Montaldi e i protocolli ideologici del PCI: 1, 2, 3, 4, 5, 6, indice dei nomi

L’autonomia del politico





Montaldi colloca al centro del progetto togliattiano un duplice sostituzionismo: il partito si sostituisce alla classe, al proletariato, incapaci di darsi obiettivi politici storicamente realizzabili; d’altro canto il suo scopo è di sostituirsi alla borghesia per portarne a compimento il disegno, divenendo una forza di governo democraticamente riconosciuta: «Una mancata rivoluzione risorgimentale, una prospettiva liberale da riprendere, un programma fascista non realizzato, una unità nazionale che superi la differenziazione ideologica in maniera costituzionale; la burocrazia tende a saldare questi conti con la storia del Paese, in posizione di collaborazione, di emulazione e di concorrenza con la borghesia al fine di sostituirla per il migliore funzionamento del sistema»[1].
Già molto tempo prima della stesura del Saggio il cremonese era  certo che questo fosse l’asse strategico della politica comunista, costruito sulla base di una necessitante logica storicistica a cui sacrificare ogni fine ulteriore, ridotto ad utopismo velleitario. Nondimeno la critica demistificatrice è necessaria perché il PCI deve nutrirsi di ideologia per continuare ad avere un radicamento sociale, deve essere il partito della classe operaia per avere voce in capitolo nell’arena politica. Quando ha da poco iniziato il suo lavoro ne scrive come di «una ricerca necessaria per capire a che punto siamo oggi», e benché non si prefigga impossibili scavi archivistici o scoop clamorosi, già solo l’assemblaggio dei vari tasselli «fa rizzare i capelli in testa, sembra una favola»[2].
Ovviamente Montaldi condivideva la critica di “Socialisme ou Barbarie” – e di tanti altri – secondo cui «la realizzazione del socialismo per conto del proletariato da parte di un qualunque partito o burocrazia è un’assurdità, una contraddizione nei termini» (C. Castoriadis). Ma per il PCI questa contraddizione era stata superata una volta per tutte nell’URSS, paese del socialismo realizzato. La doppia investitura derivantegli dall’essere il legittimo rappresentante dell’Unione Sovietica e della classe operaia italiana fa del PCI uno strumento perfetto per la realizzazione della politica decisa dal gruppo dirigente, secondo i protocolli ideologici formulati da Gramsci e tradotti in programma politico da Togliatti. Gramsci serve a Togliatti per trasporre il leninismo, occidentalizzarlo e italianizzarlo. Montaldi coglie e cerca di sviscerare questa operazione ma pensa che in essa si esprima precisamente lo stalinismo di Togliatti.
In ogni caso, a suo avviso, nella visione togliattiana il proletariato non può avere né autonomia culturale né programma politico, il ruolo del PCI è di inserirlo nello Stato-nazione e di renderlo funzionale allo sviluppo. Quello di Togliatti è un disegno iperpolitico, costruito attorno ad un dispositivo ideologico strettamente controllato dal gruppo dirigente, che utilizza il partito secondo le sue finalità strategiche. Allorché ogni meta viene differita, non solo la rivoluzione ma anche le riforme e l’approdo al governo, l’orizzonte si restringe all’autoconservazione, perseguita con grandi capacità organizzative e alimentata da spinte sociali che sino alla sua autoliquidazione continuano a indirizzarsi verso il PCI.
Gli studi sulle origini della socialdemocrazia tedesca avevano per tempo individuato gli elementi dell’ “integrazione negativa” e della “controsocietà”. Oltre a quel lontano precedente per cogliere i tratti peculiari del PCI nell’Italia repubblicana bisogna tener conto di tre referenti, variamente indagati dalla storiografia sul “partito nuovo” di Togliatti:  l’eredità del movimento operaio socialista, specie a livello di insediamento territoriale; il precedente del Partito nazionale fascista, in quanto modello di organizzazione partitica dittatoriale in una società di massa; il modello del PCUS trasformatosi da partito rivoluzionario in partito di governo capace di esercitare una presa totalitaria sulla società.
Nel momento del suo rientro in Italia Togliatti propone la costruzione di un partito bolscevico di massa, radicato nel territorio, capace di dar vita ad una società parallela, a forte integrazione interna. Rivolgendosi ai militanti comunisti li sprona a costruire dei luoghi di aggregazione capaci di raccogliere e indirizzare le grandi masse: «Le sezioni comuniste nei rioni delle città e dei paesi, debbono diventare dei centri della vita popolare, dei centri ove debbono andare tutti i compagni, i simpatizzanti e quelli senza partito, sapendo di trovarvi un partito ed un’organizzazione che s’interessano dei loro problemi e che forniranno loro una guida, sapendo di trovarvi qualcuno che li può dirigere, li può consigliare e può dar loro la possibilità di divertirsi se questo è necessario. Insomma dovete diventare un’organizzazione che sta in mezzo al popolo e soddisfa tutti i bisogni che si presentano alla massa del popolo»[3].
