanto una
recensione ma una discussione con Montaldi alla luce degli sviluppi più recenti
dell’ideologia del PCI. Secondo Bologna va ascritto a merito di Montaldi la
capacità di far saltare il lato della “mediazione” nel rapporto partito-classe,
per cui ne risulta che «la storia della
classe operaia italiana è totalmente autonoma dalla struttura istituzionale del
movimento operaio». Nel partito non c’è la classe ma «solo un’ideologia dell’egemonia operaia».
Su questa base
si spiega agevolmente l’approdo all’«autonomia totale del politico», che
diventa poi autonomia del ceto politico, come ceto separato, autonomizzatosi
nel corso di un processo che denota l’approdo ad uno stadio capitalistico
successivo a quello dell’era togliattiana, con la prospettiva di una
sussunzione reale della classe al partito imprenditore. A livello di
ricostruzione storica, Bologna sottolinea la capacità di Montaldi di cogliere
perfettamente il ruolo strategico di Togliatti in un contesto geopolitico di
ampio respiro, a partire dall’esame del “memoriale di Jalta”, il protocollo
ideologico n.1, con cui dà avvio alla sua analisi genealogica, e che venne steso
da Palmiro Togliatti «nella sua veste più consona di dirigente internazionale
del movimento operaio». Ben al di là dell’inservibile categoria del tradimento,
è questa la caratura che gli attribuisce Montaldi: un politico di prima
grandezza, un esperto di Realpolitik,
in cui si salda la realizzazione della via nazionale con un disegno politico
internazionale – di qui il legame indissolubile con l’URSS –, rispetto a cui
l’autonomia del politico è non solo funzionale ma imprescindibile.
Il citato
libretto di Merli su Bosio, Montaldi e le
origini della nuova sinistra viene pubblicato nell’aprile del 1977 presso
Feltrinelli come n.17 della collana degli “Opuscoli marxisti”; come n. 16 era
uscito poco prima il testo di Mario Tronti Sull’autonomia
del politico. Montaldi, Tronti e Merli, per accennare ad un tema che non
può avere spazio in questa sede, sono esemplificativi di percorsi radicalmente
divergenti e di atteggiamenti antitetici nei confronti del PCI, per effetto
della deflagrazione e successiva implosione di posizioni più o meno
rivoluzionarie che non possono essere ricondotte sotto l’evanescente categoria
di “nuova sinistra”.
Stefano Merli
persegue una valorizzazione dell’apporto di Montaldi, preoccupandosi anche di
fornire ad un pubblico relativamente vasto – siamo nei mesi del “movimento del
’77” – una bio-bibliografia piuttosto accurata sul cremonese. Il suo giudizio
sul Saggio è però decisamente
negativo: lo trova retto da un «canovaccio interpretativo di tipo minoritario»,
inoltre la polemica con i gruppi di nuova sinistra lo induce ad una operazione rétro di restaurazione statica del
leninismo. «La storia del movimento, malgrado le intenzioni di Montaldi,
finisce per essere tutta appiattita all’interno del PCI [...]. La storiografia
di Montaldi non riesce a saldare le ideologie al “disperso partito marxista”,
perché non individua un ritmo storico interno al movimento reale»[3].
Quest’ultima
osservazione, con un richiamo al leninismo bordighista di Montaldi, è la spia
di una differenza profonda tra i due, che lo stesso Montaldi aveva sottolineato
in uno scritto del 1973, pubblicato anch’esso postumo nel 1976. In Esperienza operaia e spontaneità
polemizzando con lo «spirito maligno dell’assimilazione», è critico verso la
propensione dello storicismo, condivisa da Merli, a recuperare e dipingere di
rosso tutto ciò che gli conviene. Più in generale Montaldi è estraneo al
progetto politico della “nuova sinistra”, un esito crepuscolare della stagione
dei gruppi post-sessantotteschi, che fa da «retroterra ai partiti ufficiali», e
la scelta del Saggio di concentrarsi
esclusivamente ed ossessivamente sull’ideologia politica del PCI discende da
due assunti cruciali, che sembrano sfuggire a Merli, impegnato da sempre a
valorizzare la componente socialista del movimento operaio italiano. Secondo
Montaldi bisogna prendere atto che, per precise cause storiche, il PCI è il
partito della classe operaia, per cui è indispensabile metterne a fuoco
l’ideologia e l’azione politica. In ragione di una propria originale visione,
nutrita ugualmente del minoritarismo comunista sconfitto dagli stalinisti e
della conoscenza del mondo proletario nelle sue variegate articolazioni,
Montaldi è mosso da una seconda, combattuta, ma non meno radicata convinzione:
attraverso la vittoria del PCI si consuma la fine della rivoluzione e il
fallimento del compito storico del proletariato. Il partito egemone della
sinistra, capace di emarginare, espellere, mettere a tacere ogni opposizione,
ovvero di assimilare ogni dissenso, abbandonato il sogno rivoluzionario si
avvia maestosamente verso il nulla.
