Montaldi e i protocolli ideologici del PCI: 1, 2, 3, 4, 5, 6, indice dei nomi

Lo stalinismo occidentale





Si può condividere il giudizio secondo cui il Saggio è di faticosa lettura; di primo acchito ne siamo respinti, è come entrare in una dimensione estranea, claustrofobica, nonostante le note interne ed esterne al testo che aprono spiragli su altre realtà e storie. Aiutati, ma non troppo da Montaldi, a causa della densità del suo linguaggio, entriamo in un mondo artificiale, in una costruzione politico-ideologica sofisticata, che egli si prefigge di smontare pezzo a pezzo, senza mai perdere di vista (e in quel momento con un’intuizione straordinaria) che si «trattava di un giro a vuoto sui contorni dei rapporti reali»[1]. Tale il giudizio che egli dà del programma di Togliatti, considerato il portato di “una linea astratta”, dettata da istanze di potere, non di classe: «l’esperienza proletaria è altra, e si distingue dalla pratica del PCI»[2].
Togliatti è al centro di tutto il Saggio, costruito principalmente attorno all’analisi critica delle sue cangianti posizioni, lette alla luce di un disegno politico complessivo, in grado di dar conto di tutta l’evoluzione del PCI, dagli anni Venti ai primi anni Settanta (e oltre). Montaldi è sicuro del rilievo straordinario del personaggio: «P.T. è stato uno dei personaggi centrali, e un protagonista determinante, del movimento comunista dalla morte di Lenin»[3]. Il suo obiettivo primario è stato quello di nazionalizzare il partito e il proletariato, ma questo è avvenuto all’interno di un disegno generale e come esito di una lotta terribile che ha avuto in Togliatti uno dei protagonisti. Per un’analisi critica in profondità l’operato di Togliatti va collocato nello scenario mondiale del comunismo novecentesco: «Perchè il tiro si accorci in falsi scopi e il tempo si riduca a uno, e la guerra sostituisca la rivoluzione, e la nazione si metta al posto dell’Internazionale, sono occorsi a Togliatti dieci anni di stretta collaborazione con i dirigenti sovietici, di assimilazione perfetta della dottrina staliniana, di dure lotte all’interno del partito»[4] .
Quando arriva in Italia nel ’44 «si presenta come il rappresentante di una parte politica mondiale, di un “al di sopra” che dirige le masse»[5], in definitiva il rappresentante dello stalinismo trionfante[6]. Montaldi che tanto insiste sulla curvatura nazionale della politica comunista, ha chiarissimo il concetto che essa è parte di un organismo mondiale, di una struttura di potere mondiale in cui partito e Stato coincidono. La spregiudicatezza di Togliatti «non è altro che dottrina puramente staliniana e suo sviluppo con colorazione ambientale»[7]. La pubblicistica e la storiografia impiegheranno  decenni per giungere ad inquadrare con la stessa efficacia, e sostanzialmente negli stessi termini, il creatore del “partito nuovo”, che continua ad essere  oggetto di tributi acritici di vario segno a riconoscimento dei suoi meriti politici. In ogni caso l’impianto concettuale con cui Montaldi indaga la politica comunista ha poco o nulla in comune con le attuali, modeste, operazioni revisioniste in tema di storia del PCI, mentre permane intero e risulta ancora più profondo il distacco del cremonese rispetto agli storicismi giustificazionisti di cui hanno beneficiato sia Togliatti che Stalin; d’altro canto la loro pura e semplice criminalizzazione, opera di un tardivo pentitismo, sarebbe stata da lui considerata un ostacolo alla conoscenza e uno strumento per paralizzare l’azione politica. Le cose stavano ben diversamente in anni in cui solo pochissimi emarginati e isolati, come Montaldi, criticavano apertamente e frontalmente lo stalinismo sovietico e del PCI, perpetuatosi in piena continuità storicista, nonostante qualche scossone, dopo il XX Congresso, l’Ungheria e tutto quanto[8]. In quel momento, e successivamente, lo stalinismo interno era funzionale al disegno del PCI di realizzare le promesse non mantenute dei partiti borghesi, della destra italiana, antipolitica per antica vocazione. Il partito si candida a diventare classe dirigente, a fare degli operai la principale forza produttiva di sviluppo, sul presupposto del controllo politico che esso esercita sulla classe.
