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Montaldi e i protocolli ideologici del PCI: 1, 2, 3, 4, 5, 6, indice dei nomi
L’autonomia del politico
Montaldi
colloca al centro del progetto togliattiano un duplice sostituzionismo: il
partito si sostituisce alla classe, al proletariato, incapaci di darsi
obiettivi politici storicamente realizzabili; d’altro canto il suo scopo è di
sostituirsi alla borghesia per portarne a compimento il disegno, divenendo una
forza di governo democraticamente riconosciuta: «Una mancata rivoluzione
risorgimentale, una prospettiva liberale da riprendere, un programma fascista
non realizzato, una unità nazionale che superi la differenziazione ideologica
in maniera costituzionale; la burocrazia tende a saldare questi conti con la
storia del Paese, in posizione di collaborazione, di emulazione e di concorrenza
con la borghesia al fine di sostituirla per il migliore funzionamento del
sistema»[1].
Già molto tempo prima della stesura del Saggio
il cremonese era certo che questo fosse
l’asse strategico della politica comunista, costruito sulla base di una necessitante
logica storicistica a cui sacrificare ogni fine ulteriore, ridotto ad utopismo
velleitario. Nondimeno la critica demistificatrice è necessaria perché il PCI
deve nutrirsi di ideologia per continuare ad avere un radicamento sociale, deve
essere il partito della classe operaia per avere voce in capitolo nell’arena
politica. Quando ha da poco iniziato il suo lavoro ne scrive come di «una
ricerca necessaria per capire a che punto siamo oggi», e benché non si prefigga
impossibili scavi archivistici o scoop
clamorosi, già solo l’assemblaggio dei vari tasselli «fa rizzare i capelli in
testa, sembra una favola»[2].
Ovviamente
Montaldi condivideva la critica di “Socialisme ou Barbarie” – e di tanti altri
– secondo cui «la realizzazione del socialismo per conto del proletariato da
parte di un qualunque partito o burocrazia è un’assurdità, una contraddizione
nei termini» (C. Castoriadis). Ma per il PCI questa contraddizione era stata
superata una volta per tutte nell’URSS, paese del socialismo realizzato. La
doppia investitura derivantegli dall’essere il legittimo rappresentante
dell’Unione Sovietica e della classe operaia italiana fa del PCI uno strumento
perfetto per la realizzazione della politica decisa dal gruppo dirigente,
secondo i protocolli ideologici formulati da Gramsci e tradotti in programma
politico da Togliatti. Gramsci serve a Togliatti per trasporre il leninismo,
occidentalizzarlo e italianizzarlo. Montaldi coglie e cerca di sviscerare
questa operazione ma pensa che in essa si esprima precisamente lo stalinismo di
Togliatti.
In
ogni caso, a suo avviso, nella visione togliattiana il proletariato non può
avere né autonomia culturale né programma politico, il ruolo del PCI è di
inserirlo nello Stato-nazione e di renderlo funzionale allo sviluppo. Quello di
Togliatti è un disegno iperpolitico, costruito attorno ad un dispositivo
ideologico strettamente controllato dal gruppo dirigente, che utilizza il
partito secondo le sue finalità strategiche. Allorché ogni meta viene
differita, non solo la rivoluzione ma anche le riforme e l’approdo al governo,
l’orizzonte si restringe all’autoconservazione, perseguita con grandi capacità
organizzative e alimentata da spinte sociali che sino alla sua autoliquidazione
continuano a indirizzarsi verso il PCI.
Gli
studi sulle origini della socialdemocrazia tedesca avevano per tempo
individuato gli elementi dell’ “integrazione negativa” e della “controsocietà”.
Oltre a quel lontano precedente per cogliere i tratti peculiari del PCI
nell’Italia repubblicana bisogna tener conto di tre referenti, variamente
indagati dalla storiografia sul “partito nuovo” di Togliatti: l’eredità del movimento operaio socialista,
specie a livello di insediamento territoriale; il precedente del Partito nazionale
fascista, in quanto modello di organizzazione partitica dittatoriale in una
società di massa; il modello del PCUS trasformatosi da partito rivoluzionario
in partito di governo capace di esercitare una presa totalitaria sulla società.