C’è in lui il
senso acuto della discontinuità storica e una sensibilità avvertita, per
frequentazione diretta, della “dissoluzione partitica” in atto a partire dalla brèche del ’68. Nonostante l’armatura
leninista che la caratterizza e condiziona, per capire l’implosione del più
grande dei partiti comunisti, parallela al definitivo esaurirsi
dell’esperimento sovietico, la ricerca di Montaldi rappresenta una sorta di
passaggio necessario: quei legati ideologici, posti al vertice del rapporto tra
classe, militanti, partito, debbono essere decifrati e sviscerati, non
semplicemente gettati via come parti di un più vasto vuoto di memoria in cui è
stata inghiottita la storia del PCI.
Del resto anche
per Montaldi si trattava solo di un capitolo, seppure indispensabile, di un
progetto di studio e di vita che aveva nella conoscenza della base proletaria e
nell’attenzione per marginali ed eretici, sempre coniugando ricerca ed
esperienza, i suoi referenti d’elezione. L’eccessiva attenzione dedicata
all’ideologia è un appunto che deriva dal fraintendimento o dall’incomprensione
del suo progetto, il che rimanda sia alla sua incompiutezza che alla sua
inattualità, tanto ieri quanto oggi, e sarebbe insulso volerlo recuperare in
funzione di una revisione storiografica, dato che Montaldi non volle essere né
uno storico né un sociologo ma un militante rivoluzionario. Ciò non toglie che
il Saggio sulla politica comunista
possa essere ripensato in un’ottica storiografica e come utile riferimento per
un’analisi critica della vicenda del comunismo italiano novecentesco.
Anche
l’osservazione circa l’impianto minoritario dell’interpretazione di Montaldi va
assunta con prudenza. Di sicuro egli aveva una conoscenza e frequentazione delle
correnti critiche ed eretiche del movimento operaio internazionale del tutto
eccezionale nel contesto italiano dell’epoca, conservando però un’indipendenza
di giudizio e una ripulsa per gli schemi precostituiti tali da sottrarlo
all’ipoteca del “paradigma minoritario”. É vero invece che tutta la sua opera e
attività vanno lette alla luce di un “paradigma rivoluzionario” che non viene
mai messo in discussione.
Sono
particolarmente esemplificative dei suoi interessi, non disgiunti da capacità
critica, le due ampie schede che scrive per il volume Milano com’è, una vasta ed utilissima inchiesta sulla cultura
milanese del secondo dopoguerra, pubblicato da Feltrinelli nel 1962. La prima è
dedicata a “La Verità”, 1945/46, un
foglio di protesta e di battaglia, animato da Delfino Insolera e Claudio
Pavone, che possiamo considerare
l’antesignano delle piccole riviste di politica e cultura che negli anni
successivi furono la migliore palestra del pensiero anticonformista, in una
Milano piena di fermenti e aperta sull’Europa e il mondo. La seconda scheda è
dedicata a “Prometeo”, 1946-52, la rivista del bordighismo e
dell’amico e maestro Giovanni Bottaioli.
Sicuramente
Montaldi valorizza Bordiga – in anni in cui il suo nome era impronunciabile e
fonte di immediati anatemi –, però scrive anche: «negando per astratto
qualsiasi garanzia di capacità alla direzione rivoluzionaria ai Soviet, e
attribuendo un ruolo non risolutivo alla classe operaia in quanto tale (cioè
senza il partito rivoluzionario marxista), nel processo che avrebbe portato
alla rivoluzione, Alfa [Bordiga, n.d.a.] rischiava di concepire il partito in
termini non più temporali e materialistici, ma idealistici, come l’assoluto
interprete della coscienza di classe e l’unico delegato ad esercitare il potere
in nome della classe»[4].
