Montaldi e i protocolli ideologici del PCI: 1, 2, 3, 4, 5, 6, indice dei nomi

Il partito e la classe





Le ricerche sociali di Danilo Montaldi non hanno trovato un pieno riconoscimento presso la sociologia ufficiale, hanno però ricevuto molteplici riscontri e alimentato, anche a distanza di tempo, curiosità e interesse presso intere generazioni di ricercatori, in bilico tra università e militanza politica. Non è accaduto così per il Saggio, sia per l’ostracismo decretatogli dalla cultura comunista, sia perché la storia del PCI appariva un tema privo di rilievo già per la generazione del ’68, a cui ha fatto seguito una politica di desertificazione orchestrata da più parti.
É accaduto così che la discussione sul libro meno fortunato di Montaldi, con le parziali eccezioni su cui mi sono soffermato, sia rimasta allo stato iniziale. In una tale situazione la Nota introduttiva all’edizione piacentina del Saggio, ad opera di Nicola Gallerano, è indispensabile perché consente di capire, attingendo alla corrispondenza del nostro, che l’analisi storico-genealogica della politica del PCI non fu un prodotto eccentrico ma venne concepita all’interno di un progetto complessivo quale tappa obbligata di un’azione politica. Secondo le parole stesse di Montaldi: «una ricerca necessaria per capire a che punto siamo oggi, non come un libro di storia»[1].
Prima di ogni altro aspetto quel che importa mettere in luce è l’impostazione del lavoro, la scelta deliberata di partire dal vertice, dallo studio sui protocolli ideologici, per giungere a compiti immediati, politici e organizzativi. Si tratta quindi di una ricerca che mira a saldare teoria e prassi militante, e che senza tradire questa ottica riesce a mettere in campo i temi principali per un’interpretazione della storia del PCI. Gallerano, uno dei pochi interlocutori diretti che Montaldi ha avuto nella stesura del Saggio, non manca di indicare il punto critico e il limite principale della ricerca montaldiana: «la critica della “linea” del partito, la critica dell’ideologia sottesa a quella linea non è più sufficiente»[2]. Occorre indagare il rapporto tra il partito e il proletariato. Gallerano segnala anche che Montaldi era pienamente consapevole di tale nodo problematico.
A distanza di decenni e dopo la fine del PCI, la questione ha ancora un interesse e non mancano, seppure in un panorama rarefatto, ricerche volte ad indagare il rapporto dialettico tra il partito e la classe, partendo da quest’ultima piuttosto che dai protocolli ideologici (non senza tener conto del contributo dello stesso Montaldi allo studio dei militanti di base). Ma ancor più significativo è il risvolto teorico implicato nell’esame del durevole rapporto tra partito e base proletaria, classe operaia e comunismo novecentesco. Oltre alla fine di ogni concezione escatologica o soteriologica affidata ad un soggetto sociale concepito quale motore della storia, anche la teoria della rivoluzione proletaria viene ad essere pesantemente interrogata dalla perdurante dialettica tra partito e classe, sino alla loro pressocché consustanziale estinzione in quanto soggetti politici.
Montaldi vede la questione dal lato del PCI. A suo giudizio la politica comunista, portata a compimento da Togliatti, aveva ormai consumato da tempo una rottura definitiva con la teoria del proletariato. Nondimeno, il corpo centrale della classe, tra strappi e delusioni, continuava ad identificarsi con il partito comunista. Montaldi ritorna ripetutamente sul tema, ma le sue risposte non riescono ad andare alla radice, perché volutamente si concentra solo su un aspetto del problema, è critico su un solo versante, non vede l’ambivalenza della condizione e dell’azione della base proletaria.
La saldatura tra classe e PCI, che in Italia prende forma nel corso della Seconda guerra mondiale, precede di molto l’integrazione della classe nel capitalismo e il suo dissolversi in quanto classe antagonista, con la differenza che la conflittualità anticapitalistica può risorgere in quanto prodotto di una contraddizione reale, cosa che si verifica con il nuovo biennio rosso del ’68/69, mentre l’alienazione politica non viene superata, anzi viene fissata dal bisogno di ribaltare la propria condizione di subalternità attraverso nuovi rapporti di potere e di dominio.