Nel momento del suo rientro in Italia Togliatti propone la costruzione di un
partito bolscevico di massa, radicato nel territorio, capace di dar vita ad una
società parallela, a forte integrazione interna. Rivolgendosi ai militanti
comunisti li sprona a costruire dei luoghi di aggregazione capaci di raccogliere
e indirizzare le grandi masse: «Le sezioni comuniste nei rioni delle città e
dei paesi, debbono diventare dei centri della vita popolare, dei centri ove
debbono andare tutti i compagni, i simpatizzanti e quelli senza partito,
sapendo di trovarvi un partito ed un’organizzazione che s’interessano dei loro
problemi e che forniranno loro una guida, sapendo di trovarvi qualcuno che li
può dirigere, li può consigliare e può dar loro la possibilità di divertirsi se
questo è necessario. Insomma dovete diventare un’organizzazione che sta in
mezzo al popolo e soddisfa tutti i bisogni che si presentano alla massa del
popolo»[3].
Il cambiamento di nome, al V Congresso del dicembre 1945, intende sancire la
rifondazione del partito, che come Partito comunista d’Italia (sezione
dell’Internazionale) risentiva ancora dell’impostazione bordighiana, settaria e
accesamente antinazionalista. Al contrario Togliatti, nel suo “Rapporto ai
quadri della organizzazione comunista napoletana”, l’11 aprile 1944, in piena
continuità con la linea staliniana, aveva proclamato con enfasi retorica la
natura nazionale e statale del partito nuovo: «La bandiera degli interessi
nazionali, che il fascismo ha trascinato nel fango e tradito, noi la
raccogliamo e la facciamo nostra».
La costruzione di un grande partito di massa, che segnava un’ulteriore
discontinuità con il bordighismo e lo stesso modello leninista, fu a quel punto
una scelta obbligata e coerente: «Se noi non ci fossimo costituiti in un grande
partito ma ci fossimo limitati ad un partito di duecentomila iscritti, una
parte grandissima delle masse che noi controlliamo sarebbe sotto l’influenza
della Chiesa cattolica. Se noi non avessimo creato un grande partito di massa,
poiché gli uomini, tornata la legalità, si orientano verso le grandi organizzazioni,
gran parte della massa che noi controlliamo sarebbe inevitabilmente rimasta da
altre parti»[4].
Attento
e acuto studioso del fascismo come innovativo sistema reazionario di massa,
Togliatti persegue una transizione morbida, e vuole attrezzare il partito
perché si dimostri capace di organizzare tutta la vita delle masse lavoratrici
facendo concorrenza alle organizzazioni cattoliche e inglobando quelle
socialiste. Un partito di massa rigidamente inquadrato perché, come dice ancora
Togliatti, la fiumana di gente che si indirizza verso il PCI «è assolutamente
priva di preparazione ideologica», per cui può e deve essere eterodiretta dal
partito, cioè dal gruppo dirigente che proclama la “linea”.
Per
Togliatti il partito non è affatto espressione e rappresentanza politica della
classe operaia. Innestando il leninismo-stalinismo sull’idealismo concepisce la
classe come un prodotto del partito, essa di per sé non esiste. In base a tale
postulato può affermare che «in sostanza la classe operaia orienta la sua
azione a seconda di come il nostro partito si muove»[5].
Al di là del dato meramente sociologico, senza il partito la classe non ha
alcuna consistenza e, in ogni caso, non può avere, per definizione, alcuna
autonomia. Secondo Togliatti «le classi per sé sono tali unicamente allorquando
si organizzano attraverso la partecipazione politica nei partiti,
partecipazione che diviene in tal modo il vero strumento costitutivo delle
classi medesime»[6].
É in base ad una tale concezione della classe che Togliatti può attribuire agli
operai i più alti sentimenti nazionali e patriottici e la capacità «di saper
camminare sul solco del conte Camillo Benso di Cavour». Altrettante virtù che
discendono dall’azione del PCI e che lo legittimano alla guida dello Stato.
In quanto detentore monopolistico dell’ideologia, il partito comunista non può
ammettere la presenza di formazioni concorrenziali, se non a scopi tattici, per
controllare strati sociali che sono ancora legati alle vecchie organizzazioni
del movimento operaio. Data la concezione che Togliatti aveva del partito e
della classe operaia non c’è dubbio sul fatto che il PCI fosse da lui
considerato il partito unico della classe. In tal senso si era espresso
chiaramente ed i successivi adattamenti alla situazione di fatto non debbono
oscurare l’operatività idoelogico-politica del proclamato monopolio della
rappresentanza del mondo del lavoro: «Il partito che noi vogliamo creare tende
inevitabilmente e dovrà dunque essere il partito unico della classe operaia e
dei lavoratori italiani, sorto dalla fusione delle correnti politiche
proletarie attualmente esistenti»[7].