Anche in una
densa nota del Saggio si sofferma sui
limiti delle correnti minoritarie e sulle loro difficoltà a competere con le
posizioni ufficiali: «Il vantaggio del togliattismo, e delle altre forme
parallele allo stalinismo, o di sua derivazione, nei paesi occidentali (dove
cioè non si ebbe l’esercizio globale del potere sulla classe operaia da parte
della burocrazia) è stato di presentarsi anche come sviluppo del marxismo e del
leninismo, con caratteri originali di popolare nazionalità, rinnovata nella
Resistenza, contro il quale la pratica puramente idealistica della citazione
dei classici da parte di trockisti e bordighiani non poté molto, in quanto non
riusciva mai a ledere la natura di classe che s’incarna nella politica staliniana
ma soltanto a differenziare da esse una ideologia e una teoria che anche nella
memoria collettiva del proletariato s’identificava con il passato»[5].
Montaldi
critico dello stalinismo non concede molto al minoritarismo; è innegabile,
invece, il giudizio costantemente favorevole che dà di Lenin, non prestando
troppa attenzione alle implicazioni che potevano avere le critiche di esponenti
di primo piano del marxismo occidentale che pure stimava (da Anton Pannekoek a
Karl Korsch, per non dire di Claude Lefort o Cornelius Castoriadis). Dal suo
punto di vista non si poteva mettere in discussione il significato positivo
dell’azione di Lenin e della rivoluzione d’Ottobre, per quel che era stata e
per ciò che rappresentava agli occhi dei proletari di tutti i continenti.
Coinvolgere direttamente nella critica Lenin avrebbe voluto dire passare
dall’antistalinismo all’anticomunismo; ricondurre Stalin a Lenin e viceversa
non costituiva solo una forzatura e una falsificazione della storia ma la
liquidazione di ogni speranza nella rivoluzione. Lenin aveva dimostrato che era
possibile «dare forma al sogno» (D.
Montaldi, Lenin. Bisogna sognare,
1958); se questo si trasformava in un incubo, la demoralizzazione sarebbe stata
tale da inibire per intere epoche storiche ogni possibilità di trasformare
l’esistente. Il leninismo di Montaldi è espressione di un’identificazione
condivisa e inevitabilmente acritica, mentre diventa il metro di giudizio per
valutare la politica del PCI, incarnatasi in Gramsci e Togliatti, essendo l’uno
strumentalmente e provvisoriamente l’altro organicamente legato a Stalin. In
ogni caso ciò che gli preme non è il leninismo come posizione ideologica ma il
significato dell’azione rivoluzionaria di Lenin. In una lettera del 1956 ad
Alessandro Pizzorno scriveva: «penso che l’avvenire della critica marxista
risieda nella possibilità di partire di nuovo non da zero ma dalla realtà, al
di là di formule come trotzskysmo, leninismo, stalinismo, ecc.».
La sfortuna del
Saggio può facilmente essere
documentata: si va da citazioni sfuggenti alla mancanza di ogni riferimento,
come avviene nel volume di Renzo Martinelli Il
Partito Comunista d’Italia 1921-1926, Editori Riuniti, 1977; in quello a
cura di Aris Accornero e Massimo Ilardi, Il
Partito comunista italiano. Strutture e storia dell’organizzazione 1921/1979,
Annale della Fondazione Feltrinelli, 1981; nella Bibliografia gramsciana 1922-1988, a cura di John M. Cammet, Annale
1989 dell’Istituto Gramsci; ancora in Renzo Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, vol. VI, Il “partito nuovo” della Liberazione al 18
aprile, Einaudi, 1995; per finire con il caso ancor più significativo di
Aldo Agosti, Togliatti, Utet, 1996,
nonostante le oltre 60 pagine di bibliografia ragionata. Ma anche quando il Saggio viene citato, non viene discusso
né ripreso in termini positivi o critici, come si può constatare per il testo
di Marcello Flores e Nicola Gallerano, Sul
PCI. Un’interpretazione storica, Il Mulino, 1992, che contiene un solo
riferimento all’opera di Montaldi.
Voglio però
segnalare un paio di eccezioni di diversa portata concernenti l’una un punto
particolare ma molto interessante, l’altra l’impianto complessivo del Saggio.