Secondo Montaldi, Togliatti aveva ereditato da Gramsci la tesi dell’arretratezza del capitalismo italiano e ne aveva fatto il caposaldo della sua strategia imperniata sulla prospettiva di un’espansione armonica dell’economia, resa possibile dal controllo politico dello Stato da parte delle forze progressiste guidate dal PCI[9]. Il rapporto di continuità Gramsci-Togliatti, canone ideologico basilare nel PCI, interessa a Montaldi per il ruolo che attribuisce alla tesi gramsciana «dell’insufficiente sviluppo del capitalismo italiano, che consente e giustifica l’assunzione di una funzione democratica da parte del PCI»[10]. Vede in Gramsci l’artefice di una meridionalizzazione delle tesi di lotta, il «fautore di una strategia unitaria che partisse dai problemi nazionali della disuguaglianza, a costo di sacrificare il leninismo»[11].
Attento alle vicende determinanti del comunismo russo-sovietico, dimentica che la prospettiva dello sviluppo del capitalismo russo come effetto di una rivoluzione democratica vittoriosa guidata dal POSDR, cioè dai bolscevichi, era stato un caposaldo della linea leniniana prima del ’17. In ogni caso ha perfettamente ragione nel collegare costantemente le scelte tattiche e strategiche dei leader comunisti italiani alle lotte e alle svolte che avvenivano in URSS. Così tutta l’elaborazione sull’arretratezza dello sviluppo e sugli strumenti politici che si pensava di utilizzare per superarla, non può essere vista solo nel contesto italiano. L’elaborazione togliattiana della strategia delineata da Gramsci «si salda con la pratica dell’industrializzazione che abolisce i Soviet ma porta a compimento il capitalismo in Russia sotto la direzione dello Stato»[12].
Pur concentrando la sua attenzione sul “partito nuovo” che Togliatti imposta sullo sfondo della Seconda guerra mondiale, Montaldi retrodata l’opzione ad un tempo nazionale e subalterna all’URSS del partito comunista italiano al momento della vittoria dei “centristi”. A suo avviso la svolta decisiva avviene già nei primi anni Venti, con la sconfitta di Bordiga, entrato in rotta di collisione con il gruppo dirigente del partito comunista sovietico. «La caduta della prima direzione del PCd’I è anche il crollo di una concezione per la quale avrebbe dovuto essere la classe operaia internazionale a determinare la politica dello Stato sovietico; l’accettazione delle tesi Zinov’ev porta a fare dei partiti comunisti delle appendici non necessarie dello Stato russo»[13].
Il passaggio successivo avviene con le Tesi di Lione, che ispirarono «tutta la carriera politica di Togliatti» (L. Cafagna). Con esse il partito realizza la saldatura tra il suo specifico compito nazionale – porre rimedio alla debolezza storica dello sviluppo italiano – e la fedeltà alle direttive della III Internazionale cioè del PCUS e di Stalin. La finalità della costruzione nazionale-statale dello sviluppo e la fedeltà all’URSS rimangono i due punti fermi della politica comunista anche durante la Resistenza.
La tesi di Montaldi è che nel ’43/45 l’aspirazione della classe fosse «l’assalto del potere da parte del proletariato in armi». Cosa che può essere revocata in dubbio, non mancando però di riscontri empirici. Tutt’altra era la missione, l’obiettivo storico, che il PCI assegnava alla classe operaia, la quale «è assurta in modo definitivo alla funzione di classe nazionale dirigente, di classe cioè che deve e può affrontare e risolvere in modo positivo tutti i problemi inerenti alla vita ed al progresso della Nazione»[14].
Ovviamente, nelle contingenze storiche, il ruolo che era assegnato alla classe venne svolto dal partito, un partito di tipo nuovo, il cui profilo ideologico viene tracciato da Togliatti nei suoi numerosi interventi dell’estate-autunno 1944. Nondimeno, ammette Montaldi, «i militanti s’organizzavano lì; altro luogo, di massa, non avevano»[15].
La guerra mondiale contro la Germania nazista surdetermina per il PCI ogni altra opzione, e comporta l’accantonamento dell’azione rivoluzionaria delle masse. I militanti di classe, le avanguardie operaie, che pure considerano il PCI il partito dell’insurrezione, della rivoluzione proletaria organizzata, hanno una diversa e opposta esperienza della guerra, infatti «era stato proprio nel corso della guerra che i lavoratori avevano acquisito la coscienza della propria autonomia e della propria forza alternativa, dagli scioperi del marzo all’armamento, dall’organizzazione di fabbrica all’organizzazione politica»[16].
