Marco Corradini

Il teatro comico di Anton Giulio Brignole Sale

Pà che sei steta a Ziena à imparà re paròle à senso
doggio; v’asseguro che da questa vostr’arte, là se
ghe ne  leze in carrega;   se sentissi  solo unna dre
comedie  che  ghe  fà ri  zòveni a ro  carlevà, e  ve
gh’addotoreresci dentro,perché ne son tutte pinne.
(A. G. Brignole Sale, Comici schiavi)





Nel variato insieme degli scritti di Anton Giulio Brignole Sale la produzione drammatica non è fra le parti che hanno goduto di maggiore fortuna. Se risaliamo allo studio di inizio secolo di Michele De Marinis, troviamo un giudizio decisamente negativo, che però, prima ancora di essere una valutazione di gusto, rappresenta una severa censura morale dello « spirito volgare e lascivo che informa [...] tutte queste commedie »; ma soprattutto lo spazio accordato al teatro del Brignole non supera le quattro pagine in una monografia, interamente a lui dedicata, che ne conta più di trecentocinquanta, tanto da lasciare l’impressione di una lettura superficiale o antologica da parte del De Marinis. [1] Per incontrare un piccolo saggio che si occupi dei drammi brignoliani dobbiamo poi discendere fino al 1977, anno della comparsa su “Resine” di un articolo di Angela Irma Ricci;[2] tre anni più tardi si assiste ad un evento di maggiore importanza, ossia l’unica edizione moderna di una commedia del Brignole, I due anelli simili, curata da Romola Gallo Tomasinelli, la quale pubblica non il testo della stampa seicentesca, ma quello di un manoscritto della Biblioteca Universitaria di Genova, che testimonia una redazione più antica e non poco differente. [3] Completa questa rassegna peraltro piuttosto breve, dopo i cenni contenuti nel profilo complessivo dell’autore che dà Quinto Marini nei volumi della Letteratura ligure, un significativo intervento dovuto a Franco Vazzoler.[4] Il primo problema che si presenta a chi intenda studiare il teatro di Anton Giulio Brignole Sale riguarda una materia ancora molto esterna, vale a dire la definizione del corpus drammatico dello scrittore. Esiste infatti una tradizione consolidata che attribuisce al Brignole un numero di opere teatrali più cospicuo rispetto a quelle che si conoscono attualmente: la notizia proviene da alcuni repertori del Seicento (Le glorie degli Incogniti, la Drammaturgia dell’Allacci, il Soprani, il Giustiniani) [5], transita con qualche variante nelle compilazioni erudite settecentesche (Quadrio, Mazzuchelli) [6] e giunge fino ai nostri anni, dal momento che alcuni contributi, come quelli della Malgarotto e della Ricci,[7] mostrano di dare credito all’informazione. In qualche caso non è difficile accertare che si tratta di errori di attribuzione, tutt’altro che rari nel caso di commedie che vengono stampate a molta distanza dalla data e dal luogo di composizione e che quindi hanno avuto una certa circolazione manoscritta. Così avviene per Il fazzoletto, che due edizioni (Venezia, s. t., 1675 e Bologna, Longhi, 1683) dichiarano essere opera del Brignole, ma che è invece di Francesco Maria Marini, come dimostra il manoscritto della Biblioteca Berio:[8] la confusione è nata verosimilmente, oltre che dalla maggiore notorietà del Brignole Sale, dall’essere egli autore dell’intermezzo di questa commedia, incentrato sul tema mitologico di Orfeo e Euridice.[9] Situazione analoga è quella del dramma per musica intitolato Il ratto di Elena, assegnato al Brignole da Michele Giustiniani, che si deve in realtà a Bernardo Morando. Gli stessi Due anelli d’altronde, la cui paternità è sicuramente brignoliana, nella stampa di Venezia, Zatta, 1670 vanno sotto il nome famosissimo di Giacinto Andrea Cicognini. Molto meno agevole delucidare la questione relativa ad altre sei presunte opere del Brignole, che risultano oggi assolutamente sconosciute ed introvabili: due melodrammi, Il figlio prodigo e l’Enone abbandonata, due tragicommedie in prosa, La madre nemica e La finta pazza savia, una commedia, La suocera, e degli Intermedii eroici in prosa e in versi; alcuni indizi a favore della loro effettiva esistenza potrebbero essere la scarsa sollecitudine dimostrata in generale dal marchese per la pubblicazione dei suoi testi comici, e soprattutto il fatto che tre di questi lavori vengano citati come non ancora stampati nel volume di elogi degli Accademici Incogniti di Venezia, edito nel 1647, cioè quando Anton Giulio non soltanto era vivo, ma non aveva ancora dato l’addio alla gloria letteraria con la scelta dell’ordinazione sacerdotale. L’estensore delle Glorie degli Incogniti, Giovan Francesco Loredan, nelle pagine immediatamente precedenti si dimostra abbastanza ben informato sulle vicende biografiche del Brignole; esistono inoltre – ciò che più importa – testimonianze di uno scambio di opere a stampa e manoscritti che intercorre tra l’accademico incognito genovese ed i colleghi veneziani, in particolare proprio tra il Brignole ed il Loredan.[10] Tuttavia, allo stato attuale delle conoscenze sarà più prudente considerare, fino a prova contraria, Anton Giulio Brignole Sale come autore di tre opere comiche, I due anelli, Comici schiavi e Il geloso non geloso, e di due intermezzi in versi: quello di Orfeo sopra menzionato e quello dei Comici schiavi, che si articola in atti e scene inframezzati alla commedia ed è costruito sull’episodio omerico della maga Circe filtrato attraverso evidenti suggestioni tassiane.
Di questi testi drammatici soltanto uno, Il geloso non geloso, viene stampato vivente l’autore, e non a sé stante, bensì all’interno di un’opera di natura composita, Il carnovale. Il disinteresse del Brignole per la stampa dei propri lavori è d’altra parte condiviso da altri scrittori comici genovesi del primo Seicento, come il già ricordato Francesco Maria Marini del Fazzoletto, o come l’autore della cosiddetta Commedia senza titolo, dall’intestazione del manoscritto della Biblioteca Universitaria, che risulta rappresentata in città nel 1610;[11] come lo storico Pier Giovanni Capriata, che compone l’« intermezzo burlesco » dialettale Ra finta carité,[12] o ancora come il domenicano Reginaldo Sgambati, nato a Napoli ma attivo a Genova negli anni intorno al 1645 in qualità di predicatore quaresimale e di oratore civile, il quale forse proprio nella capitale ligure scrive La zingara, pubblicata però soltanto dopo la sua morte.[13] Ed anche chi decide di stampare si preoccupa di celare la propria identità sotto uno pseudonimo non facilmente decifrabile, come avviene per l’Intrico d’amore (1612) del « Gran Baruno Ramussatore Orbipolitano ».[14] Si è tentati di pensare ad una svalutazione del genere comico, ritenuto poco degno dell’onore della stampa, impressione che sembra confermata dal tono di tante prefazioni seicentesche nelle quali gli autori protestano di avere composto la commedia per gioco o come ricreazione e intervallo fra studi più seri. Sarebbe ingenuo però fidarsi troppo di dichiarazioni di questo tenore: ed infatti la spiegazione più attendibile di questa noncuranza sarà da ricercarsi nell’esistenza di una notevole diffusione manoscritta delle commedie, che segue circuiti accademici ed aristocratici e si rivela alternativa rispetto alla diffusione a stampa. Diversi manoscritti, come si è in parte già visto, si possono reperire nelle due principali biblioteche di Genova ed in altre biblioteche liguri; i testi comici venivano poi regolarmente rappresentati – soprattutto, com’è ovvio, nel periodo carnevalesco –, sia all’interno delle residenze nobiliari, in villa o nei teatri privati dei palazzi cittadini, sia negli spazi pubblici, in particolare in quel Teatro del Falcone, citato nel Carnovale del Brignole, che nel corso del Seicento ospita gli spettacoli di maggiore risonanza.[15] Per attenerci alle opere di Anton Giulio, abbiamo notizia di messe in scena dei Due anelli e dei Comici schiavi; quanto al Geloso non geloso, è lo stesso autore a raccontarci con tono estremamente realistico la sua rappresentazione nella Veglia terza del Carnovale.