Enzo Collotti
nella sua Introduzione all’Archivio Pietro Secchia 1945-1973,
Annale Fondazione Feltrinelli 1978, considera l’opera di Montaldi poco più che
dei «materiali per un’ipotesi di lavoro», ma poi vi fa riferimento trattando
una questione all’epoca scottante, ovvero lo stalinismo di Secchia. Un cliché abusatissimo nell’ambito del PCI
e fuori di esso, rispetto a cui il cremonese aveva espresso un giudizio
sfumato: contrariamente a quel che emergeva nella vulgata di partito, Secchia
era, o meglio, aveva cercato di presentarsi come «il meno staliniano dei
dirigenti di vertice»[6].
Riporto il
passo di Collotti perché tocca due temi centrali nell’analisi critica di
Montaldi, vale a dire la politica di unità nazionale di Togliatti e, in
rapporto a questa, il suo stalinismo, tanto oscurato quanto radicato e
impossibile da superare, anche se l’operazione Secchia fu sicuramente abile, e in puro stile
sovietico, riuscendo a deviare sul dirigente in disgrazia la colpa di aver
incarnato e sostenuto lo stalinismo all’interno del PCI. «Sotto il profilo
politico – osserva Collotti – era già chiaro che la diversa esperienza che
Secchia aveva maturato nel nord durante la Resistenza non collimava con la politica di unità nazionale come veniva
intesa da Togliatti nell’esperienza che egli andava compiendo nel “Regno del
Sud” [...]. Lo si può ribadire sinteticamente con queste parole di Montaldi:
“In Secchia è viva la tendenza a valorizzare la funzione dei CLN più che quella
del potere centrale” [p. 200 del Saggio,
n.d.a.]. La differenza non era da poco, perché esprimeva tutto un diverso
metodo di lotta politica. Agli esegeti attenti alla politica del PCI queste
differenziazioni non avrebbero dovuto sfuggire, ma l’impressione è che al di là
di rozze schematizzazioni o contrapposizioni (la questione dello “stalinismo”
di Secchia, ad esempio, rispetto a posizioni come quelle di Togliatti che non
potendo essere considerate non staliniste non venivano in alcun modo definite)
non si fossero percepite le molte sfumature che avrebbero permesso di chiarire
le rispettive posizioni»[7].
Più importante
per il tema che qui si affronta è quanto dice (e non dice) Luigi Cortesi nel
volume Le origini del PCI. Studi e interventi sulla storia del
comunismo in Italia, pubblicato da Angeli nel 1999. Di Montaldi si parla
nel saggio: PCI e proletariato. Da
Livorno alla “solidarietà nazionale”, un contributo originariamente scritto
nel 1979 e poi ripreso e ampliato. Il riferimento è piuttosto casuale e
marginale. Lo spunto è offerto dal richiamo ad una ricerca di Cesare Bermani
sulla Volante Rossa. Dopo di che Cortesi continua in questi termini: «Anche un
altro ricercatore “sul campo”, Danilo Montaldi, appare convinto che lo
stalinismo proletario e l’attaccamento all’URSS erano espressioni particolari
di classe, secondarie rispetto ai motivi diretti di adesione al comunismo»[8].
Tutto qui, Montaldi viene utilizzato a sostegno dello “stalinismo proletario” e
null’altro si dice, cosicché l’ignaro lettore rimane all’oscuro delle
convergenze molteplici tra il Saggio e
l’intero volume di Cortesi, nonché delle non meno significative divergenze, per
non dire della questione Bordiga che è stata centrale per il co-promotore della
“Rivista storica del socialismo”, come per il ricercatore “sul campo”,
tragicamente scomparso ormai da tanti anni.
Se si leggono
in parallelo il Saggio e PCI e proletariato le analogie sono però
sorprendenti, quasi che il secondo nasca come una sintesi del primo. Lo schema
è analogo, si parte dall’oggi e si ricostruisce una genealogia; il tema
centrale è lo stesso: il rapporto tra il partito e il proletariato. Anche le
singole tesi sono in gran parte coincidenti: valutazione critica del progetto
gramsciano che fa della classe operaia produttrice il perno della
nazionalizzazione del partito; il PCI si è sviluppato storicamente sulla base
di un concetto riduttivo di classe operaia rispetto al concetto marxiano di
proletariato; analisi critica del produttivismo in quanto strumento di
integrazione; la nazionalizzazione del partito pone una barriera invalicabile
all’unificazione del proletariato; il “partito nuovo” togliattiano serviva a mediare
di volta in volta «potenziale di lotta e strategia collaborazionista»; per
entrambi il nodo cruciale, non risolvibile aprioristicamente, è dato dal
rapporto tra PCI e comunismo proletario; essi sono convinti che tutta la
parabola storica del PCI si sia sviluppata nel solco dell’eredità gramsciana
gestita da Togliatti.
