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Montaldi e i protocolli ideologici del PCI: 1, 2, 3, 4, 5, 6, indice dei nomi
Epilogo
Credo
che i lavori di Montaldi suscitino ancora interesse perché non sono
etichettabili né riconducibili ad una rigida impostazione teorica o ad una
corrente ideologica organizzata. Nel Saggio
e in tanti scritti di occasione il referente politico è la classe operaia; il
lessico montaldiano è qui vicino se non sovrapponibile a quello operaista. Ma
in molti altri luoghi e nell’impianto complessivo della sua ricerca le cose non
stanno così.
Scrivendo
a Giuseppe Guerreschi, il 22 settembre 1969, gli dice della conclusione del
lavoro sui militanti politici di base e osserva: «mi pare che la cosa funzioni,
che vi si trovino risposte e domande. Tutto questo ha un fine (...). Ma so che
tutto si riassume nel mondo dei contadini, dal quale, fin da tanti anni fa,
sono pure partito»[1]. Due anni
dopo, in una lettera del 6 dicembre 1971, annunciando la prossima uscita del
saggio sul PCI, che quindi in quel momento dava per concluso, dichiara
all’amico che intende pubblicare qualche breve lavoro «prima di applicarmi,
definitivamente, allo studio della questione agraria»[2].
Un
progetto di studio e di vita che ci dice quanto Montaldi fosse lontano dal
mondo intellettuale italiano suo contemporaneo, da cui, non a caso, aveva preso
definitivamente congedo; partecipando invece attivamente e continuativamente
alle esperienze di base, alla vita del movimento, così nel “maggio” francese
come nella provincia cremonese.
Montaldi
non avrà modo di dare sostanza al suo progetto, che avrebbe sconcertato ancor
più dello studio dell’ideologia comunista. Non sarebbe stato visto come un
tentativo di scavare in profondità nel funzionamento della modernità
capitalistica bensì come la conferma della sua tendenza a ripiegare su realtà
superate della storia (dimenticando che Marx aveva compiuto lo stesso percorso,
a costo di procrastinare la conclusione de Il
capitale). Non ha avuto nemmeno la possibilità di vedere l’avverarsi delle
sue “profezie” sul destino del PCI né la stringente pregnanza delle sue analisi
circa l’irreversibile integrazione del partito nel sistema.
Prima
del crollo dell’89, specie dopo la scomparsa di Berlinguer, il PCI rovescia i
suoi paradigmi ideologici e fa sua la tesi della centralità dell’impresa
capitalistica, al cui successo deve essere resa funzionale la politica. Il
partito si candida a garante dell’affermazione del “sistema Italia”. C’è quindi
continuità nella discontinuità. I leader del PCI-PDS-DS non sono degli
usurpatori o dei traditori; hanno sicuramente azzerato la storia del PCI ma
sono anche stati gli esecutori testamentari di Togliatti. Non sono
semplicemente “passati dall’altra parte” (L. Pintor) hanno anche portato a
compimento un lungo percorso. Non a caso sono riusciti ad avere costantemente
il controllo del partito, senza che, nemmeno in questa fase storica, emergesse
un’alternativa credibile ed efficace. Messi in soffitta i vecchi protocolli
ideologici non hanno sentito la necessità di forgiarne di nuovi, aderendo
pragmaticamente alla proclamata necessità di cancellare tutte le ideologie. C’è
qui sicuramente una grande discontinuità, che ha la sua base materiale nella
fine del rapporto partito-classe, e che determina un cortocircuito sul piano
della memoria individuale e collettiva. La spinta principale va nel senso della
cancellazione, le resistenze all’azzeramento si traducono nell’invenzione di un
PCI che non è mai esistito. Tener fermo il terreno, ben determinato, della
ricerca storica è, in questa situazione, un punto irrinunciabile scontando isolamento
e indifferenza come era già accaduto a Montaldi. Sul versante del partito le
sue analisi e intuizioni si sono rivelate profetiche.
Tutt’altro
discorso va fatto per quanto riguarda la classe; il ciclo della “nuova classe
operaia” che egli aveva intravisto sulla soglia degli anni ’70 si è rivelato
straordinariamente breve. Non si è avuta così soltanto la fine del “comunismo”
ma la dissoluzione della classe in quanto soggetto politico: alle ultime
elezioni gli operai hanno votato in maggioranza per Forza Italia (e in molte
fabbriche del nord per la Lega). É inutile cercare precedenti storici che pure
esistono, ma bisogna risalire al fascismo e al nazismo, mentre questa volta
tutto è avvenuto pacificamente e democraticamente. Montaldi ci aiuta a capire un
tratto importante di questa vicenda e ci dà delle indicazioni per andare oltre.
È tantissimo e dobbiamo essergliene grati; la sua ricerca, che al momento
sembrava essere superata, ci è del tutto contemporanea.
Brescia, 31 gennaio 2005
[1]D. Montaldi e G. Guerreschi, Lettere 1963-1975, a cura di G.
Fiameni, in “Annali della Biblioteca statale e libreria civica di Cremona”, L,
Edizioni Linograf, Cremona, 2000, p. 245.
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Pier Paolo Poggio
Montaldi e i protocolli ideologici del PCI
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