[16] Ci troviamo dunque di fronte ad autori comici che scrivono più per la rappresentazione che per la lettura ed a testi che non hanno bisogno di essere stampati per raggiungere i propri destinatari: opere il cui pubblico d’elezione è rappresentato dall’universo chiuso della società aristocratica genovese; opere di natura schiettamente accademica, non meno di altri generi quali la tenzone retorica o l’orazione su argomenti giocosi o morali. « Academia e comedia poco sono nel nome differenti – scrive ancora nel Carnovale il Brignole con il consueto gusto per gli anagrammi –, nulla ne’ personaggi; poscia che non men quelli dell’una che dell’altra sogliono vestirsi titoli diversi dal naturale ».[17] Accostare l’istituzione accademica alla recita di commedie non è soltanto un’acutezza scherzosa, poiché fin dai suoi statuti l’Accademia genovese degli Addormentati prevede l’allestimento di spettacoli comici:[18] sappiamo d’altra parte che negli anni della produzione drammatica del Brignole Sale il carnevale è il tempo forte dell’attività accademica.[19] Mentre un genere come il romanzo trova la sua ragione di essere proprio nella pubblicazione a stampa, ed anzi nella tiratura del maggior numero possibile di copie (ne fanno fede, ad esempio, le dodici edizioni in poco più di quarant’anni della Maria Maddalena del Brignole, tradotta anche in francese ed in portoghese),[20] la commedia a Genova nella prima metà del Seicento appare fortemente legata ad una dimensione municipale e ad una pratica letteraria nobilmente dilettantesca.
La situazione editoriale cambia del tutto a partire dagli anni Cinquanta del secolo, ed il mutamento coinvolge anche i lavori comici brignoliani, che conoscono una discreta fortuna soltanto dopo la morte dell’autore: del 1664 è la princeps dei Due anelli, che avranno altre tre edizioni in città differenti, da Lucca a Bologna a Venezia a Macerata; nel 1666 escono a stampa i Comici schiavi, per iniziativa del libraio genovese Giuseppe Bottari, presso un tipografo di Cuneo; ma già nell’anno successivo alla morte del Brignole lo stampatore veneziano Alessandro Zatta pubblica una nuova edizione del Geloso non geloso, scorporandolo dal Carnovale.[21] Questo vistoso ritorno di interesse per le commedie di Anton Giulio Brignole Sale si inquadra in un fenomeno generale di espansione dell’editoria teatrale italiana nel secondo Seicento, per cui è frequente trovare stampate in tale periodo opere composte decenni prima e rimaste in forma manoscritta, spesso di drammaturghi già defunti, come appunto il Brignole, o usciti di scena, come Francesco Maria Marini. Sempre in ambito genovese, un caso interessante è rappresentato dall’altro Marini, Giovanni Ambrosio, il quale, a circa quindici anni di distanza dall’uscita di due suoi fortunati romanzi, Il Calloandro e Le gare de’ disperati, ne pubblica le riduzioni teatrali in veste di tragicommedie.[22] Il fervore di iniziative editoriali si coglie bene dietro le parole dell’amico del Brignole, Giovan Battista Manzini, che nella prefazione alla sua Avarizia scornata, stampata all’età di sessantaquattro anni, dichiara di aver ritrovato casualmente la commedia « fra gli scritti della prima gioventù »[23] e di essersi deciso a correggerla ed a pubblicarla: potrebbe sembrare una finzione dovuta al fatto che il genere comico, anche se moralizzato come il Manzini si proponeva di fare, non si addice ad un letterato ormai anziano, ma diventa al contrario un’indicazione perfettamente attendibile se si tiene conto del contesto che si è qui tentato di delineare. Senza pretendere di fornire una spiegazione esauriente, per rendere ragione della crescita progressiva del numero di edizioni di testi comici, tragicomici e di drammi per musica (il discorso non vale infatti per la tragedia) nella seconda metà del XVII secolo occorrerà metterla in relazione con il costante sviluppo del mercato editoriale, ma forse anche con l’evoluzione del versante imprenditoriale dello spettacolo drammatico: a Genova, come nota Vazzoler, stampatori come il Calenzani, il Guasco, il Casamara si incaricano di pubblicare « testi di immediato uso per il pubblico in occasione delle rappresentazioni al teatro Falcone ».[24]
Il geloso non geloso viene stampato, come si è detto, nel 1639; nel testo del Carnovale, che lo contiene, si fa riferimento ai principali avvenimenti politici genovesi del decennio 1627-1637, come la guerra contro i franco-piemontesi, la repressione delle congiure, la costruzione della nuova cinta muraria. In particolare troviamo un’indicazione cronologica precisa: i protagonisti, nel loro piacevole itinerario attraverso le bellezze cittadine, passano davanti a Palazzo Ducale, che chiamano « Palazzo Regio »,[25] facendo poco oltre allusione alle « dignità nuove » rivestite dallo stato.[26] Poiché l’assunzione da parte della Repubblica di Genova del titolo regio viene decretata il 29 dicembre 1637, questa data costituisce il termine post quem per la stesura del Carnovale. Nella Veglia prima si narra inoltre di un festino in onore di due sposi, all’identità dei quali si può facilmente risalire grazie ad una nota manoscritta posta sull’ultimo foglio dell’esemplare dell’opera posseduto dalla Biblioteca Universitaria, la quale scioglie tutti gli pseudonimi usati dal Brignole.[27] Il Belgrano, in un intervento del secolo scorso sul “Caffaro”, ci informa puntualmente che il matrimonio in oggetto fu celebrato il 27 dicembre 1637 e che gli sposi vennero benedetti solennemente il 9 febbraio successivo.[28] È possibile quindi ipotizzare che i festeggiamenti carnevaleschi descritti non siano generici, ma si riferiscano all’anno 1638. Un’ulteriore osservazione: anticipando, sempre nella Veglia prima, alcune notizie sulla recita del Geloso, gli amici che dialogano preannunciano la presenza tra i personaggi della commedia di « un bravacciotto genovese, cui sogliamo imporre il nome di Caporale ».[29] La parte del Caporale era sicuramente in dialetto, perché il fiorentino Florindo la rifiuta dichiarandosi « inetto » dal punto di vista linguistico. Ma nel Geloso che viene recitato nella Veglia terza non c’è più traccia del Caporale (il personaggio corrispondente si chiama Alberto) ed il testo è interamente italiano. È da supporre dunque una cronologia di questo tipo: 1) prima stesura del Geloso, comprendente il personaggio del Caporale che si esprime in genovese; 2) composizione della ‘cornice’ del Carnovale, nel 1638-1639; 3) nuova redazione del Geloso non geloso, che compare nel testo a stampa.
Elementi importanti per la datazione dei Due anelli vengono dal manoscritto dell’Universitaria, che attesta la recita avvenuta nel carnevale del 1637. La curatrice dell’edizione moderna, Romola Gallo, sulla base della battuta pronunciata dal personaggio di Graziano nella quarta scena del primo atto, arretra la composizione al 1635.[30] Vorrei però ricordare a questo punto l’esistenza di un altro manoscritto dell’opera, che si trova nella Biblioteca della Società Economica di Chiavari, intitolato Le due Anella. Tragicommedia d’Antongiulio Brignole Sale. Al signor Agostino Pinello,[31] il quale si apre infatti con una breve lettera dedicatoria ad Agostino Pinelli,[32] firmata dal Brignole e datata 21 novembre 1633. Ciò consente di ritenere con un buon margine di sicurezza che si tratti di un autografo di Anton Giulio Brignole Sale e permette di anticipare la data di composizione, che risulta in questo modo anteriore alla stampa di qualsiasi opera brignoliana. La redazione testimoniata da questo manoscritto non differisce di molto da quella edita dalla Gallo: vi è un riordinamento delle scene del quinto atto, in quanto la scena XIV del manoscritto di Chiavari diventa la XII in quello dell’Universitaria, e corrispondentemente la XII e la XIII diventano la XIII e la XIV. Ma la divergenza più significativa riguarda la completa riscrittura della scena iniziale del primo atto, in cui la regina Ginevra narra l’antefatto ed un sogno premonitore: nel manoscritto più antico l’interlocutrice è la figlia Isabella, mentre nella seconda redazione la regina dialoga con il cortigiano Pasquale, che si esprime in genovese; ma soprattutto il racconto della regina nel passaggio dalla prima alla seconda stesura viene fortemente condensato, subendo una riduzione pari a circa due terzi della propria lunghezza. Questo è reso possibile dal cambiamento del personaggio in scena: Pasquale infatti, a differenza di Isabella, è già a conoscenza dell’antefatto (consistente nella relazione della regina con un duca della corte e nella successiva nascita di un figlio, che ora viene creduto morto), sicché Ginevra può limitarsi a richiamare sommariamente gli avvenimenti per non lasciare il pubblico all’oscuro. Ne risulta una scena molto più agile ed efficace sotto il profilo del ritmo, tanto da far pensare che la riscrittura sia stata operata proprio in vista della rappresentazione dei Due anelli.