Il cambiamento di nome, al V Congresso del dicembre 1945, intende sancire la rifondazione del partito, che come Partito comunista d’Italia (sezione dell’Internazionale) risentiva ancora dell’impostazione bordighiana, settaria e accesamente antinazionalista. Al contrario Togliatti, nel suo “Rapporto ai quadri della organizzazione comunista napoletana”, l’11 aprile 1944, in piena continuità con la linea staliniana, aveva proclamato con enfasi retorica la natura nazionale e statale del partito nuovo: «La bandiera degli interessi nazionali, che il fascismo ha trascinato nel fango e tradito, noi la raccogliamo e la facciamo nostra».
La costruzione di un grande partito di massa, che segnava un’ulteriore discontinuità con il bordighismo e lo stesso modello leninista, fu a quel punto una scelta obbligata e coerente: «Se noi non ci fossimo costituiti in un grande partito ma ci fossimo limitati ad un partito di duecentomila iscritti, una parte grandissima delle masse che noi controlliamo sarebbe sotto l’influenza della Chiesa cattolica. Se noi non avessimo creato un grande partito di massa, poiché gli uomini, tornata la legalità, si orientano verso le grandi organizzazioni, gran parte della massa che noi controlliamo sarebbe inevitabilmente rimasta da altre parti»[4].
Attento e acuto studioso del fascismo come innovativo sistema reazionario di massa, Togliatti persegue una transizione morbida, e vuole attrezzare il partito perché si dimostri capace di organizzare tutta la vita delle masse lavoratrici facendo concorrenza alle organizzazioni cattoliche e inglobando quelle socialiste. Un partito di massa rigidamente inquadrato perché, come dice ancora Togliatti, la fiumana di gente che si indirizza verso il PCI «è assolutamente priva di preparazione ideologica», per cui può e deve essere eterodiretta dal partito, cioè dal gruppo dirigente che proclama la “linea”.
Per Togliatti il partito non è affatto espressione e rappresentanza politica della classe operaia. Innestando il leninismo-stalinismo sull’idealismo concepisce la classe come un prodotto del partito, essa di per sé non esiste. In base a tale postulato può affermare che «in sostanza la classe operaia orienta la sua azione a seconda di come il nostro partito si muove»[5]. Al di là del dato meramente sociologico, senza il partito la classe non ha alcuna consistenza e, in ogni caso, non può avere, per definizione, alcuna autonomia. Secondo Togliatti «le classi per sé sono tali unicamente allorquando si organizzano attraverso la partecipazione politica nei partiti, partecipazione che diviene in tal modo il vero strumento costitutivo delle classi medesime»[6].
É in base ad una tale concezione della classe che Togliatti può attribuire agli operai i più alti sentimenti nazionali e patriottici e la capacità «di saper camminare sul solco del conte Camillo Benso di Cavour». Altrettante virtù che discendono dall’azione del PCI e che lo legittimano alla guida dello Stato.
In quanto detentore monopolistico dell’ideologia, il partito comunista non può ammettere la presenza di formazioni concorrenziali, se non a scopi tattici, per controllare strati sociali che sono ancora legati alle vecchie organizzazioni del movimento operaio. Data la concezione che Togliatti aveva del partito e della classe operaia non c’è dubbio sul fatto che il PCI fosse da lui considerato il partito unico della classe. In tal senso si era espresso chiaramente ed i successivi adattamenti alla situazione di fatto non debbono oscurare l’operatività idoelogico-politica del proclamato monopolio della rappresentanza del mondo del lavoro: «Il partito che noi vogliamo creare tende inevitabilmente e dovrà dunque essere il partito unico della classe operaia e dei lavoratori italiani, sorto dalla fusione delle correnti politiche proletarie attualmente esistenti»[7].
Negli anni ’44-’47 il PCI riesce ad essere forza di governo e di opposizione, come dice Togliatti «noi partecipiamo al governo, ma in pari tempo noi ci riserviamo tutto il diritto di criticare l’azione del governo»[8], un partito nazionale e nello stesso tempo di classe. Può quindi svolgere un’azione dinamica e spregiudicata che gli consente di raggiungere grandi consensi (con il supporto fondamentale del mito dell’URSS, di cui è il depositario legittimo e l’unico vero titolare). La situazione cambia con la sconfitta elettorale del 1948 e il radicalizzarsi della guerra fredda. In questo scenario il PCI inaugura la “strategia dell’obesità” (L. Cafagna), ovvero, detto in altri termini, da quel momento il partito comunista «ha in larga parte tradotto nel fine interno del rafforzamento del partito lo scopo esterno della trasformazione sociale»[9]. I militanti di base finiscono con l’essere il soggetto-oggetto di un transfert individuale e collettivo, «che conduce i militanti comunisti a spostare i propri progetti dall’ambito esterno di trasformazione rivoluzionaria della società all’ambito interno di potenziamento organizzativo del partito e della rete di organizzazioni ad esso collaterali»[10].