Delle tre guerre che Claudio Pavone ha indicato quale intreccio ineludibile per capire il ’43-’45 italiano, la terza, quella di classe, è ormai sparita definitivamente dalla memoria e dal lessico delle culture politiche, anche se all’epoca coinvolgeva tutte le forze di sinistra e non solo i comunisti (generalmente più moderati di altri). Resta il fatto che gli operai di fabbrica scelsero massicciamente il PCd’I, facendo fare un grande salto dimensionale ad una organizzazione che era stata svuotata e ridotta a poca cosa dall’azione repressiva fascista. É nel territorio e nei giorni di Salò che il partito comunista diventa il partito degli operai[17].
La scelta operaia non dipese certamente da una conoscenza impossibile della linea politica del partito ma da due fattori principali: il mito della rivoluzione d’Ottobre, dell’URSS e di Stalin, vittoriosi sul nazismo; il prestigio guadagnato dai comunisti nella lotta contro il regime fascista. «Sotto il fascismo – scrive Montaldi –, i comunisti tornano ad essere comunisti e non più soltanto uomini di frazione, nel corpo dell’intera opposizione della classe operaia al regime»[18].
Su questo sfondo si capisce come il PCI sia potuto apparire a seguaci ed oppositori il partito della rivoluzione comunista in Italia; il PCI e Togliatti in primis utilizzarono o respinsero a seconda delle occasioni questa fama rivoluzionaria. La linea politico-ideologica fu però sempre coerentemente quella analizzata da Montaldi: democratico-nazionale all’interno, filosovietica all’esterno. Ovviamente il richiamo all’URSS perpetuava l’equivoco rivoluzionario, per tutti coloro che ne facevano il Paese della rivoluzione.
Le critiche di sinistra e di destra alla politica del PCI hanno così prolungato per decenni l’equivoco sulla pretesa rivoluzione comunista in Italia, non riuscendo a cogliere la funzione dell’ambiguità ideologica nel rapporto tra i vertici e la base. In realtà la politica comunista, elaborata da Togliatti prima e dopo il suo ritorno in Italia, fu esplicitamente e coerentemente una politica di unità nazionale[19]. Tra le numerosissime citazioni riportate nel Saggio, si consideri questo passo del discorso di Togliatti al II Consiglio nazionale del PCI (1945): «Coloro che hanno preso le armi nel Nord non hanno nessun colore, essi non sono né verdi, né bianchi, e neanche rossi. Essi sono tricolori perché l’Italia oggi è tricolore!»[20].
Ciò non vuol dire che il partito non mirasse alla conquista del potere politico, al contrario questo rimaneva il suo obiettivo finale, procrastinato nel tempo, mentre quello immediato consisteva nella sua affermazione egemonica e continuo rafforzamento, un obiettivo che poteva essere perseguito non mediante ma a scapito di una linea politica rivoluzionaria, facendo sparire la ragione sociale della sua esistenza.
La linea nazionale-statale del PCI non entra mai in rotta di collisione con l’URSS mentre si traduce in un freno costante alle aspirazioni della classe operaia. Questa è la griglia di lettura che Montaldi applica al periodo post-resistenziale. Il partito sancisce l’armonizzazione tra gli autentici interessi nazionali e la politica dell’URSS, bastione della pace e dell’antimperialismo. Ed è ancora il partito che stabilisce la convergenza tra capitale e lavoro, imponendo alla classe di autolimitarsi nelle sue aspirazioni «perché la sinistra si è agganciata al disegno di espansione del capitalismo, intende esserne uno dei motori, in prospettiva di una società ordinata che ha bisogno di capitali come di braccia, da gestire in comune con l’apparato statale e con i tecnici della grande industria»[21]. Un corollario della linea nazional-statale è l’adozione del produttivismo in fabbrica, svuotando gli organismi di base (Consigli di gestione, Commissioni interne) delle loro connotazioni democratico-classiste. Gli operai debbono sottostare agli imperativi della produzione, in un contesto di ricostruzione capitalistica.