Non credo di andare molto lontano dal vero situando, sia pure in via ipotetica, la composizione di tutte e tre le commedie del Brignole nel quarto decennio del Seicento. I Comici schiavi infatti, per i quali manca ogni dato esterno, rivelano tuttavia alla lettura un’affinità strutturale con alcuni lavori di Giovan Battista Andreini, come Lo schiavetto (1612) e ancor più Le due comedie in comedia (1623),[33] di cui riprendono il meccanismo del ‘teatro nel teatro’, cioè del dramma principale che ne incornicia un secondo; tratto che sembrerebbe avvicinare anche cronologicamente i Comici schiavi alle citate commedie andreiniane e, più in generale, alle soluzioni del teatro comico più diffuso nel primo Seicento. D’altro canto, i Comici schiavi condividono una precisa scelta espressiva con I due anelli, ovvero l’adozione del registro pluridialettale, tipico di quella che viene definita « commedia ridicolosa »,[34] limitato però, nel caso del Brignole, ai personaggi di condizione servile o comunque non nobiliare. Tanto nei Comici schiavi che nei Due anelli troviamo le maschere del Caporale genovese (il quale, come si è visto, compariva anche nella supposta prima redazione del Geloso), della servetta ugualmente genovese, di Graziano, bolognese, di Mezettino, bergamasco, del Capitano spagnolo. Vi è ragione di credere, a motivo di questa continuità, che le tre commedie brignoliane siano nate in un giro di anni non troppo esteso. Dopo i primi anni Quaranta del resto l’equivalenza « academia »-« comedia » cessa di essere operante nel pensiero del Brignole Sale, per il quale l’istituzione accademica assume i contorni di una scuola di etica per i giovani aristocratici genovesi destinati al governo della città; una citazione del discorso introduttivo del Tacito abburatato è sufficiente a fornire la misura di questa evoluzione: « L’academia è cosa così seria che in alcuna delle antiche il ridere si era misfatto ».[35]
La pluridialettalità cui si è fatto cenno, diffusissima nel teatro del Seicento e normalmente caratterizzata dall’equilibrio tra le diverse parlate regionali, nel caso del Brignole appare invece sbilanciata verso una preminenza del genovese, impiegato nei Due anelli da ben tre personaggi, che rispecchiano perfettamente la tipologia delle maschere locali così come viene delineata dagli studiosi.[36] In tal modo il marchese si inserisce in una tradizione comica cittadina che rimonta ai tempi di Paolo Foglietta e perdurerà fino al XVIII secolo. Vediamo però che le edizioni seicentesche dei Due anelli, stampate lontano da Genova, mantengono le parti in napoletano e in bergamasco, ma sopprimono gran parte di quelle in genovese, traducendole in italiano, e che lo stesso trattamento è riservato al Fazzoletto del Marini: segno evidente della scarsa popolarità dei ‘tipi’ genovesi e del loro dialetto al di fuori dell’area ligure.[37] Di questa situazione il Brignole è certamente consapevole, come dimostra la riscrittura del Geloso non geloso; ed è interessante al riguardo una scena dei Due anelli, la sesta dell’atto secondo: il napoletano Colla ed il Caporale, per contendersi i favori della serva Gianchinetta, si affrontano a suon di ottave amorose. Ovvia favorita è la maschera napoletana, che ha dalla sua una consolidata tradizione di lirica burlesca; giustificato quindi lo stupore di Gianchinetta alla notizia che il Caporale accetta la sfida in versi (« No me creiva che ti saveisi fà saro ro verso dell’aze »). Il fatto che sia proprio il bravaccio genovese a cogliere inaspettatamente l’alloro è dunque una vittoria del suo dialetto ed una legittimazione della presenza di questo sulle scene teatrali a fianco di linguaggi più noti.
Dal punto di vista storico letterario, l’aspetto probabilmente più interessante del teatro comico brignoliano è la sua natura composita, cioè il suo attingere da un lato alla tradizione drammatica colta e in generale alla letteratura del Cinquecento, e dall’altro agli schemi ed ai meccanismi della commedia dell’arte. Per un verso sappiamo bene come al Brignole non mancasse la cultura letteraria, anche – ma senz’altro non solo – per effetto della sua formazione accademica e della frequentazione in età giovanile di scrittori come il Chiabrera; né gli mancava una ricca biblioteca privata, sfogliando il catalogo della quale (databile intorno al 1630) troviamo tre edizioni di Terenzio e due di Plauto, oltre ad una raccolta di commedie di Lope de Vega.[38] Ma sappiamo anche che le compagnie di comici professionisti trovavano ampio spazio per i loro spettacoli nella Genova del primo Seicento: la piazza genovese doveva essere anzi una delle più gradite dagli attori per la disponibilità al mecenatismo dimostrata dalla grande aristocrazia cittadina. Già sul finire del Cinquecento è documentata la presenza in città in più di un’occasione della compagnia dei Gelosi, la cui primadonna Isabella Andreini si rivela in confidenza con un gruppo di nobili genovesi, dedicando loro una sezione delle proprie Rime del 1601;[39] dalla corrispondenza dei comici ricaviamo, ad esempio, la notizia che nel 1609 il dissidio che oppone i Fedeli di Giovan Battista Andreini agli Accesi di Pier Maria Cecchini fa sì che i due si contendano la possibilità di recitare a Genova: la spunta l’Andreini, che vi ritornerà nel 1610 e nel 1611; nel 1618 invece la compagnia di stanza in città è quella dei Confidenti di Flaminio Scala.[40] Dal momento che, in accordo con la situazione sociale e politica del tempo, l’organizzazione di questi spettacoli non era esclusiva di istituzioni e strutture pubbliche, ma essi venivano abitualmente allestiti anche in residenze private, non è inverosimile ritenere che la villa di Giovan Francesco Brignole, padre di Anton Giulio, la cui fama di protettore di artisti è ben consolidata, possa avere ospitato recite di comici dell’arte: rimane peraltro traccia documentaria di « una comedia recitata da representanti spagnuoli » nella villa di Albaro, spettacolo offerto dallo stesso Anton Giulio all’ospite principe Mattia de’ Medici nel marzo del 1641.[41]
L’incontro fra la tradizione letteraria e l’influsso della commedia dell’arte si coglie bene nella lettura dei Due anelli. Nel manoscritto del 1633 l’opera è definita « tragicommedia », dizione che non viene mantenuta nell’edizione moderna della Gallo Tomasinelli, ma che deve considerarsi voluta dall’autore; e non è difficile scoprire nel dramma la compresenza di elementi tragici e comici. Ad un ambito tragico infatti ci riporta l’ambientazione in una reggia, quella di Palermo, così come diversi snodi della vicenda principale: la passione colpevole della regina Ginevra, la presunta uccisione del suo figlio illegittimo, la condanna a morte di Alessandro e Matilde, più di una minaccia di suicidio; ed ancora tragico risulta essere il tema politico, accennato nella sesta scena del quinto atto allorché il re Ferdinando ribadisce la condanna di Alessandro motivandola non con esigenze di giustizia, ma con la « ragione di stato », e pronuncia la seguente battuta:

Tanto deve il re soggiaccere alle leggi quanto le leggi soggiacciono al suo gusto. Ho io ad esser alle vite altrui sol come giudice ordinario, non come re potente? Andiamo![42]

È una riflessione antiassolutistica che riecheggia diverse pagine cebaiane; non bisogna però sopravvalutarne la portata, sia perché essa rimane assolutamente accessoria nei Due anelli, sia soprattutto perché sono altri gli argomenti politici che interessano da vicino Brignole Sale e che percorrono la sua produzione letteraria. Lo sviluppo tragico del dramma resta comunque soltanto allo stato potenziale, dal momento che le agnizioni finali conducono ad una conclusione lieta. A fianco della vicenda amorosa vissuta dai personaggi di condizione regale il Brignole pone la commedia delle maschere, le quali agiscono in un intreccio parallelo; a differenza di quanto avviene abitualmente sia nella commedia classica che nella commedia dell’arte, nel teatro del Brignole il mondo dei padroni e quello, in senso lato, dei servi rimangono in sostanza divisi e non comunicanti: ai primi, che si esprimono nella lingua letteraria, sono riservate le passioni ‘serie’, agli altri i linguaggi dialettali ed i lazzi bassamente comici. La commistione tra spunti tragici e comici rilevata a livello di trama si realizza anche nelle singole scene. Si veda ad esempio l’ottava scena del primo atto: si è appena concluso un patetico monologo nel quale Isabella ha espresso il contrasto interiore fra l’amore che prova per Alessandro e le « dure leggi » che le impongono, in quanto principessa, di non rivolgere il proprio sentimento ad un uomo di condizione inferiore, nemico e prigioniero. Nella scena in questione il conflitto tragico che porta Isabella a volere e disvolere nel medesimo tempo ha come contrappunto comico il disorientamento del carceriere che deve eseguire l’ordine, il bergamasco Mezettino:

Mez.: [...] Voliv ch’al te ‘l faga venir chi lo denanz?
Isab.: Ben, pensiero, che risolvi? Non sarà egli lecito, almeno come altre volte, goder della sua vista, parlar seco e non palesarsi? Sì sarà! Conducilo, o carcerere.
Mez.: A vagh a tuorlo.
Isab.: Ma chi m’assicura di poter frenare in guisa il cuore nel petto ch’avido di vagheggiar quel bel volto non corra a farsi vedere negl’occhi tutto vampe di fuoco? No ‘l chiamar Mezettino.
Mez.: Al lascio star.
Isab.: Ah feminuccia, così poco ti fidi nella tua virtù? E qual gloria stimi tu il salvarsi non combattendo? Chiamal, chiamalo pure.
Mez.: Al vagh a tuor.
Isab.: Ma che combatter se nella riputazione è anco perdita il voler pericolare? Non andar, Mezettino.
Mez.: Il lascio star.
Isab.: Oh Dio, chi potesse, ma se non si può! Deh, per che non vien egli spinto da una occulta pietà da per se medesimo?
Mez.: Che ‘l vago a tuor?
Isab.: Non lo so.
Mez.: Ch’al lascia [sic] star?
Isab.: Non lo dico.
Mez.: E mi no me mov, fradel.
Isab.: Quanto tempo mi perdo! Già gl’havrei parlato due hore. E che sarà mai? Tentiamo se resisto. Forse non sarò vinta. Se io mi parto certo sarò morta. Fallo venire!
Mez.: E mi no me mov.
Isab.: Che sì, che sì!
Mez.: Mo s’aspett che me disì che me ferm.

Dunque Alessandro dalla sua prigione ha conquistato involontariamente l’animo della principessa, in un gioco ingegnoso tra prigionia fisica e prigionia amorosa che richiama alla mente i romanzi della Gerusalemme liberata: Erminia e Tancredi, Armida e Rinaldo. Il riferimento al Tasso non è casuale, poiché sotto il versante tragico dei Due anelli sembra trasparire l’influsso del Re Torrismondo. La scena che apre la tragicommedia mostra diverse coincidenze con la prima scena dell’opera tassiana, nella cui battuta d’esordio la nutrice della regina Alvida la interroga sul motivo del suo turbamento (« Deh, qual cagione ascosa, alta regina, / sì per tempo vi sveglia? »[43]), esattamente come fa Pasquale rivolgendosi a Ginevra: « Reginna cara, cose pue moè esse causa de questa vostra stovieza? ». Appena più sotto, tanto la nutrice che Pasquale, per dimostrare la legittimità della propria richiesta, invocano il merito di una lunga, fedele ed obbediente devozione:

A me, che per etate,
e per officio, e per fedele amore,
vi sono in vece di pietosa madre,
e serva per volere e per fortuna,
il pensier sì molesto omai si scopra.[44]

Mi che tra tutti ri vostri servituì son sempre steto quello ch’ho segondou ogni vostro desiderio senz’havei moè mollou, [...] e che ho cangiou ro peì [45] in servixo vostro, e che aera apointo che no son chiù bon per atro che per un papà e taxì, no posse esse bon per secretario? (a. I, sc. i).[46]

Seguono, nel Torrismondo così come nei Due anelli, la narrazione del sogno premonitore da parte della regina ed il suo racconto dell’antefatto, di cui peraltro l’interlocutore è già informato. Se il sogno iniziale che genera inquietudine e l’interrogazione del confidente accompagnata dalla dichiarazione delle proprie benemerenze sono tra i topoi della tragedia rinascimentale e barocca, alcune coincidenze testuali più minute contribuiscono ad avvicinare meno genericamente le due scene:


Il re Torrismondo  I due anelli simili
Senno / più canuto del pelo (19-20)  Ho cangiou ro peì
Meglio è commesso ogni secreto
affetto (21)
 No posse esse bon per secretario?
Temo ombre (25)  Mi parve vedere un’ombra
Notturni fantasmi (52)    Dolorosi fantasmi
Mi diedi in preda / [...]
al mio desir tiranno (90-91)
  Tiranneggiata da violenza amorosa
Così vendetta / veggio del sangue mio?
(140-141)
   Se no poei gove dra vista dro vostro figgio,
goverei a ro manco dra vendeta dro vostro
inimigo. [...] Potrò mai abbeverar questi
ochi dentro al sangue del traditore?
Altra stanza, regina, a voi
conviensi (198)
   Quella stanza.

Ma a parte queste riprese, che nel complesso rimandano pur sempre a luoghi comuni tragici, il ricordo del Torrismondo riaffiora almeno in un altro punto della trama, allorché Alessandro e Odoardo danno vita ad una gara di generosità consistente nel rinunciare alla donna amata in favore dell’amico (a. III, sc. vii), come fanno Torrismondo e Germondo nel quarto atto del testo tassiano. Anche in questo caso sembra possibile riconoscere una vera e propria citazione nell’insistenza del Brignole sulla ‘vera amicizia’, che riprende una riflessione sviluppata nel Torrismondo e non infrequente nella tragedia di inizio Seicento; si mettano a confronto in particolare le due battute seguenti:

O vero amico,
se vero amico mi può far la morte,
vero amico sono io.[47]

Ahi! Amico carissimo, conoscerete se io vi sono vero amico (a. II, sc. i).