Non sono di
poco conto nemmeno le differenze, la principale delle quali riguarda il
giudizio sull’URSS. Cortesi non dimostra interesse a sviscerare i molteplici
risvolti del “legame di ferro”, limitandosi a formule riduttive del tipo «le
incertezze e le contraddizioni della politica dello Stato russo». Sull’URSS
Montaldi è invece sempre molto esplicito, non solo condanna senza alcuna
attenuante lo stalinismo ma utilizza tranquillamente e ripetutamente la
categoria di totalitarismo,
rivendicandone in tal modo la genealogia intellettuale di sinistra, e basti in
tal senso il nome di Victor Serge.
Cortesi
proponendo il concetto di “stalinismo proletario” si prefigge di risolvere il
nodo del rapporto partito-proletariato, ma così legittima la politica comunista
in Italia e non solo. Lo stalinismo diventa la prosecuzione della rivoluzione
nelle condizioni date, secondo la formula: «lo stalinismo proiezione ideologica
dell’impegno di lotta e della cultura del proletariato».
Montaldi non si
nasconde il problema ma cerca ostinatamente di valorizzare tutto ciò che non è
riconducibile né allo stalinismo degli apparati né a quello proletario. In ogni
caso il giudizio di Montaldi sullo stalinismo è inequivocabile e penetrante: si
tratta di «uno dei rivestimenti ideologici dello sfruttamento» che fa leva su
«un’aristocrazia operaia controrivoluzionaria», la quale a sua volta
costituisce «una forza fondamentale in una società fondata sullo sfruttamento»[9].
Di Luigi
Cortesi è però necessario segnalare un secondo contributo incentrato ancora su
Montaldi e il PCI, come relazione al convegno su “Danilo Montaldi e la cultura
di sinistra nel secondo dopoguerra” (Napoli, 1996), in cui si esprimono
valutazioni molto positive sul cremonese, sia per la sua capacità di anticipare
di molto i risultati e le valutazioni a cui altri approderanno anni e decenni
dopo, sia perché egli sapeva associare la “poesia sociale” ad una «estensione
di conoscenza e di studio che appare straordinaria»[10].
Condivisibile è la sottolineatura di Cortesi
circa la centralità del tema dell’integrazione nell’analisi critica della
politica comunista: «il riflusso della classe alla unità nazionale fornisce la
falsariga teorica della riflessione di Montaldi su tutto l’arco del
ripiegamento e della sconfitta del comunismo»[11].
Uno degli obiettivi di Montaldi è stato sicuramente di dar conto di come «alla
fine, tutto si iscrive nel tracciato storico delle nazioni e degli Stati»[12].
Del resto nella Introduzione alle Autobiografie della leggera (1961), ma è
un filo rosso che corre lungo tutta la sua attività, aveva già criticato la
politica del PCI nel secondo dopoguerra perché essa attribuiva «alle forze del
lavoro, ai fini del compimento della “rivoluzione borghese” in Italia, una
funzione di riscatto economico, politico e culturale tramite la loro
integrazione nel quadro dell’attuale situazione di fatto»[13].
Ne era derivato sul piano ideologico un rilancio della concezione
liberaldemocratica, estremizzata nel nazionalpopolare: «combinandosi con gli
interessi ora più progressivi ora più retrivi della borghesia nazionale –
concludeva Montaldi –, lo stalinismo italiano ha giocato qui la sua più
clamorosa battaglia di retroguardia»[14].
Montaldi
sviluppava la sua analisi critica solitaria in presa diretta, nel momento
stesso in cui il PCI elaborava una linea politico-ideologica che incontrava
ampi consensi, specie negli ambienti intellettuali. Per Cortesi, a distanza di
tempo, risalta la sua capacità di antivedere gli esiti negativi di quelli che
allora apparivano grandi successi, le tappe di un movimento ascendente e
progressivo in cui si incarnava la marcia della storia.
Nell’ottica di
Montaldi l’ideologia del comunismo italiano, elaborata da Togliatti sulla base
del lascito gramsciano e posta in essere dal gruppo dirigente, senza che mai
prendesse corpo una vera alternativa, faceva venir meno le ragioni che avevano
presieduto alla nascita del partito comunista. Per cui «l’analisi di Montaldi
può essere letta quasi come una diagnosi precoce» della fine e scomparsa del
PCI[15].