Negli
anni ’44-’47 il PCI riesce ad essere forza di governo e di opposizione, come
dice Togliatti «noi partecipiamo al governo, ma in pari tempo noi ci riserviamo
tutto il diritto di criticare l’azione del governo»[8],
un partito nazionale e nello stesso tempo di classe. Può quindi svolgere
un’azione dinamica e spregiudicata che gli consente di raggiungere grandi
consensi (con il supporto fondamentale del mito dell’URSS, di cui è il
depositario legittimo e l’unico vero titolare). La situazione cambia con la
sconfitta elettorale del 1948 e il radicalizzarsi della guerra fredda. In
questo scenario il PCI inaugura la “strategia dell’obesità” (L. Cafagna),
ovvero, detto in altri termini, da quel momento il partito comunista «ha in
larga parte tradotto nel fine interno del rafforzamento del partito lo scopo
esterno della trasformazione sociale»[9].
I militanti di base finiscono con l’essere il soggetto-oggetto di un transfert individuale e collettivo, «che
conduce i militanti comunisti a spostare i propri progetti dall’ambito esterno
di trasformazione rivoluzionaria della società all’ambito interno di
potenziamento organizzativo del partito e della rete di organizzazioni ad esso
collaterali»[10].
Quel
che la recente storiografia comincia appena ora a mettere in luce, a differenza
di ciò che si può ricavare dal Saggio
di Montaldi, è il fatto che un tale arroccamento difensivo, non ha solo
alimentato forme di subcultura che attingevano a stratificazioni di più lungo
periodo, ovvero esperienze di governo locale attente al welfare e ai diritti sociali, ma anche una delega generalizzata
della base ai gruppi dirigenti, con l’inaridirsi della democrazia interna e la
pervicace emarginazione di ogni forma di dissenso. Il partito (e gli organismi
collaterali), in quanto luogo di anticipazione dei valori che avrebbero dovuto
realizzarsi su scala sociale, manteneva e riproduceva l’imprinting ricevuto con la sua bolscevizzazione: il centralismo
democratico affondava la libertà interna e ai dirigenti era totalmente delegata la linea politica e ideologica che
i militanti dovevano trasmettere agli iscritti e infondere nel popolo degli
elettori (gli “eterodiretti” a cui si riferiva Togliatti). La crescita
dell’organizzazione diventa lo scopo principale dell’azione politica, si tratta
quindi di forgiare un’identità collettiva, costruita attorno ai protocolli
ideologici fissati e definiti dal gruppo dirigente ed officiati in base ad una
liturgia con tratti concorrenziali rispetto a quella cattolica.
Lo
spazio che Montaldi assegna allo studio dell’ideologia dimostra che egli ne
aveva colto la funzione strategica nella costruzione e nella gestione del
partito. Il controllo, o meglio il monopolio, dell’ideologia è lo strumento
principale in mano al gruppo dirigente, contrassegnato da una straordinaria
continuità, per controllare e governare il corpo del partito. Ma quelli che
Montaldi chiama i “protocolli ideologici” non hanno una funzione solo strumentale
bensì fondativa e ontologica, che imprime una torsione idealistica ad una
dottrina materialistico-storica. Il PCI staliniano del secondo dopoguerra si
presenta come «un’entità organica nella quale le originarie differenze di ceto,
e persino di classe, dei suoi elementi costitutivi venivano eliminate da un
forte processo di omologazione ideologica»[11].
La
politica nazionale-statale del PCI, perseguita attraverso la costruzione di un
partito di dimensioni inusitate (oltre due milioni di iscritti), riesce ad
egemonizzare la sinistra ma va incontro ad esiti contraddittori. Il progetto di
integrazione nazionale delle classi subalterne, sotto la guida del partito,
comportante una diluizione dei tratti classisti ed operaisti di quest’ultimo,
non riesce a tradursi in termini politico-governativi: il PCI nel contesto
della guerra fredda e della divisione bipolare del mondo è un partito
“antisistema”, connotato dalla duplice ed ambigua lealtà nei confronti della
Repubblica nata dalla Resistenza e contemporaneamente verso la casa madre, il
Paese del socialismo realizzato.
