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Montaldi e i protocolli ideologici del PCI: 1, 2, 3, 4, 5, 6, indice dei nomi
Il
partito e i militanti di base
Non
è possibile dar conto analiticamente di un testo denso e diseguale, con
stratificazioni interne, molteplici spunti di ricerca a volte appena accennati,
e il ritorno insistito sulle questioni che Montaldi riteneva decisive, in
un’ottica dichiaratamente politica, per cui l’accento batteva sui nodi che a
suo avviso incidevano sull’attualità, su un presente in cui sembrava aprirsi un
nuovo ciclo rivoluzionario (il lavoro sul Saggio
si sviluppa, con molte interruzioni, tra i primi anni Sessanta sino alla
scomparsa di Montaldi).
A
distanza di decenni, dopo la fine del PCI e dell’URSS, la sua ricerca assume un
significato del tutto diverso, prevalentemente, anche se non esclusivamente,
storico e storiografico. Abbiamo visto all’inizio come il Saggio venisse rifiutato dalla cultura comunista e ignorato dalla
storiografia che ad essa si ispirava. Il crollo ha rimescolato completamente le
carte; sulla storia del PCI al silenzio degli ex-comunisti fa da contraltare
una pubblicistica anticomunista postuma che riduce il comunismo novecentesco ad
un fenomeno criminale.
In
un tale scenario la ricerca specialistica sul PCI ha proseguito la sua strada,
a ranghi ridotti, scontando l’autonomia con la separatezza, producendo
contributi non privi di interesse, che rimangono fuori dai circuiti della
formazione e della comunicazione. In termini sintetici si può dire che la
storiografia successiva al crollo, oltre a qualche riferimento un po’ più puntuale
al lavoro di Montaldi (si veda ad esempio il citato: G. Gozzini-R. Martinelli, Storia
del Partito Comunista Italiano, vol. VII), ha confermato tutta una serie di
sue interpretazioni e valutazioni, a partire dalla natura stalinista del
“partito nuovo” al significato e alle implicazioni del legame di ferro con
l’URSS. Anche sulla figura di Togliatti, nonostante il perdurare di omaggi
rituali, e del resto Montaldi non ne aveva certo sminuito il rilievo nazionale
e internazionale, la revisione critica sta approdando a valutazioni vicine a
quelle del cremonese (con aspetti anche più drammatici, come nel caso della
gestione del caso Gramsci)[1].
Paradossalmente
è il discorso sui militanti politici di base (il tema di Montaldi che ha avuto
maggior successo) ad essere smentito da ricerche come quelle di Ballone,
Bellassai, Boarelli, Contini, Carpinelli, ecc. In questi lavori l’autonomia
dell’esperienza proletaria, dei militanti di base, evapora (quasi) del tutto:
il progetto pedagogico-disciplinare del Partito ha avuto un successo totale, il
Partito del ventennio post ’45 è il luogo dell’identità, dell’aggregazione di
massa, della fedeltà alla linea, dell’introiezione dell’autoritarismo
(maschilista), del mito dell’URSS.
Gli
strati profondi di resistenza e di lotta emergono in modo discontinuo ed è
difficile ricondurli all’interno di una teoria marxista del proletariato. Sulla
base dei materiali utilizzati nelle ricerche recenti sulla storia dei militanti
comunisti ogni concetto di autonomia di base viene a cadere. Ma conviene non
dimenticare che si tratta di testi scritti, interni al partito, con finalità di
controllo sulla vita e le posizioni politiche in essi espresse: le
“autobiografie” servivano a controllare il conformismo ideologico e l’adesione
alla linea del partito, e gli estensori ne erano consapevoli. Quel che ne
risulta è piuttosto una mistica del collettivo comunista, la richiesta di una
piena fusione nel partito tralasciando ogni “velleità individualistica” nella
convinzione che «realizzare la propria personalità indipendentemente dalla
personalità del Partito, è mettersi fuori dal Partito stesso». Questi militanti
accettano pienamente l’autorità del partito e la subordinazione ad esso, non
solo sulle questioni politiche ma su ogni aspetto della loro vita. L’unico
giudizio che conta è quello del partito «perché è l’unico che risponda ad un
criterio esatto e reale poiché il Partito sa valutare i fatti nella vera realtà
[...]. Il giudizio nostro su noi stessi non vale niente ma dobbiamo fare nostro
il giudizio della collettività».[2]
La
subordinazione gerarchica e la necessità della centralizzazione delle decisioni
politiche nelle mani degli organi dirigenti e del Capo del partito, derivano da
un’idea di esperienza che è agli antipodi dall’esperienza proletaria a cui si
riferiva Montaldi rifacendosi a “Socialisme ou Barbarie”, a Simone Weil e ad
una tradizione minoritaria del marxismo rivoluzionario. Secondo i militanti
comunisti bolognesi studiati da Mauro Boarelli esistevano due tipi e livelli di
esperienza qualitativamente distinte: quella di cui erano capaci i proletari
stessi, un’esperienza quotidiana legata all’istinto, e l’esperienza cosciente a
cui dava accesso il partito. Questi militanti comunisti dimostravano di
condividere un protocollo ideologico fondamentale della tradizione
maggioritaria del marxismo, di cui per altro faceva parte a pieno titolo Lenin,
in base al quale il proletariato non è in grado di giungere autonomamente alla
coscienza di classe che gli può venire solo dall’esterno e dall’alto. È solo il
partito comunista, nel caso il PCI, che può dare «un senso a ciò che è
confusamente depositato nell’esperienza dei militanti»[3].