Quel che la recente storiografia comincia appena ora a mettere in luce, a differenza di ciò che si può ricavare dal Saggio di Montaldi, è il fatto che un tale arroccamento difensivo, non ha solo alimentato forme di subcultura che attingevano a stratificazioni di più lungo periodo, ovvero esperienze di governo locale attente al welfare e ai diritti sociali, ma anche una delega generalizzata della base ai gruppi dirigenti, con l’inaridirsi della democrazia interna e la pervicace emarginazione di ogni forma di dissenso. Il partito (e gli organismi collaterali), in quanto luogo di anticipazione dei valori che avrebbero dovuto realizzarsi su scala sociale, manteneva e riproduceva l’imprinting ricevuto con la sua bolscevizzazione: il centralismo democratico affondava la libertà interna e ai dirigenti era totalmente  delegata la linea politica e ideologica che i militanti dovevano trasmettere agli iscritti e infondere nel popolo degli elettori (gli “eterodiretti” a cui si riferiva Togliatti). La crescita dell’organizzazione diventa lo scopo principale dell’azione politica, si tratta quindi di forgiare un’identità collettiva, costruita attorno ai protocolli ideologici fissati e definiti dal gruppo dirigente ed officiati in base ad una liturgia con tratti concorrenziali rispetto a quella cattolica.
Lo spazio che Montaldi assegna allo studio dell’ideologia dimostra che egli ne aveva colto la funzione strategica nella costruzione e nella gestione del partito. Il controllo, o meglio il monopolio, dell’ideologia è lo strumento principale in mano al gruppo dirigente, contrassegnato da una straordinaria continuità, per controllare e governare il corpo del partito. Ma quelli che Montaldi chiama i “protocolli ideologici” non hanno una funzione solo strumentale bensì fondativa e ontologica, che imprime una torsione idealistica ad una dottrina materialistico-storica. Il PCI staliniano del secondo dopoguerra si presenta come «un’entità organica nella quale le originarie differenze di ceto, e persino di classe, dei suoi elementi costitutivi venivano eliminate da un forte processo di omologazione ideologica»[11].
La politica nazionale-statale del PCI, perseguita attraverso la costruzione di un partito di dimensioni inusitate (oltre due milioni di iscritti), riesce ad egemonizzare la sinistra ma va incontro ad esiti contraddittori. Il progetto di integrazione nazionale delle classi subalterne, sotto la guida del partito, comportante una diluizione dei tratti classisti ed operaisti di quest’ultimo, non riesce a tradursi in termini politico-governativi: il PCI nel contesto della guerra fredda e della divisione bipolare del mondo è un partito “antisistema”, connotato dalla duplice ed ambigua lealtà nei confronti della Repubblica nata dalla Resistenza e contemporaneamente verso la casa madre, il Paese del socialismo realizzato.
Il “partito nuovo” non può né abbandonare l’orizzonte nazionale-statale né farne l’ambito in cui concretizzare la sua politica, di qui l’esito obbligato verso il perseguimento di un’integrazione negativa, sub-culturale, in una dimensione territoriale e regionale, con un insediamento che rimanda a linee di frattura di lunga durata che oltrepassano la vicenda storica del PCI. Si determina una dicotomia, mediata dalla doppiezza, tra la linea politica del partito, tracciata in termini definitivi e non oltrepassabili da Togliatti, e la cultura della base. Mentre il gruppo dirigente si attesta sempre più sulla prospettiva nazionale, e concepisce l’inscindibile legame con l’URSS in termini strumentali, anche se non mancano i veri credenti, i militanti di base, gli aderenti tiepidi ed entusiasti  investono le loro risorse, energie, aspettative, a metà tra la sfera locale e un mito internazionale: quello dell’URSS, di Lenin e di Stalin. La dimensione nazionale della politica era delegata al partito, al suo gruppo dirigente, e in definitiva al Segretario generale.