Il
“partito nuovo” non può né abbandonare l’orizzonte nazionale-statale né farne
l’ambito in cui concretizzare la sua politica, di qui l’esito obbligato verso
il perseguimento di un’integrazione negativa, sub-culturale, in una dimensione
territoriale e regionale, con un insediamento che rimanda a linee di frattura
di lunga durata che oltrepassano la vicenda storica del PCI. Si determina una
dicotomia, mediata dalla doppiezza, tra la linea politica del partito,
tracciata in termini definitivi e non oltrepassabili da Togliatti, e la cultura
della base. Mentre il gruppo dirigente si attesta sempre più sulla prospettiva
nazionale, e concepisce l’inscindibile legame con l’URSS in termini
strumentali, anche se non mancano i veri credenti, i militanti di base, gli
aderenti tiepidi ed entusiasti
investono le loro risorse, energie, aspettative, a metà tra la sfera
locale e un mito internazionale: quello dell’URSS, di Lenin e di Stalin. La
dimensione nazionale della politica era delegata al partito, al suo gruppo
dirigente, e in definitiva al Segretario generale.
Ma
sul terreno della politica nazionale e parlamentare la principale risorsa di
cui dispone il PCI, il patrimonio di credibilità che può spendere a livello
istituzionale e nei confronti dei principali centri di potere economico e
politico, discende dalla sua capacità di controllare e contenere il
“sovversivismo” dei ceti subalterni, svolgendo contemporaneamente un’azione
pedagogica di promozione dell’etica produttivistica del lavoro, presentandosi
nelle vesti di forza indispensabile alla realizzazione dello sviluppo
economico. É per questa via che il PCI svolge un’azione effettiva di
integrazione nazionale delle masse. Un ruolo che gli è ampiamente riconosciuto
dalla storiografia e che Montaldi, tra i primi, analizza ripetutamente nella
sua ricerca, ovviamente esprimendo un giudizio di valore capovolto, dato che
considera una tale politica finalizzata al mantenimento del proletariato in una
condizione di subalternità, oltre che funzionale al dominio del partito sulla
classe.
Nonostante
l’acume delle sue analisi è probabile che l’opera di Montaldi non diverrà uno
strumento prezioso per lo studio del comunismo italiano del Novecento. La sua
prospettiva, che vuole essere quella dell’esperienza proletaria, ieri vista con
ostilità, risulta oggi incomprensibile. Lo schieramento progressista, che
considera vuote anticaglie le fisime ideologiche del vecchio PCI, ne apprezza
il ruolo di difensore delle istituzioni democratiche e l’azione di
civilizzazione delle masse operaie e contadine. Lo schieramento conservatore
pensa, al contrario, che il PCI abbia manipolato ideologicamente le masse,
utilizzandole ai fini del suo disegno di conquista del potere, nel contesto della
politica di espansione mondiale del comunismo sovietico. In entrambi i casi,
coerentemente con la tradizione intellettuale da sempre egemonica in Occidente,
e contrariamente a quel che pensava Montaldi, è esclusa la possibilità di
un’azione autonoma del proletariato, quali che siano le figure sociali in cui
si manifesta.
Dopo
il ’45 il PCI riesce a conquistare o ad egemonizzare le organizzazioni del
movimento operaio, radicandosi capillarmente in molte città e territori. Ciò
però non si tradusse in una spinta a “superare Livorno”; municipalismo e
fideismo, centrato sul mito dell’URSS, convissero per decenni, sia per effetto
della sconfitta politica su scala nazionale che induceva al ripiegamento
difensivo sia a causa della guerra fredda che alimentava una sorta di
antagonismo planetario privo di conseguenze pratiche (a parte manifestazioni
simboliche e fenomeni circoscritti come il movimento dei “partigiani della
pace”).
La
tendenza a costruire una società parallela viene rafforzata dalla sconfitta del
’48; in un clima imperante di stalinismo e guerra fredda, il PCI, nel 1951,
raggiunge il massimo di iscritti, con oltre due milioni e mezzo di tesserati.
Con il passare degli anni e dei decenni, gli obiettivi politici sfumano in un
tempo indefinito, divengono nebulosi, indistinti, inconsistenti; quel che resta
è la passione per il partito in quanto tale, la disciplina, lo spirito di
sacrificio, l’onestà, la solidarietà di gruppo; un insieme di valori duraturi
che hanno il loro risvolto nel dogmatismo, nel fideismo e nel manicheismo.