Per la sua sensibilità e cultura, per
l’attenzione alla soggettività dei proletari e alle loro concrete forme di vita,
sia nelle campagne che nelle città, per il suo retroterra ideologico in cui
convivevano in discorde armonia apporti anarchici e comunisti, per il suo
irrinunciabile leninismo bordighista, Danilo Montaldi era estraneo ed ostile al
partito di massa, alla forma di organizzazione che ha dominato e schiacciato la
storia europea del Novecento.
Di
“Socialisme ou Barbarie” condivideva la critica alla burocrazia ed ai padroni
dell’ideologia, però il suo orizzonte teorico-politico restava quello del
partito leninista. Dal suo punto di vista rinunciarvi avrebbe voluto dire
abbandonare la teoria del proletariato e la speranza nella rivoluzione.
All’altezza
della crisi del ’68 registra un cambiamento che mette in discussione il ruolo
del partito e dell’ideologia. È tramontata l’epoca in cui le masse si
politicizzavano, ora siamo «nella fase della dissoluzione partitica». I
principi ideologici, gestiti dal partito, sono avvertiti come un ostacolo alla
comprensione della realtà: «Il militante di base diffida, oggi, del ricorso ai
principi, vi intuisce una semplificazione a una fase precedente. Come è spesso
accaduto, il rispetto formale di principi – i quali inoltre sono
ideologicamente coagulati entro le strutture partitiche e sindacali non più
sentite come proprie – in quanto crea una serie di limiti astratti e soltanto
verbali, è un ostacolo all’esercizio della nuova esperienza da condurre»[4].
L’incapacità
o l’impossibilità della grande ondata della contestazione di incidere sui
rapporti di potere, di cambiare l’ordine politico della società, confermarono
però in lui la necessità dell’organizzazione rivoluzionaria, nella prospettiva
su cui si era collocato dalla metà degli anni Cinquanta, restando fuori sia dal
PCI che dalle formazioni extraparlamentari.
Il
compito dei rivoluzionari è di dare sostanza al «disperso ma esistente partito
marxista», «dare forma al sogno, dargli figura organizzativa». Attorno a questo
progetto politico, di azione politica, si sviluppa tutta l’attività di
Montaldi, come ricercatore e come militante, mantenendo sempre vivo il legame
con la base proletaria, non come postulato ideologico ma attraverso relazioni
personali vissute intensamente. Non si tratta solo di una profonda empatia, che
sarebbe stolto negare, ma di una necessità teorico-pratica ai fini della
ricostruzione del partito rivoluzionario. Montaldi è convinto che in un’epoca
in cui «il richiamo al marxismo sta diventando la copertura di un vuoto
ideologico senza precedenti ed il leninismo un’occasione per fare delle
citazioni, la teoria rivoluzionaria si deve costruire dal basso nella prassi e
nell’analisi sociale»[5].