Ma sul terreno della politica nazionale e parlamentare la principale risorsa di cui dispone il PCI, il patrimonio di credibilità che può spendere a livello istituzionale e nei confronti dei principali centri di potere economico e politico, discende dalla sua capacità di controllare e contenere il “sovversivismo” dei ceti subalterni, svolgendo contemporaneamente un’azione pedagogica di promozione dell’etica produttivistica del lavoro, presentandosi nelle vesti di forza indispensabile alla realizzazione dello sviluppo economico. É per questa via che il PCI svolge un’azione effettiva di integrazione nazionale delle masse. Un ruolo che gli è ampiamente riconosciuto dalla storiografia e che Montaldi, tra i primi, analizza ripetutamente nella sua ricerca, ovviamente esprimendo un giudizio di valore capovolto, dato che considera una tale politica finalizzata al mantenimento del proletariato in una condizione di subalternità, oltre che funzionale al dominio del partito sulla classe.
Nonostante l’acume delle sue analisi è probabile che l’opera di Montaldi non diverrà uno strumento prezioso per lo studio del comunismo italiano del Novecento. La sua prospettiva, che vuole essere quella dell’esperienza proletaria, ieri vista con ostilità, risulta oggi incomprensibile. Lo schieramento progressista, che considera vuote anticaglie le fisime ideologiche del vecchio PCI, ne apprezza il ruolo di difensore delle istituzioni democratiche e l’azione di civilizzazione delle masse operaie e contadine. Lo schieramento conservatore pensa, al contrario, che il PCI abbia manipolato ideologicamente le masse, utilizzandole ai fini del suo disegno di conquista del potere, nel contesto della politica di espansione mondiale del comunismo sovietico. In entrambi i casi, coerentemente con la tradizione intellettuale da sempre egemonica in Occidente, e contrariamente a quel che pensava Montaldi, è esclusa la possibilità di un’azione autonoma del proletariato, quali che siano le figure sociali in cui si manifesta.
Dopo il ’45 il PCI riesce a conquistare o ad egemonizzare le organizzazioni del movimento operaio, radicandosi capillarmente in molte città e territori. Ciò però non si tradusse in una spinta a “superare Livorno”; municipalismo e fideismo, centrato sul mito dell’URSS, convissero per decenni, sia per effetto della sconfitta politica su scala nazionale che induceva al ripiegamento difensivo sia a causa della guerra fredda che alimentava una sorta di antagonismo planetario privo di conseguenze pratiche (a parte manifestazioni simboliche e fenomeni circoscritti come il movimento dei “partigiani della pace”).
La tendenza a costruire una società parallela viene rafforzata dalla sconfitta del ’48; in un clima imperante di stalinismo e guerra fredda, il PCI, nel 1951, raggiunge il massimo di iscritti, con oltre due milioni e mezzo di tesserati. Con il passare degli anni e dei decenni, gli obiettivi politici sfumano in un tempo indefinito, divengono nebulosi, indistinti, inconsistenti; quel che resta è la passione per il partito in quanto tale, la disciplina, lo spirito di sacrificio, l’onestà, la solidarietà di gruppo; un insieme di valori duraturi che hanno il loro risvolto nel dogmatismo, nel fideismo e nel manicheismo.
In una tale situazione diventa preminente l’autoperpetuazione del partito, cosa possibile solo se i militanti mantenevano la loro fedeltà verso il PCI. Essi infatti non potevano accontentarsi di un partito che chiedesse consenso e voti per una politica di riforme che restava sulla carta; potevano rinunciare alla meta finale solo se essa risultava in qualche modo già realizzata, di qui il ruolo cruciale del mito dell’URSS. Di qui la necessità del mantenimento, a fini politici di autoconservazione, di una falsificazione consapevole da parte dei capi e di un sogno consolatorio da parte della base. La responsabilità maggiore fu quella degli intellettuali, che avvallarono, in Italia più che in ogni altro Paese, per non dire dell’URSS e degli Stati satelliti dove furono alla guida del dissenso, le menzogne sul socialismo sovietico e sulle diverse imitazioni e varianti, causando un danno irreparabile alla credibilità della sinistra.
In merito il giudizio di Montaldi sugli intellettuali togliattiani fu sempre nettissimo. Significativamente nel Saggio riproduce un brano di un intervento di Carlo Cassola su cui aveva già posto l’accento nell’impegnativo articolo Cronache della cultura di sinistra pubblicato nel 1958. Cassola (ne “Il contemporaneo” del 12 maggio 1956) aveva duramente attaccato gli intellettuali della sua generazione che erano diventati comunisti nel corso della Resistenza (i Lombardo-Radice, gli Alicata, gli Ingrao, i Salinari, i Trombadori) e Montaldi sottoscrive interamente il giudizio dello scrittore toscano: «Nel comunismo essi hanno portato non l’esigenza liberale, ma piuttosto lo storicismo assoluto, e conseguentemente una forma di totalitarismo mentale. Proprio per questo essi non si sono accorti, o hanno sottovalutato gli aspetti totalitari dello stalinismo in URSS, negli altri paesi socialisti e nel Partito comunista italiano. Proprio per questo essi sono diventati tutti togliattiani vedendo nel togliattismo l’inserimento del movimento operaio nella tradizione nazionale, cioè la via italiana del socialismo; senza comprendere che il togliattismo era stalinismo puro»[12].