Mentre tuttavia in Tasso la gara di amicizia ha uno svolgimento lineare, Brignole Sale, che tende costantemente a rielaborare le fonti in senso ‘ingegnoso’, la complica trasformandola in una disputa retorica combattuta a colpi di entimemi:

Od.: Non più, Isabella, che non mi stimiate persuaso delle vostre ragioni quando già il sono dall’amicizia. Io v’ho amata et amo assaissimo e tale è l’amore quale conviensi a chi ama con cuor grande gran cosa, ma non sia ch’io ami voi più per me che per voi, volendo non quel che vorrei, ma quel che volete, né unqua si dica ch’io non habbi cooperato alle venture d’Alessandro. Fate pur lui felice, ch’io non stimarò d’havere perduta una gioia, ma d’haverla allegata. Amarò più beatamente e l’una e l’altro mentre havrò occasione d’amare l’una e l’altro.[48] Così i miei affetti se non pottranno esser più grandi di quel che sono, saranno almeno più uniti et a voi, o Isabella, sarà più caro il mio amore se sarà confuso in quel del vostro Alessandro et a voi, Alessandro, se sarà confuso con quel della vostra Isabella.

[...]

Aless.: Odoardo, crederovvi che mi vogliate per amico mentre studiate a render me indegno d’esserlo? E che azzione farei privandovi d’Isabella,[49] ancor ch’io l’amassi, mentre il tempo vi renderebbe anteriore nell’amore e Sigismondo nel possesso vi preferisce? Non m’havete da superare questa volta perch’io cederò ben sempre quando la vostra cortesia si compiacerà di obligarmi, ma non quando sarà risoluta d’oprimermi. E voi, signora, consentite ch’io v’ami col non lasciarvi scendere dalla vostra grandezza, e se forse mia soverchia ventura vi rende bramosa di possedermi, assicuratevi ch’assai più m’havete in Odoardo che in me (a. III, sc. vii).

La tenzone viene alla fine risolta da Alessandro grazie ad un’astuzia costruita su di un ennesimo funambolismo verbale. Ma una aggiunta di ingegnosità è individuabile anche a livello di intreccio, nel fatto che la nobile contesa si fonda su un equivoco: gli amici in realtà non amano la stessa donna, ma sono innamorati di due donne diverse.
Lo sviluppo successivo del dramma conduce gli amanti Matilda e Alessandro ad essere entrambi accusati di un omicidio ed a comparire alla presenza del principe Sigismondo, che ha facoltà di graziare uno dei due condannati a morte. La scena quindicesima del quarto atto non fa riferimento al Torrismondo, ma all’episodio di Olindo e Sofronia del secondo canto della Liberata; come i personaggi del Tasso, anche gli innamorati brignoliani accusano ciascuno se stesso per la salvezza dell’altro:


Gerusalemme liberata  I due anelli simili
Non è, non è già rea
costei del furto, e per follia sen vanta (II, 28)
  Io sono il reo, egli [50] follemente se ne vanta
Non usurpi costei le pene mie (II, 29) Non ti hai ad usurpare le mie pene!

E la sentenza di Sigismondo è la medesima di quella pronunciata dal re di Gerusalemme Aladino:

Credasi – dice – ad ambo, e quella e questi
vinca (II, 32)
  Vinceste nella vostra lite ambiduo.

Destinati perciò a morire insieme, Matilda e Alessandro commentano la propria ventura ripetendo con leggera variazione le parole di Olindo:

Ella [la sorte] già noi divise,  Aless.: Donque altri che la morte ci può dividere [...]?
ma duramente or ne congiunge in morte (II, 34)   Mat.: Anzi, la morte solo vuole congiungerci.

Per concludere questa sorta di repertorio retrocediamo fino al prologo dei Due anelli, nel quale si dichiara:

La scena è in Palermo: li accidenti son tragici per che l’autore è di natura malenconica e se bene egli ha voluto ch’anche il ridicolo sia sua opera di tutto ponto, questo è stato effetto non di genio ma di solletico fato dal desiderio che si ha di servitù.[51]

L’abbondanza di richiami tassiani disseminati nei Due anelli permette forse di leggere l’accenno del Brignole alla propria malinconia anche in chiave di allusione al letterato malinconico per eccellenza e quasi per antonomasia, come se il marchese intendesse istituire un parallelo tra sé ed il grande Torquato.[52]
Se il Brignole Sale nel prologo presenta la scelta del genere tragicomico come un compromesso tra la propria inclinazione personale alla tragedia e l’esigenza di soddisfare il gusto di un pubblico (femminile) del quale più sopra si è tentato di definire i contorni, certo la tragicommedia, sia pure in un’epoca in cui le polemiche legate al Pastor fido sono ormai sopite, si accorda bene con la concezione della letteratura eclettica ed onnicomprensiva e con la vocazione sperimentale di chi nello stesso giro di anni pubblica un’opera come Le instabilità dell’ingegno. Occorrerà anche considerare che due dei lavori drammatici del Brignole, I due anelli e Comici schiavi, condividono alcune caratteristiche, come l’intreccio romanzesco e l’ambientazione tendente al favoloso, con il teatro contemporaneo spagnolo ed in particolare veghiano (e ricordiamo come Lope sia presente nella biblioteca di Anton Giulio), il quale pratica largamente la commistione di parti e di spunti comici e tragici.[53] Nel Geloso non geloso, al contrario, l’ambientazione genovese è del tutto realistica, ed anzi contrassegnata da numerosi ‘tratti di verità’, quali – soltanto per citarne alcuni – la discussione sulla mutevolezza delle mode femminili locali, la partecipazione di giovani aristocratici alla guerra di Fiandra, il problema della sorveglianza delle porte cittadine: non è probabilmente estranea a ciò la natura interamente comica del Geloso. Ma a questo proposito è possibile un’altra osservazione; la vicenda principale della commedia presenta un marito che per stoltezza finisce per spingere la moglie tra le braccia di un proprio amico, il quale pur riluttante è costretto a prestarsi al gioco. A ragione Vazzoler identifica la fonte primaria dell’opera nella Novela del curioso impertinente collocata ai capitoli XXXIII-XXXV della prima parte del Quijote, ponendo nello stesso tempo in luce alcuni particolari che il Brignole desume dalla Mandragola machiavelliana.[54] Segnalerei a mia volta un’altra trama che sembra mostrare qualche attinenza con l’argomento del Geloso non geloso: nell’ultima giornata delle Instabilità dell’ingegno il passatempo praticato dalla brigata dei giovani è la narrazione di qualche « successo notabile » sopra cui « si possa fondare alcun nobile dramma » da mettere in scena nei mesi successivi.[55] Odoardo racconta quindi la leggenda, tratta da Erodoto,[56] di Candaule re di Lidia, il quale, troppo orgoglioso della bellezza della moglie, ordina al suddito Gige di nascondersi per poterla osservare nuda; Gige, dopo aver tentato inutilmente di sottrarsi al volere del re, viene scoperto ed obbligato dalla regina ad uccidere Candaule per prendere il suo posto.[57] Ora, tanto nella novella cervantina che nella storia di Candaule i protagonisti vanno incontro alla morte, mentre nel Geloso la catastrofe viene ovviamente sostituita dal semplice rischio di tradimento coniugale in cui incorre l’incauto Ippolito. Anche nel dramma meno contaminato dunque Anton Giulio Brignole Sale non viene meno al proprio ingegno ‘instabile’, sviluppando in direzione comica suggerimenti originariamente tragici.