La
critica al PCI, burocratizzato, fondato su «una concezione fatalistica del
progresso e sulla promessa di una rivoluzione dall’alto» è la pars destruens della rifondazione dal
basso della teoria e dell’organizzazione, il passaggio necessario per la
ripresa dell’azione politica partendo dalla realtà sociale. Quel che distingue
e differenzia Montaldi è la sua capacità di analizzare dall’interno, nelle sue
diverse componenti, il proletariato, evitando l’immediatismo populista e
l’élitismo intellettualistico. D’altro canto la sua analisi critica del PCI, il
partito ufficiale della classe operaia italiana e dei ceti subalterni, si
mantiene nell’orizzonte del comunismo e del marxismo, senza arretrare sul
collateralismo e senza concessioni all’anticomunismo.
Il
richiamo costante all’esperienza proletaria, alle forme di espressione e di
lotta dei contadini, operai, marginali ed esclusi, è il portato di una scelta
originaria per la rivolta contro l’ingiustizia e l’inumanità, dell’esigenza di
ribaltare l’idea di una gerarchia insuperabile tra le classi e gli individui,
invincibile perché considerata frutto della natura e della storia, come recita
da sempre l’ideologia del dominio. Al contrario, per Montaldi il comunismo è la
costruzione in comune di un mondo in cui vigono soltanto rapporti orizzontali,
gli stessi che si sperimentano nella “conricerca” e che, a suo avviso,
dovrebbero alimentare la vita del partito rivoluzionario.
Per
alcuni aspetti fondamentali Montaldi condivideva l’idea di partito formulata da
Amedeo Bordiga nel 1921: «il partito si estende sulla base dell’intera classe
proletaria, nello spazio, fino a diventare internazionale, ma altresì nel
tempo: ossia esso è lo specifico organo la cui coscienza e la cui azione
rispecchiano le esigenze del successo nell’intero cammino di emancipazione
rivoluzionaria del proletariato»[6].
Si tratta dello stesso concetto di partito
nella sua vasta accezione storica proposto da Marx e stratificatosi, con più o
meno consapevolezza, nello stesso PCI. Significativamente, uno dei militanti
studiati da Boarelli nella sua “autobiografia” definisce il partito quale «la
sintesi più pura delle battaglie che da secoli l’umanità ha condotto contro il
potere dominante dello sfruttatore»[7].
Dove parrebbe riemergere anche la tesi bordighiana del partito come “sintesi”
della classe operaia piuttosto che come “parte avanzata” della medesima. Ovvero
uno dei temi di scontro tra Bordiga e Gramsci, nel 1926, all’altezza del
congresso di Lione, allorché viene definita la nuova e duratura piattaforma
politico-ideologica del PCd’I, oggetto delle insistite critiche di Montaldi,
formulate assumendo come riferimento le posizioni di Lenin.
Il
leninismo di Montaldi era, ed è, politicamente inefficace ma risulta utile
nell’analisi del PCI, rivelandosi un buon strumento per lo studio dei suoi
protocolli ideologici. Montaldi costruisce una sorta di “tipo ideale”,
utilizzando tanto Marx e Bordiga quanto Lenin, e con un tale modello indaga
criticamente l’inveramento storico del leninismo in Italia ad opera di Gramsci
e Togliatti, sotto l’egida dell’URSS e il segno di Stalin. Affronta in una
prospettiva originale e fortemente anticipatrice, specie se si tiene presente
il suo progetto complessivo di ricerca, la saldatura di leninismo e stalinismo
incarnata dal PCI, in cui c’è sia il legame di ferro con il “Paese del
socialismo realizzato” che la costruzione di un soggetto politico originale, un
unicum tra i partiti comunisti del Novecento.
La
diversità del PCI non costituisce però, a suo avviso, una ricchezza da
coltivare ma lo strumento per imporre un’egemonia negativa sulla classe. È un
aspetto fondamentale del dispositivo ideologico con cui il partito si fa
interprete della realtà e guida l’azione delle masse. In forte anticipo sui
tempi, Montaldi sostiene che al PCI, per come è stato pensato e costruito, non
si aprono affatto grandi orizzonti: il suo ruolo si esaurisce con
l’integrazione subalterna delle masse, a cui è funzionale il mantenimento del
mito dell’URSS. La grande macchina, costruita con enorme dispendio di energie,
persi di vista i suoi obiettivi, ha smarrito la strada e gira a vuoto sui
contorni del reale. La diagnosi di Montaldi, profetica ed inattuale, rimase inascoltata.