Nella visione di Marx l’autonegazione del proletariato equivale all’affermazione di una “classe universale” che pone fine alla divisione classista e gerarchica della società; finisce la «preistoria della società umana» e con il superamento dell’antagonismo e della lotta di classe inizia il comunismo. L’autonegazione della classe è il passaggio più arduo e però ineludibile della teoria del proletariato, implica la capacità di superare l’immagine mistificata che la classe operaia ha di se stessa, ma non c’è alcuna garanzia che ciò avvenga sotto forma di azione storica trasformatrice dell’esistente e che si realizzi la vera emancipazione collettiva del proletariato. Questa è piuttosto l’eccezione che rinvia alla rivoluzione in atto, mentre la vicenda novecentesca del movimento operaio, non a caso egemonizzata dal leninismo, è segnata dall’autonegazione regressiva della classe, dall’eliminazione della soggettività collettiva di classe nella sfera del politico, cioè del partito, del “Nuovo Principe” che, per imporre il suo potere, perpetua la subalternità della base sia tramite l’idoleggiamento populistico degli sfruttati sia con l’esaltazione acritica dei produttori.
In alcuni passi molto densi della “Premessa” posta in apertura al Saggio, Montaldi pone l’accento sui temi salienti del suo lavoro. Da un lato insistendo sulle teorizzazioni di Togliatti egli si è prefisso l’obiettivo di dimostrare che l’interpretazione della società italiana sviluppata dal gruppo dirigente del PCI, tra lo storicistico e il positivistico, ha segnato in senso «tutt’altro che marxista, il divenire dell’azione comunista nel Paese»[3]. D’altro lato, in una ricerca volutamente parziale, ha cercato di «far emergere, quanto di più interno, di più vicino alla classe l’attività comunista presume in Italia, fin dalle sue origini»[4].
Per questa via ha toccato, senza risolverlo, il nodo richiamato da Gallerano. Montaldi sa che, al di là della “linea”, resta «pur sempre il problema di capire perché e come mai il proletariato italiano ha considerato, pur tra strappi e pause, il PCI come il proprio partito rappresentativo di massa»[5]. A tal fine bisogna calarsi nell’esame della vita dell’organizzazione, rispetto a cui la “linea” è uno soltanto degli elementi da prendere in considerazione. Ma, aggiunge Montaldi, «determinante per il suo sviluppo a lunga scadenza»[6].
La scelta di Montaldi di concentrarsi sui “protocolli ideologici”, lontana rispetto al taglio sociale e antropologico delle altre sue ricerche, derivava dalla lucida consapevolezza del ruolo speciale dell’ideologia nella vita del PCI. Il crollo o capovolgimento dei referenti ideologici, il prevalere assoluto di una politica senza principi, tutta giocata sul momento per momento, rende difficile la comprensione di una concezione del mondo che sopravvive almeno sino alla morte di Berlinguer. A differenza di quest’ultimo Togliatti era stato un tattico spregiudicato, nondimeno aveva difeso con estrema durezza il territorio inviolabile dei principi ideologici. Si potevano discutere le scelte contingenti ma non si poteva mettere in discussione l’ideologia: «la teoria, le scelte strategiche erano sottratte alla discussione. Solo sulla prassi, sulle applicazioni, ci si poteva confrontare»[7]. Ricerche recenti hanno confermato e radicalizzato l’analisi critica di Montaldi sul rapporto classe-partito e sul ruolo svolto dal controllo dell’ideologia: «L’inquadramento ideologico della classe operaia organizzata nel partito e nel sindacato produce i suoi effetti. Il gatto si morde la coda: interrogando la “classe” il partito ottiene le risposte che esso stesso ha fornito. C’è la restituzione speculare dell’immagine voluta, e c’è infine il silenzio»[8].
La storiografia sul PCI, specie dagli anni ’90 in poi, ha posto l’accento sulla forte vocazione educativa e disciplinatrice del partito, capace di creare una seconda società, ad un tempo integrata e conflittuale. Il successo del PCI, «che vide confluire nelle sue fila un torrente di energie collettive», faceva leva su di un efficace gioco politico, in cui la separatezza si alternava all’integrazione. Il PCI, specie nel clima della guerra fredda, edifica una società parallela, contemporaneamente si prefigge di dare una formazione al popolo, di educare la propria base sociale sul piano etico e di disciplinarla su quello ideologico. «Nella rivendicazione assoluta del monopolio della rappresentanza politica il partito dava per scontati, tra i propri doveri, quelli legati ad un intervento educativo nei confronti della sua base sociale»[9].
L’alternanza tra conflitto e integrazione, è una risorsa politica fondamentale per il PCI e dà conto, almeno sino alla metà degli anni Settanta, dei comportamenti e delle scelte per tempo analizzate da Montaldi, senza dare spazio alla lettura moralistica della “doppiezza”, trattandosi di un problema strettamente politico.