In
una tale situazione diventa preminente l’autoperpetuazione del partito, cosa
possibile solo se i militanti mantenevano la loro fedeltà verso il PCI. Essi
infatti non potevano accontentarsi di un partito che chiedesse consenso e voti
per una politica di riforme che restava sulla carta; potevano rinunciare alla
meta finale solo se essa risultava in qualche modo già realizzata, di qui il
ruolo cruciale del mito dell’URSS. Di qui la necessità del mantenimento, a fini
politici di autoconservazione, di una falsificazione consapevole da parte dei
capi e di un sogno consolatorio da parte della base. La responsabilità maggiore
fu quella degli intellettuali, che avvallarono, in Italia più che in ogni altro
Paese, per non dire dell’URSS e degli Stati satelliti dove furono alla guida
del dissenso, le menzogne sul socialismo sovietico e sulle diverse imitazioni e
varianti, causando un danno irreparabile alla credibilità della sinistra.
In merito il giudizio di Montaldi sugli intellettuali togliattiani fu sempre
nettissimo. Significativamente nel Saggio
riproduce un brano di un intervento di Carlo Cassola su cui aveva già posto
l’accento nell’impegnativo articolo Cronache
della cultura di sinistra pubblicato nel 1958. Cassola (ne “Il
contemporaneo” del 12 maggio 1956) aveva duramente attaccato gli intellettuali
della sua generazione che erano diventati comunisti nel corso della Resistenza
(i Lombardo-Radice, gli Alicata, gli Ingrao, i Salinari, i Trombadori) e
Montaldi sottoscrive interamente il giudizio dello scrittore toscano: «Nel
comunismo essi hanno portato non l’esigenza liberale, ma piuttosto lo
storicismo assoluto, e conseguentemente una forma di totalitarismo mentale.
Proprio per questo essi non si sono accorti, o hanno sottovalutato gli aspetti
totalitari dello stalinismo in URSS, negli altri paesi socialisti e nel Partito
comunista italiano. Proprio per questo essi sono diventati tutti togliattiani
vedendo nel togliattismo l’inserimento del movimento operaio nella tradizione
nazionale, cioè la via italiana del socialismo; senza comprendere che il
togliattismo era stalinismo puro»[12].
In
realtà le radici dell’analisi critica montaldiana affondano nella conoscenza di
vicende più lontane, di cui gli intellettuali accademici e ufficiali, vissuti e
formatisi nel clima fascista, erano e rimasero all’oscuro. Non era così per chi
partecipava alla vita degli ambienti minoritari attaccati e perseguitati dagli
stalinisti, costretti a pubblicazioni semiclandestine a cui il Saggio fa frequente riferimento per
rivelare vicende all’epoca sconosciute e oggi dimenticate. É il caso delle
forme parossistiche della repressione antioperaia in URSS, legittimata dalla
natura operaia dello Stato, e in concreto effetto della degenerazione causata
dall’assunzione del potere da parte di un’ “aristocrazia operaia
controrivoluzionaria”. Temi ben presenti a Montaldi e che fanno da sfondo di
tragedia alla sua analisi delle Direttive
per lo studio delle questioni russe (1927), uno dei “protocolli ideologici”
di base dovuto a Togliatti nel momento in cui, da segretario del partito,
persegue l’obiettivo di collocare il PCd’I nella nuova ortodossia staliniana.
Sono i momenti cruciali, e tuttora poco indagati, dell’ascesa di Togliatti a
leader indiscusso del comunismo italiano.
Il
Togliatti sovietico, negli anni in cui viene cooptato nei vertici del movimento
comunista internazionale, fa propria la più netta separazione tra il prima e il
dopo la rivoluzione, il che lo spinge sulla strada dell’ «assunzione della
nuova subordinazione delle masse al partito, e di questo allo Stato» e il
conseguente continuo spostamento e adeguamento alle necessità dello Stato
sovietico[13]. Si trova
così a convergere, nella teoria e nella pratica, sull’assioma dello stalinista
Molotov: «il nostro Stato è uno Stato operaio [per cui] non possiamo in alcun
modo ammettere un atteggiamento ostile da parte degli operai nei confronti del
governo».