In realtà le radici dell’analisi critica montaldiana affondano nella conoscenza di vicende più lontane, di cui gli intellettuali accademici e ufficiali, vissuti e formatisi nel clima fascista, erano e rimasero all’oscuro. Non era così per chi partecipava alla vita degli ambienti minoritari attaccati e perseguitati dagli stalinisti, costretti a pubblicazioni semiclandestine a cui il Saggio fa frequente riferimento per rivelare vicende all’epoca sconosciute e oggi dimenticate. É il caso delle forme parossistiche della repressione antioperaia in URSS, legittimata dalla natura operaia dello Stato, e in concreto effetto della degenerazione causata dall’assunzione del potere da parte di un’ “aristocrazia operaia controrivoluzionaria”. Temi ben presenti a Montaldi e che fanno da sfondo di tragedia alla sua analisi delle Direttive per lo studio delle questioni russe (1927), uno dei “protocolli ideologici” di base dovuto a Togliatti nel momento in cui, da segretario del partito, persegue l’obiettivo di collocare il PCd’I nella nuova ortodossia staliniana. Sono i momenti cruciali, e tuttora poco indagati, dell’ascesa di Togliatti a leader indiscusso del comunismo italiano.
Il Togliatti sovietico, negli anni in cui viene cooptato nei vertici del movimento comunista internazionale, fa propria la più netta separazione tra il prima e il dopo la rivoluzione, il che lo spinge sulla strada dell’ «assunzione della nuova subordinazione delle masse al partito, e di questo allo Stato» e il conseguente continuo spostamento e adeguamento alle necessità dello Stato sovietico[13]. Si trova così a convergere, nella teoria e nella pratica, sull’assioma dello stalinista Molotov: «il nostro Stato è uno Stato operaio [per cui] non possiamo in alcun modo ammettere un atteggiamento ostile da parte degli operai nei confronti del governo».
Il Saggio non è, come ci dice lo stesso Montaldi, una storia del PCI, ma ai fini dello studio del comunismo novecentesco è, a mio avviso, più utile di gran parte della storiografia oggi disponibile e ciò per il semplice motivo che riesce ad andare più in profondità, avendo capito l’essenziale sulla natura del partito e sulla sua vicenda storica. Gli interpreti progressisti fanno fatica a dar conto dello stalinismo democratico di Togliatti principalmente perché, ancora oggi, non riescono a tematizzare il rapporto tra il PCI e l’URSS, dato che quest’ultima, sino al suo inaspettato autodissolvimento, è stata, e rimane ancora, un’entità mitologica; solo che il mito si è trasformato in incubo. Ma non mancano, tutt’altro, i difensori del mito dell’ex URSS in quanto tale (più o meno con le stesse motivazioni di un tempo).
D’altro canto Montaldi non è accostabile agli studiosi che criticano  il PCI staliniano, eliminando ogni distanza tra ideologia e realtà, per cui l’ideologia è tutta la realtà. Gli autori del VII volume della Storia del Partito comunista italiano, dovuto a Giovanni Gozzini e Renzo Martinelli, osservano che negli anni della guerra fredda, nel PCI: «l’interesse di classe prevale sull’interesse nazionale: l’adesione al campo sovietico è, per i comunisti italiani, un motivo di identificazione ideologica assai più organico e assoluto di quanto non lo sia la scelta atlantica per i partiti di governo»[14].
Se una tale valutazione è giusta, uno dei capisaldi del Saggio viene a cadere. Il PCI togliattiano nel massimo del suo radicamento non si muove sull’asse nazional-statale come argomentava Montaldi, perseguiva invece come prioritario l’interesse di classe, contrariamente a quanto sostenuto in ogni pagina del Saggio. Bisogna però tener conto della grande distanza che separa Montaldi da questi studiosi, che sembrano considerare “l’interesse di classe” ovviamente coincidente con “l’adesione al campo sovietico”, come recitava la dottrina stalinista.
In definitiva, per l’impianto storico-teorico su cui si era costituito, il PCI non poteva liberarsi del mito dell’URSS e del simulacro della rivoluzione e nemmeno farne un uso puramente tattico. Il riferimento alla rivoluzione, seppure svuotato di ogni significato, deve permanere altrimenti tutto crolla, “il re è nudo”. Togliatti e i suoi successori, in particolare Enrico Berlinguer, si muovono all’interno di queste coordinate, convinti che non esistessero alternative, scontando l’accusa di nullismo su cui mette l’accento Montaldi, prima che venisse rilanciata da altri, ormai a cose fatte.