inizio pagina


[1] M. De Marinis, Anton Giulio Brignole Sale e i suoi tempi (Studi e ricerche sulla prima metà del seicento), Libreria Editrice Apuana, Genova 1914, p. 223.

[2] A. I. Ricci, Intorno al teatro di A. G. Brignole Sale, “Resine”, gen.-mar. 1977, pp. 45-54; si veda anche, della medesima autrice, Intorno a “I due anelli simili” di A. G. Brignole Sale, “Resine”, ott.-dic. 1980, pp. 51-54.

[3] A. G. Brignole Sale, I due anelli simili. Commedia in 5 atti, a c. di R. Gallo Tomasinelli, Sagep, Genova 1980 (Scrittori liguri, 2), su cui vd. le recensioni di F. Croce, “La rassegna della letteratura italiana”, 84 (1980), pp. 655-659 e G. Ponte, “Italianistica”, 6 (1981), pp. 112-117. Il manoscritto edito è conservato presso la Bibl. Universitaria con la segnatura E. IV. 3.

[4] Q. Marini, Anton Giulio Brignole Sale, in AA. VV., La letteratura ligure. La repubblica aristocratica (1528-1797), I, Costa e Nolan, Genova 1992, pp. 351-389: la trattazione del teatro è alle pp. 377-379; F. Vazzoler, Equivoci della politica, equivoci della scena nella Genova barocca. Appunti sul teatro di Anton Giulio Brignole Sale, in AA. VV., Il valore del falso. Errori, inganni, equivoci sulle scene europee in epoca barocca, a c. di S. Carandini, Bulzoni, Roma 1994, pp. 195-214.

[5] G. F. Loredan], Le glorie degli Incogniti, o vero gli uomini illustri dell’Accademia de’ signori Incogniti di Venezia, Venezia, Valvasense, 1647, p. 69; L. Allacci, Drammaturgia, divisa in sette indici, Roma, Mascardi, 1666, pp. 703-704; R. Soprani, Li scrittori della Liguria e particolarmente della marittima, Genova, Calenzani, 1667, p. 42; M. Giustiniani, Gli scrittori liguri, I, Roma, Tinassi, 1667, p. 92.

[6] F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, III-i, Milano, Agnelli, 1744, pp. 354 e 467; G. M. Mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia, cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite e agli scritti dei letterati italiani, Brescia, Bossini, 1753-1763, II, p. 2098.

[7] P. Malgarotto, Brignole Sale, Anton Giulio, in Dizionario critico della letteratura italiana, I, Utet, Torino 19862, p. 410; Ricci, Intorno al teatro di A. G. Brignole Sale, p. 45.

[8] Genova, Civica Biblioteca Berio, ms. catalogato con segnatura m. r. II. 2. 2. Su di esso si fonda una recentissima edizione: F. M. Marini, Il fazzoletto, a c. di F. Toso e R. Trovato, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1997 (Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal secolo XIII al XIX, 288).

[9] Il bell’Intermedio composto dal signor Anton Giulio Brignole, purtroppo mutilo del finale, chiude il manoscritto del Fazzoletto, ed è pubblicato da De Marinis (Anton Giulio Brignole Sale, pp. 309-317), il quale però lo svaluta fortemente, ed ora con maggiore cura da Trovato alle pp. 233-243 dell’edizione realizzata in collaborazione con Toso.

[10] Da una lettera dell’Assarino (Diverse lettere e componimenti di Luca Assarino, con un saggio del Demetrio ch’ora egli sta scrivendo, Venezia e Macerata, Grisei, 1640, p. 74: cfr. R. Gallo, Anton Giulio Brignole Sale, “Miscellanea storica ligure”, 7 (1975), n. 2, pp. 177-208: 184-185) apprendiamo che Giovan Francesco Loredan gli ha spedito un « fagottino » di libri che egli fa leggere al Brignole; questi mostra di apprezzare in particolare il « capriccio del Cimiterio »: si tratta della fortunata raccolta di epigrammi funebri scherzosi che conosce svariate edizioni con ampliamenti a partire dal 1638 (G. F. Loredan - P. Michiel, Cento epitafii giocosi, Milano, Ghisolfi, 1638. Il titolo Il cimiterio compare però soltanto nel 1645). È invece Giovan Battista Manzini ad informarci che l’invio di opere in lettura viene praticato anche in senso opposto, da Genova verso Venezia: nella postfazione alle Instabilità dell’ingegno brignoliane, di cui egli cura la prima edizione (Bologna, Monti e Zenero, 1635), Manzini ricorda infatti come prima della stampa del libro diverse copie a penna circolassero tra le mani degli Incogniti. « Ancora tutti da indagare » vengono definiti i rapporti tra i letterati liguri – oltre al Brignole e all’Assarino, Bernardo Morando, Giovan Vincenzo Imperiale, Agostino Mascardi, Angelico Aprosio ed altri – da F. Vazzoler, Letteratura e ideologia aristocratica a Genova nel primo Seicento, in AA. VV., La letteratura ligure. La repubblica aristocratica, I, pp. 217-316: 230.

[11] Genova, Biblioteca Universitaria, manoscritto F. III. 16.

[12] Contenuto in un codice della Biblioteca Berio (m. r. II. 1. 8) ed ora edito per la prima volta da Fiorenzo Toso con un’introduzione di Roberto Trovato: P. G. Capriata, Ra finta carité, Le Mani, Recco 1996.