Per le categorie interpretative che utilizza e le finalità pratico-politiche che persegue, Montaldi è lontano dalle posizioni della storiografia filocomunista che attribuisce al PCI il ruolo di principale e decisiva forza democratica, baluardo della Costituzione e della legalità, contro le pulsioni ribellistiche ed avventuriste della sinistra radicale, e contro i ricorrenti conati autoritari ed eversivi della destra reazionaria. Nondimeno riconosce ad abundatiam al PCI le credenziali di credibilità istituzionali, statali e nazionali, perseguite da Togliatti e dai suoi successori, sulla scorta della loro peculiare elaborazione del lascito gramsciano. Quel che sfugge agli intellettuali e storici “compagni di strada” è la natura duplice del PCI, la mancanza in esso di ogni democrazia spinta sino al limite del “terrorismo” all’interno del partito[22].
Una prassi perpetuatasi nel tempo ben al di là di ogni destalinizzazione di facciata, e che aveva un duplice obiettivo: impedire il dissenso politico nelle fila del partito, evitare che le critiche dall’interno si saldassero alle spinte provenienti dalla base. Il tutto a difesa della “nomenclatura” che raccoglieva, sovieticamente, i vertici dell’organizzazione e i dirigenti intermedi.
Attraverso il PCI è emersa una “nuova classe” di governo che si propone alla direzione dello Stato, alla guida politica della nazione[23]. Perciò, dice Montaldi, con un evidente richiamo alle analisi sul ruolo della burocrazia nei sistemi socialisti, Togliatti non deve essere considerato «un riformista tra i tanti ma l’uomo della possibilità statale di una nuova classe»[24]. É in vista di tale sbocco che il partito diventa lo strumento per imporre una disciplina nazionale alle masse, il garante del loro inserimento nel sistema. Stratega dell’autonomia del politico ed epigono di una intera tradizione nazionale, Togliatti riesce a plasmare il PCI attingendo da Gramsci e da Stalin[25].
A giudizio di Montaldi va però incontro ad un duplice fallimento: cancella le ragioni fondative della politica comunista, senza riuscire a dare uno sbocco positivo, di potere, al suo entrismo machiavellico. Né riforme né rivoluzione, il programma di Togliatti è un giro a vuoto sui contorni dei rapporti reali. Allontanata definitivamente ogni prospettiva rivoluzionaria il PCI tiene ferma la barra al centro, promettendo alla classe operaia «di avanzare verso il socialismo seguendo quella via democratica che è prevista dalla Costituzione»[26].
Nonostante i fermenti della base, e il grande ritardo del partito nel capire il nuovo ciclo di sviluppo neocapitalistico, il PCI riesce a mantenere il suo ruolo di referente principale delle masse popolari: è questa la sua fondamentale rendita di posizione (e ci vorranno decenni prima che venga del tutto consumata). La discrasia del partito rispetto alla classe, accentuatasi con il riaprirsi di un nuovo ciclo di lotte negli anni ’60, viene mediata e riassorbita dal sindacato (CGIL) che «tende a diventare l’interlocutore diretto e autonomo del capitale», «riuscendo a profittare della forza contrattuale offerta dalle lotte del ’60»[27].
Montaldi decostruisce convincentemente l’articolata capacità del partito di trarre alimento dai comportamenti discordanti e dissidenti di una base che non riesce ad essere autonoma: «una base che riduce il conflitto ai suoi termini classici e statici, che si fa cinese, trockista, anarchica, o recupera forme di ideologia, le quali sono puramente dei momenti della vita della grande organizzazione guidata dall’immutata Direzione centrista, non può non fare il gioco di cui si fregia lo storicista Togliatti»[28].
Sorto per effetto della rottura del 1917, della lotta aperta contro la guerra e l’imperialismo, il PCI è diventato partito di governo, custode dell’ordine e della legalità; lungo la via tracciata da tempo nei protocolli ideologici, attraverso un processo molecolare e continuo, il PCI «ogni giorno ha mutato, metodicamente, natura, alleandosi “alla storia” e rientrando nello sviluppo del sistema»[29]. La convinzione di Montaldi è che «una classe operaia che ha vissuto in modo dialettico il rapporto con il partito della burocrazia, saprà certamente condizionarlo e liberarsi della sua ipoteca fallimentare»[30]. Non sarà così, e il ciclo storico della classe giungerà ad esaurimento assieme a quello del “suo” partito.