Il
Saggio non è, come ci dice lo stesso
Montaldi, una storia del PCI, ma ai fini dello studio del comunismo novecentesco
è, a mio avviso, più utile di gran parte della storiografia oggi disponibile e
ciò per il semplice motivo che riesce ad andare più in profondità, avendo
capito l’essenziale sulla natura del partito e sulla sua vicenda storica. Gli
interpreti progressisti fanno fatica a dar conto dello stalinismo democratico
di Togliatti principalmente perché, ancora oggi, non riescono a tematizzare il
rapporto tra il PCI e l’URSS, dato che quest’ultima, sino al suo inaspettato
autodissolvimento, è stata, e rimane ancora, un’entità mitologica; solo che il
mito si è trasformato in incubo. Ma non mancano, tutt’altro, i difensori del
mito dell’ex URSS in quanto tale (più o meno con le stesse motivazioni di un
tempo).
D’altro
canto Montaldi non è accostabile agli studiosi che criticano il PCI staliniano, eliminando ogni distanza
tra ideologia e realtà, per cui l’ideologia è tutta la realtà.
Gli
autori del VII volume della Storia del
Partito comunista italiano, dovuto a Giovanni Gozzini e Renzo Martinelli,
osservano che negli anni della guerra fredda, nel PCI: «l’interesse di classe
prevale sull’interesse nazionale: l’adesione al campo sovietico è, per i
comunisti italiani, un motivo di identificazione ideologica assai più organico
e assoluto di quanto non lo sia la scelta atlantica per i partiti di governo»[14].
Se
una tale valutazione è giusta, uno dei capisaldi del Saggio viene a cadere. Il PCI togliattiano nel massimo del suo
radicamento non si muove sull’asse nazional-statale come argomentava Montaldi,
perseguiva invece come prioritario l’interesse di classe, contrariamente a
quanto sostenuto in ogni pagina del Saggio.
Bisogna però tener conto della grande distanza che separa Montaldi da questi
studiosi, che sembrano considerare “l’interesse di classe” ovviamente
coincidente con “l’adesione al campo sovietico”, come recitava la dottrina
stalinista.
In
definitiva, per l’impianto storico-teorico su cui si era costituito, il PCI non
poteva liberarsi del mito dell’URSS e del simulacro della rivoluzione e nemmeno
farne un uso puramente tattico. Il riferimento alla rivoluzione, seppure
svuotato di ogni significato, deve permanere altrimenti tutto crolla, “il re è
nudo”. Togliatti e i suoi successori, in particolare Enrico Berlinguer, si
muovono all’interno di queste coordinate, convinti che non esistessero
alternative, scontando l’accusa di nullismo su cui mette l’accento Montaldi,
prima che venisse rilanciata da altri, ormai a cose fatte.
[2] Lettere a
Mario Giovana del 15 gennaio 1965 e 2 marzo 1965, in “Fondo Montaldi”, cit.
[3] P. Togliatti, I compiti del partito nella situazione
attuale, discorso del 3
ottobre 1944 a Firenze, in Id., Opere,
vol. V, Editori Riuniti, Roma, 1984, p. 104.
[4] P. Togliatti, Un partito di governo e di massa, sett. 1947, cit. da S. Bertelli, Il PCI e il suo passato: storici a confronto, in “Nuova storia
contemporanea”, n. 4, 2004, p. 92.
[5] P.
Togliatti, Sull’articolo 7 della
Costituzione, 25 marzo 1947, in P.
Togliatti, Discorsi parlamentari
(1946-1951), Camera dei Deputati, Roma, 1984, p. 89.
[6] G. Sapelli, Palmiro Togliatti e le classi sociali dalla società alla politica
(1946-1947), in A. Agosti (a
cura di), Togliatti e la fondazione dello
Stato democratico, Angeli, Milano 1986, p. 90.
[7] In
“Rinascita”, sett. 1944.
[8] P. Togliatti, I compiti del partito..., cit., p. 94
[9] G. Gozzini e R. Martinelli, Storia
del Partito comunista italiano, VII. Dall’attentato a Togliatti all’VIII
Congresso, Einaudi, Torino, 1998, p. XV.
[10] G. Gozzini, La storia del PCI, in “Storia e problemi contemporanei”, 2000, n.
25, p. 22.
[11] G.C. Marino, Autoritratto del PCI staliniano 1946-1953, Editori Riuniti, Roma,
1991, p. 18.
[12] Cit. in D. Montaldi, Saggio, cit., p. 278.
[14] G. Gozzini e R. Martinelli, Storia
del Partito comunista italiano, cit., p. 149.
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Pier Paolo Poggio
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