Il PCI si era trasformato da partito rivoluzionario in partito educatore, ma questa autoinvestitura educativa discendeva da una scelta politica, dalla collocazione e dal ruolo del partito nel sistema politico italiano. Il PCI, partito di lotta e di governo, «nei momenti alti della mobilitazione collettiva e nella fase acuta del conflitto sociale – per legittimare la propria funzione – doveva porsi come un freno a una spontaneità totalmente dispiegata, normalizzare la carica dirompente della spinta dal basso per capitalizzarne il valore sul piano del proprio ruolo istituzionale [...]; nelle pause del conflitto, ma soprattutto dopo le sconfitte, la sua funzione era invece quella di sostituirsi ai movimenti, di surrogarne la mancanza di spinta, attutire i guasti morali che la caduta ingenerava nella soggettività delle classi subalterne, indicare una linea di continuità e resistenza che permettesse di non smarrire il filo della speranza e dell’impegno politico-militante[10]».
Anche su questo terreno Montaldi è tra i primi a rappresentare il PCI come forza disciplinatrice e pedagogica che si impone sulle masse, frenandone gli istinti ribellistici, e sulla stessa classe operaia che «non dispone più di un proprio partito»; una forza conservatrice che mira al suo autoaccrescimento piuttosto che ad effettive conquiste di progresso, ottenute attraverso il conflitto sociale. Egli converge con Fortini nel ritenere che l’essenza dello stalinismo consista in una forma integrale di non-partecipazione della classe alla trasformazione politica del presente. L’impostazione ideologica dello stalinismo presuppone un’antropologia politica della disciplina, non certo dell’autonomia critica; il suo fine non è lo sviluppo delle potenzialità politiche della classe come coscienza ed autogoverno, quanto l’educazione retorica del popolo come introiezione del comando e rispetto della gerarchia[11].
La Direzione del PCI è «democratica e liberale verso l’esterno, terrorista all’interno» e, per questa sua natura, strutturalmente incapace di svolgere una politica efficace negli anni della ripresa capitalistica. Alla guerra di movimento condotta dalla borghesia italiana il PCI sa contrapporre solo uno statico orientamento generale moderato, che inibisce sia le aspirazioni rivoluzionarie che la prospettiva delle riforme di struttura. Il giudizio di Montaldi è impietoso, tanto attento ai singoli mutamenti di linea quanto certo dell’immutabilità dell’asse di fondo dell’orientamento del partito: offrirsi al governo del Paese sulla base del dominio della classe. In questa affermazione lapidaria è racchiusa l’intera parabola storica del PCI togliattiano e dei suoi successori, senza che all’interno del partito riuscisse mai ad emergere una linea politica alternativa.
Sempre nelle Premesse è da segnalare un cenno polemico di Montaldi contro la “retrodatazione”, contro un metodo scorretto, spesso usato dalla storiografia ufficiale del PCI, e che sarebbe sbagliato utilizzare contro di esso. Anche in questo caso, pur avendo scelto di privilegiare lo studio dell’ideologia, la sua indicazione, da raccogliere interamente da parte di chi voglia affrontare da storico una tale vicenda, è di guardare ad un vasto settore della società, alla vita e alle passioni di coloro che nel PCI hanno creduto, attraverso una pluralità di percorsi e comportamenti che non si possono sbrigativamente liquidare. Montaldi, critico intransigente della linea politico-ideologica del PCI, prende le distanze, anche in questo caso con decenni in anticipo, da «un metodo che ridurrebbe ad astratta razionalità un’opera vasta, fitta, difficilmente interpretabile se (non) si tiene conto che essa è tuttavia in relazione con la classe nuova nella storia, con il proletariato, i cui momenti organizzativi, di reazione, di coscienza e di volontà non sono facilmente accostabili nell’uso di criteri volgarmente ammessi»[12]. Pur cogliendone i limiti, debolezze ed errori, non si possono azzerare le esperienze, le lotte, le speranze di coloro che hanno vissuto e fatto la storia del PCI con un investimento totale spinto sino all’autoinganno, con la necessità, nell’ottica di Montaldi, di distinguere tra la base ed i vertici, i militanti e i dirigenti, i proletari e gli intellettuali.
Montaldi si è prefisso di studiare «l’egemonia sociale esercitata dal PCI sulla classe operaia dal tramonto all’alba», come «parte organica del suo complessivo discorso teorico»[13]. Non si può quindi dire che manchi un’analisi delle ragioni per le quali il PCI è rimasto il partito politico di riferimento e di fede di gran parte del proletariato». Anzi, l’originalità della posizione di Montaldi discende dal fatto che una tale problematica sottende tutto il suo progetto di ricerca, estendendosi dall’esperienza proletaria ai militanti politici, al partito. É vero invece che nel Saggio e negli altri suoi scritti non c’è una risposta persuasiva, non per una debolezza nell’analisi della politica comunista, che è acuta e fortemente anticipatrice, ma per il “paradigma rivoluzionario” che orienta le sue scelte. Il suo investimento ideale nella classe, nel proletariato, partendo da esperienze personali vissute profondamente, è totale e finisce con l’essere acritico.