Nel suo intervento Cortesi non si sofferma tanto su Togliatti quanto su
Gramsci, aderendo in sostanza alla valutazione che ne dà Montaldi, di cui mette
poi in luce gli apprezzamenti e le critiche che dedica a Bordiga e Secchia, due
figure scomode per quella che era la versione ufficiale e ortodossa della
storia del partito.
In un contesto
di indubbia valorizzazione dell’apporto montaldiano, Cortesi esprime anche due
critiche di rilievo che conviene richiamare perché divergono dalla lettura che
qui propongo del Saggio e del resto
della sua ricerca. Secondo Cortesi nello studio sulla politica comunista «manca
un’analisi delle ragioni per le quali il PCI è rimasto comunque, in tutta
questa lunga vicenda storica, dal 1943-45 al 1975 (e per noi fino al ’90) il
partito politico di riferimento e perfino di fede di una gran parte del
proletariato e del “popolo minuto”»[16].
A me pare, al contrario, che Montaldi si sia dedicato allo studio dei
“protocolli ideologici” del PCI proprio perché aveva capito la necessità e
l’urgenza di affrontare quel nodo, anche se poi non è riuscito a trovare
risposte soddisfacenti, non potendo e non volendo mettere in discussione la
teoria del proletariato come classe rivoluzionaria.
Cortesi osserva
che nei contributi di “conricerca” di Montaldi «l’integrazione come fenomeno di
massa non c’è», anche perché egli preferisce rivolgere la sua attenzione agli
esclusi, a un «tipo di umanità emarginata». Da una tale impostazione
deriverebbe che «tra le sue inchieste sociali e il volume sulla politica
comunista vi sia un intervallo problematico che è rimasto insondato»[17].
Si tratta della diversa formulazione di uno stesso problema, ovvero della
definizione teorico-pratica di classe, militanti, partito, e delle loro
reciproche relazioni. Anche in questo caso mi pare che si debba rovesciare la
prospettiva con cui leggere l’apporto di Montaldi: quali che siano i limiti
della sua ricerca incompiuta, è
straordinario il fatto che egli abbia cercato di tenere assieme e di fare
interagire la “conricerca” nella società con lo studio dell’ideologia,
formulando e perseguendo un progetto di grande vigore intellettuale, sempre
mantenendosi nel vivo dell’azione politica come militante rivoluzionario di
base. Per coerenza e perché, come aveva scritto il suo amico Claude Lefort, «il
proletariato concreto non è oggetto di conoscenza (...), non si può
raggiungerlo teoricamente, ma solo praticamente partecipando alla sua storia»[18].
Detto in altri termini, la sua scelta per la politicità integrale della vita
non rimanda ad una sfera politica abitata da “paesi allegorici” (F. Fortini) ma
all’esperienza proletaria.
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[1] Lettera a
Giangiacomo Feltrinelli del 16 giugno 1967, in “Fondo Montaldi”, Archivio di
Stato, Cremona.
[2] D. Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia (1918-1970), Edizioni
quaderni piacentini, Piacenza, 1976, p. 44.
[3] S. Merli, Bosio Montaldi, cit., pp. 27-28.
[4] Aa.Vv., Milano com’è. La cultura nelle sue strutture dal 1945 a oggi. Inchiesta,
Feltrinelli, Milano, 1962, p. 221.
[5] D. Montaldi, Saggio, cit., p. 71.
[7] E. Collotti, Introduzione, in “Annale Fondazione Feltrinelli”, Milano, 1978, p.
99.
[8] L. Cortesi, Le origini del PCI. Studi e interventi sulla storia del comunismo in
Italia, Angeli, Milano, 1999, p. 426.
[9] Saggio, cit., pp. 52-53.
[10] L. Cortesi, Danilo
Montaldi, un comunista libertario, in Danilo
Montaldi e la cultura di sinistra nel secondo dopoguerra, a cura di L. Parente, La città del sole, Napoli,
1998, pp. 15-16.
[12] D. Montaldi, Saggio, cit., p. 33.
[13] D. Montaldi, Autobiografia della leggera, Einaudi, Torino, 1961, p. 15.
[15] L. Cortesi, Danilo Montaldi, cit., pp. 11-12.
[18] C. Lefort, L’Experience prolétarienne, in “Socialisme ou barbarie”, 1952, n.
11, p. 95.
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Pier Paolo Poggio
Montaldi e i protocolli ideologici del PCI
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