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[1] Ivi, p. 95.

[2] Lettere a Mario Giovana del 15 gennaio 1965 e 2 marzo 1965, in “Fondo Montaldi”, cit.

[3] P. Togliatti, I compiti del partito nella situazione attuale, discorso del 3 ottobre 1944 a Firenze, in Id., Opere, vol. V, Editori Riuniti, Roma, 1984, p. 104.

[4] P. Togliatti, Un partito di governo e di massa, sett. 1947, cit. da S. Bertelli, Il PCI e il suo passato: storici a confronto, in “Nuova storia contemporanea”, n. 4, 2004, p. 92.

[5] P. Togliatti, Sull’articolo 7 della Costituzione, 25 marzo 1947, in P. Togliatti, Discorsi parlamentari (1946-1951), Camera dei Deputati, Roma, 1984, p. 89.

[6] G. Sapelli, Palmiro Togliatti e le classi sociali dalla società alla politica (1946-1947), in A. Agosti (a cura di), Togliatti e la fondazione dello Stato democratico, Angeli, Milano 1986, p. 90.

[7] In “Rinascita”, sett. 1944.

[8] P. Togliatti, I compiti del partito..., cit., p. 94

[9] G. Gozzini e R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, VII. Dall’attentato a Togliatti all’VIII Congresso, Einaudi, Torino, 1998, p. XV.

[10] G. Gozzini, La storia del PCI, in “Storia e problemi contemporanei”, 2000, n. 25, p. 22.

[11] G.C. Marino, Autoritratto del PCI staliniano 1946-1953, Editori Riuniti, Roma, 1991, p. 18.

[12] Cit. in D. Montaldi, Saggio, cit., p. 278.

[13] Ivi, p. 49.

[14] G. Gozzini e R. Martinelli, Storia del Partito comunista italiano, cit., p. 149.


Pier Paolo Poggio

Montaldi
e i protocolli ideologici del PCI



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Il partito e la classe
Lo stalinismo occidentale
L'autonomia del politico
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