Un tale limite emerge in particolare allorché esamina le azioni e le forme di lotta della classe operaia, su cui esprime costantemente un giudizio positivo come se esse fossero sempre di natura antagonistica, potenzialmente rivoluzionarie. Ai suoi occhi il conflitto assume costantemente l’aspetto di antagonismo sociale e ciò avviene anche perché il partito utilizza ai propri fini la lotta di classe: lascia intravedere la rivoluzione, promette le vere riforme, ma in realtà persegue solo la propria autoriproduzione.
Nella prospettiva di Montaldi, il partito del proletariato avrebbe dovuto, leninianamente, organizzare l’antagonismo al fine dell’insurrezione rivoluzionaria. Solo che un tale radicalismo è estraneo al proletariato in carne ed ossa a cui Montaldi cerca di rapportarsi, dovendo constatarne il frequente ripiegamento riformistico e l’adesione al PCI, la cui forza deriva dall’apparente capacità di fornire risposta tanto al bisogno di riforme, di miglioramenti immediati, che di rivoluzione, sia pure in un futuro indeterminato: «Se il PCI ha continuato a mantenere una presa sulle masse è stato per il valore e la suggestione di un riformismo autentico, donde la difficoltà dei gruppi estremi, e la loro dura selezione, nei rapporti con un proletariato cui rimane difficile, nonostante le delusioni sofferte, rinunciare al partito delle riforme che possa domani essere della rivoluzione»[14].
Sul riformismo del PCI il giudizio di Montaldi manifesta alcune oscillazioni; non sempre è coerente con l’intuizione che il partito perseguiva innanzitutto la propria autoperpetuazione, e non era quindi né riformista né rivoluzionario. Talvolta sembra attribuire alla borghesia la responsabilità di non aver dato credito al PCI in quanto partito riformista socialdemocratico, ma, a meno di identificare stalinismo e socialdemocrazia, la sua stessa ricerca non lascia seri dubbi sui limiti del PCI come partito riformista, oltre che come forza rivoluzionaria. L’interesse del Saggio consiste proprio nel suo apporto alla conoscenza della peculiare natura dello stalinismo occidentale, rappresentato al più alto livello dal partito comunista italiano, che poteva apparire il partito della rivoluzione e delle riforme autentiche solo nei desideri e nelle proiezioni delle masse subalterne.
L’accento posto sulla linea ideologica e sul ruolo di Togliatti, o altri leader comunisti, non deve farci perdere di vista che a Montaldi quel che interessa più di tutto è il rapporto classe-partito. In apertura del Saggio polemizzando sia con l’occultamento dei documenti sia con la sopravvalutazione delle fonti d’archivio inedite, scrive: «l’interesse è dunque rivolto, qui, all’esperienza della classe operaia e al problema della rivoluzione nel loro rapporto con il PCI»[15]. Non servono rivelazioni inedite ma la capacità di interpretare quel che è già chiaro.
La necessità della ricerca discende dalla centralità di quel rapporto traguardato a partire dai suoi esiti, allorché «non esiste più alcun legame tra la politica del PCI e la base teorica per la quale esso si è costituito come avanguardia della classe operaia»[16]. Chiuso in una visione nazionale, il comunismo italiano ha rotto con l’esperienza proletaria dando vita ad una forma cosciente di stalinismo occidentale. La politica del PCI sancisce la fine dell’autentico internazionalismo proletario e rinserra il proletariato italiano nella gabbia di un duplice statalismo: quello dello Stato-nazione e quello dello Stato-guida.
Montaldi avvia la sua ricerca partendo dal Promemoria di Togliatti del 1964 (il “memoriale di Jalta”), con una netta presa di posizione. In un documento dedicato ai problemi del movimento operaio internazionale, manca qualsiasi considerazione sull’ «unità internazionale del proletariato». Viene fuori ancora una volta e conclusivamente lo stalinismo di Togliatti, la sua formazione di dirigente internazionale incondizionatamente fedele alla patria del socialismo in un solo paese. La sua rivendicazione di emancipazione nazionale dal centro moscovita è il fiore tardivo, lo sviluppo estremo del movimento centralizzatore russo-sovietico. «Alla fine, tutto si iscrive nel tracciato storico delle nazioni e degli Stati. L’opera del bolscevizzatore staliniano Togliatti e il suo lavoro per la demolizione dell’internazionalismo proletario in Spagna, per la collaborazione armata in Italia con l’ordine vecchio, possono venire legittimamente riletti nella chiave del documento di Jalta, che, alla fine, li corona»[17].