Sapendola vera è utile capire come egli giunse a formularla[8].
Il lavoro sui militanti di base e tutta la ricerca sugli strati profondi del
proletariato costituiscono l’altro versante dello studio critico della politica
del PCI. Il progetto comunista ha un futuro solo se si sostanzia dei bisogni e
delle speranze dei soggetti, marginali e sconfitti nell’ottica del potere, a
cui Montaldi ha dedicato la sua incessante “ricerca”. Essi non sono né dei
residui di una storia passata né il materiale umano a cui dare forma e
disciplina all’interno delle organizzazioni di massa. Il leninismo proletario
di Montaldi, frontalmente polemico nei confronti del leninismo stalinista del
PCI togliattiano, scommette sulla possibilità di dare uno sbocco politico rivoluzionario
alla contemporaneità del non contemporaneo, alla compresenza di figure sociali,
tempi e culture diverse investite dallo sviluppo capitalistico accelerato, che
il PCI non riesce a vedere mentre si candida a gestirlo politicamente in nome
dell’interesse nazionale, in concreto della sua capacità di egemonizzare gli
strati proletari, ribadendone la subalternità.
In sintonia con la geopolitica staliniana il PCI persegue nel ‘44/47
l’integrazione democratica (e l’egemonia culturale), dopo la sconfitta del ’48
una “controsocietà” difensiva. Ma, almeno sino al ’68/69, è il rappresentante
riconosciuto dei ceti subalterni; non è legittimato a governare ma a governarli
in un disegno nazionale di integrazione. Il PCI, segnato dall’imprinting togliattiano, non è mai
andato oltre ad una prospettiva che non aveva più nulla a che fare con le basi
ed i presupposti teorici della sua fondazione. Montaldi è stato il primo a
tentare una sintesi critica di così ampia portata mentre il processo era ancora
in corso, individuando chiaramente la parabola del comunismo italiano
novecentesco. I risultati che ci fornisce sono preziosi e si prestano ad usi
molteplici, anche questo lato del suo lavoro merita di essere riscoperto e
valorizzato.
[1] Nel recente
convegno internazionale, 9-11 dicembre 2004, organizzato dalla Fondazione
Gramsci di Roma, Ernesto Galli della Loggia, accanto a chi scioccamente ha
parlato di provincialismo di Togliatti, non ha mancato di valorizzarne il ruolo
nella costruzione del nuovo Stato: «La sua linea di moderatismo fornì
oggettivamente un contributo importantissimo alla nascita della nuova Italia»
(in “La Stampa” del 10 dicembre 2004).
[2] Verbale di
una riunione di cellula del 24.03.1949, cit. da S. Bellassai, L’organizzazione
come cultura. Aspetti del rapporto fra militanti e partito nel PCI degli anni
Quaranta e Cinquanta, in “Storia e problemi contemporanei”, 2000, n. 25, p.
76.
[3] M. Boarelli,
Militanti comunisti a Bologna.
Autobiografie e percorsi di formazione tra il fascismo e il 1956, Tesi di
dottorato presso l’Istituto universitario europeo di Firenze, 1995, p. 195.
[4] D. Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi, Torino, 1971, p. XVII.
[5] D. Montaldi, Sociologia di un congresso, in Id.,
Bisogna sognare. Scritti 1952-1975,
Centro Luca Rossi, Milano, 1994, p. 284.
[6] A. Bordiga,
Partito e classe, in “Rassegna
comunista”, aprile 1921, n. 2.
[7] M. Boarelli, Militanti comunisti a Bologna, cit., p. 207.
[8] In un’ottica
opposta a quella di Montaldi, riformista invece che rivoluzionaria, Luciano
Cafagna è pervenuto, molti anni dopo, ad una conclusione convergente: «Via via
che il partito comunista italiano, rimesso in corsa nel suo paese, troverà
spazi di autonomia, si verrà sbarazzando dei programmi concreti e storici del
comunismo, ma non ne assumerà veramente altri, e tenderà solo a valorizzare
questa qualità distillata. E però progressivamente sempre più scatola vuota di
contenuti concreti» (L. Cafagna, C’era una volta... Riflessioni sul comunismo
italiano, Marsilio, Venezia, 1991, p. 44).
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Pier Paolo Poggio
Montaldi e i protocolli ideologici del PCI
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