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[1] Ivi, p. 43.

[2] Ivi, pp. 27-28.

[3] Ivi, p. 44.

[4] Ivi, p. 60.

[5] Ivi, p. 87.

[6] La collocazione in toto geopolitica, su scala globale, di Togliatti, sottolineata con grande energia da Montaldi, è stata confermata efficacemente da Aldo Natoli venti anni dopo. Interrogato da Pietro Di Loreto sui contrasti tra “romani” e “milanesi”, Natoli dice che, tra Roma e Milano, «Togliatti stava con Mosca. La sua tendenza a mantenersi all’interno di un quadro governativo, ed adeguare con grande moderazione il suo atteggiamento a quanto si poteva o non si poteva fare, il rinunciare a determinati obiettivi, o rinviarli, a fare concessioni anche “pesanti” alla DC, era nel complesso l’espressione più compiuta della politica di guerra di posizione, di lungo periodo, che in quel momento corrispondeva alla strategia e alla tattica dell’URSS» (P. Di Loreto, Togliatti e la “doppiezza”. Il PCI tra democrazia e insurrezione, 1944-’49, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 34).

[7] D. Montaldi, Saggio, cit., p. 63.

[8] Polemizzando contro lo storicismo Montaldi ricorda che «per Benjamin, il materialista storico considera suo compito passare a contropelo la storia e farne saltare per aria la continuità» (ivi, p. 65).

[9] La continuità Gramsci-Togliatti, innegabile per alcuni capisaldi ideologici, deve essere considerata con prudenza, non fosse altro perché costituiva un obiettivo politico prioritario per Togliatti medesimo. Tra contorsionismi e strumentalizzazioni, i materiali emersi a proposito delle vicende carcerarie di Gramsci, delineano ormai un quadro di dissensi e diffidenze profondi e inquietanti.

[10] Ivi, p. 119.

[11] Ibid.

[12] Ivi, pp. 136-137.

[13] Ivi, p. 175.

[14] “L’Unità” del 10 giugno 1943, nell’articolo che annuncia lo scioglimento dell’Internazionale, cit. da Montaldi in op. cit., a p. 211.

[15] Ivi, p. 220.

[16] Ivi, p. 227.

[17] Ho cercato di affrontare questa saldatura, solo apparentemente ovvia, in Operai e comunisti nei 600 giorni di Salò. Cfr. P.P. Poggio (a cura di), La Repubblica Sociale Italiana 1943-’45, in “Annali della Fondazione Luigi Micheletti”, 1986, n. 2, pp. 55-77.

[18] D. Montaldi, Saggio, cit., p. 198.

[19] Sulla svolta di Salerno, causa di infinite ed inutili discussioni, la posizione di Montaldi è sempre lucida e lineare: «Togliatti arriva a Napoli con un mandato preciso, d’ordine diplomatico e politico, che orienta tutta l’azione del PCI nel periodo» (Ivi, p. 232).

[20] Cit., Ivi, p. 95.

[21] Ivi, p. 290.

[22] Ivi, p. 44.

[23] Montaldi aveva ben presenti i dibattiti sulla degenerazione burocratica dell’URSS. Molto prima del celebrato libro di Milovan Gilas sulla “nuova classe”, il «problema delle trasformazioni operate dal potere sul proletariato russo e sul partito comunista era stato affrontato da gente come Christian G. Rakowskij che nel 1929 aveva analizzato lo sviluppo della burocrazia come differenziazione sociale dal contesto delle classi lavoratrici in vista di un regime gestito dalla “nuova nobiltà”» (Ivi, p. 47). Lo scritto di Rakowskij apparso nel 1929 in “Contre le courant” era stato tradotto e pubblicato per la prima volta in italiano dal gruppo cremonese di “Unità proletaria”.

[24] Ivi, p. 42.

[25] L’azione politica di Togliatti rappresentò una incarnazione anticipata delle teorizzazioni nostrane sull’ “autonomia del politico”. Pur con segno di valore rovesciato, si può registrare una convergenza con le analisi di Montaldi. Una volta abbandonata la prospettiva dell’azione rivoluzionaria violenta, si poneva per il PCI «il problema di come penetrare dentro la macchina statale, di come occupare questa arena del potere per produrre potere per il partito». La via perseguita dal PCI togliattiano fu quella del «controllo politico dell’apparato dello Stato e una pratica della lotta di classe condotta dal vertice del potere» (M. Ilardi, Sistema di potere e ideologia nel PCI: le conferenze nazionali d’organizzazione, in “Annali Feltrinelli” XXI, 1981, p. 13.

[26] P. Togliatti, Discorso al Comitato Centrale del PCI del 27/29 settembre 1956, cit. in D. Montaldi, Saggio, cit, p. 319.

[27] Ivi, pp. 327-328.

[28] Ivi, p. 331.

[29] Ivi, p. 342.

[30] Ivi, p. 343.


Pier Paolo Poggio

Montaldi
e i protocolli ideologici del PCI



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