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[1] Ivi, p. 7.

[2] Saggio, p. 90.

[3] Ivi, p. 19.

[4] Ivi, p. 18.

[5] Ibid.

[6] Ibid.

[7] G. Carpinelli, Stalin sotto la Mole (1949-1955) in B. Maida (a cura di), Alla ricerca della simmetria. Il PCI a Torino, 1945-1991, Rosemberg & Sellier, Torino, 2004, p. 294.

[8] Ivi, p. 315.

[9] G. De Luna, Partiti e società negli anni della ricostruzione, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, Einaudi, Torino, 1994, p. 760.

[10] Ivi, p. 769.

[11] Cfr. D. Balicco, Il potere, l’industria, l’intellettuale. L’itinerario saggistico di Franco Fortini, tesi di laurea, a.a. 2003-2004, Università di Siena, pp. 75 e 81.

[12] D. Montaldi, Saggio, cit., pp. 18-19.

[13] C. Bermani, Danilo Montaldi, conricerca e storie di vita, in Danilo Montaldi e la cultura di sinistra, cit., p. 106.

[14] D. Montaldi, Saggio, cit., p. 79.

[15] Ivi, p. 21.

[16] Ivi, p. 32.

[17] Ivi, p. 33.


Pier Paolo Poggio

Montaldi
e i protocolli ideologici del PCI



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La sfortuna
Il partito e la classe
Lo stalinismo occidentale
L'autonomia del politico
Il partito e i militanti di base
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