[13] R. Sgambati, La finta zingara, Bologna, Monti, 1651; La zingara, Genova, Calenzani, 1664. Il duplice titolo distingue due redazioni differenti: nell’edizione del Calenzani la commedia è ambientata a Genova anziché a Napoli e reca parti in dialetto genovese; se fosse fondata l’ipotesi della nascita genovese dell’opera, tali parti sarebbero da ritenersi originali. Lo Sgambati, morto nel 1648, è autore almeno di un’altra commedia, stampata postuma e sotto pseudonimo: Giovanni Scaftembraz, La pellegrina, data in luce dal sig. Domenico de Prado, Napoli, Gennaro e Vincenzo Muzio, 1730. Nel suo caso, ovviamente, basta lo status di religioso a giustificare la volontà di non pubblicare i testi comici.

[14] Di vario amor capriccioso intrico, comedia del Gran Baruno Ramussatore Orbipolitano, Genova, Pavoni, 1612.

[15] Sugli spettacoli teatrali della Genova della prima metà del XVII secolo: L. T. Belgrano, Delle feste e dei giuochi dei genovesi. Dissertazione seconda, “Archivio storico italiano”, III serie, 15 (1872), pp. 417-477 e 18 (1873), pp. 112-137; Vazzoler, Letteratura e ideologia aristocratica, pp. 230-245; per una bibliografia completa, vd. La letteratura ligure, II, pp. 382-383. Sul Falcone, definito dal Brignole « maestevole teatro di figura ovata e di immensa capacità » ([A. G. Brignole Sale], Il carnovale di Gotilvannio Salliebregno, Venezia, Pinelli, 1639, p. 179): A. F. Ivaldi, Gli Adorno e l’Hostaria-teatro del Falcone di Genova (1600-1680), “Rivista italiana di musicologia”, 15 (1980), pp. 87-152.

[16] Il manoscritto dei Due anelli custodito presso la Biblioteca Universitaria reca l’intestazione « Commedia [...] recitata nella città di Genova nel Carnevale dell’anno 1637 »: Francesco Saverio Quadrio fornisce l’elenco completo degli interpreti della rappresentazione, aristocratici definitisi « Comici Annuvolati » (Della storia e della ragione d’ogni poesia, III-i, p. 354); la medesima compagnia di dilettanti, esistente almeno a partire dal 1635, come dimostra un foglio a stampa contenente una sua duplice impresa accompagnata da alcuni versi (su cui vd. la scheda di Graziano Ruffini nel catalogo della mostra Genova nell’età barocca, Nuova Alfa, Genova 1992, p. 444), reciterà nel 1642 Il fazzoletto del Marini, con attori in parte differenti. Nel frontespizio dei Comici schiavi (Cuneo, Strabella, 1666) si indica come la commedia sia stata « rapresentata in S. Pier d’Arena ». Infine, di una meno prevedibile messa in scena romana del Geloso non geloso, curata tra il 1638 ed il 1641 dal poliedrico Teodoro Ameyden, informa M. G. Profeti, Lope a Roma. Le traduzioni di Teodoro Ameyden, “Quaderni di lingua e letteratura”, 10 (1985), pp. 89-105: 94.

[17] Brignole Sale, Il carnovale, p. 43.

[18] Vi accenna F. Vazzoler, Comici professionisti, aristocratici dilettanti e pubblico nella Genova barocca, in Genova nell’eta barocca, pp. 516-520: 518; gli statuti degli Addormentati, fondati nel 1587, si trovano nell’Archivio di Stato di Genova, Politicorum, VII, 50.

[19] Nelle Instabilità dell’ingegno, del 1635, viene chiesto ad un personaggio, come penitenza di un gioco, di spiegare la ragione di « quel che si dice, cioè a dire l’Academia de gli Addormentati risvegliarsi solo nel carnovale » (A. G. Brignole Sale, Le instabilità dell’ingegno, Bologna, Monti e Zenero, 1635, p. 48).

[20] Di questo romanzo sacro vd. l’edizione moderna: A. G. Brignole Sale, Maria Maddalena peccatrice e convertita, a c. di D. Eusebio, Fondazione Bembo / Guanda, Parma 1994.

[21] A. G. Brignole Sale, Gli due anelli, Lucca, Paci, 1664; altre edizioni: Bologna, Pisarri, 1669; Venezia, Zatta, 1670 (con attribuzione a Giacinto Andrea Cicognini); Macerata, Piccini, 1671. Gio. Gabrielle Antonio Lusino [A. G. Brignole Sale], Comici schiavi, Cuneo, Strabella, 1666 (comprendente il citato intermezzo di Ulisse e Circe). A. G. Brignole Sale, Il geloso non geloso, Venezia, Zatta, 1663.

[22] G. A. Marini, Il Calloandro. Tragicomedia, Genova, Guasco, 1656; Le gare de’ disperati. Tragicomedia, Genova, Calenzani, 1660.

[23] G. B. Manzini, L’avarizia scornata. Commedia morale, Bologna, Ferroni, 1663, p. 1.

[24] Vazzoler, Letteratura e ideologia aristocratica, p. 233

[25] Brignole Sale, Il carnovale, p. 14.

[26] Brignole Sale, Il carnovale, p. 20. Cfr. De Marinis, Anton Giulio Brignole Sale, p. 216 e C. Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, Utet, Torino 1978, p. 285.

[27] Genova, Bibl. Universitaria, 3. B. II. 11, pp. non numerate. Gli sposi sono Camilla Doria, figlia di Costantino, e Giovanni Grillo.

[28] Giovanni Scriba [L. T. Belgrano], La commedia sostenuta nella prima metà del seicento, “Caffaro”, 18 febbraio 1883.

[29] Brignole Sale, Il carnovale, pp. 41-42: cfr. Gallo, Anton Giulio Brignole Sale, p. 195; Ead., Introduzione a Brignole Sale, I due anelli simili, p. 32.

[30] Graziano: [...] At chiam, at provoc, at desfid in quest’ann del 1635, in quest giorn, in quest’hora, in quest punt, in quest moment qui » (Brignole Sale, I due anelli simili, p. 50; cfr. Introduzione, p. 29).

[31] Chiavari, Bibl. della Società Economica, ms. 3. Z. IV. 32. Codice cartaceo del XVII sec. rilegato in pergamena, mm. 140 per 110, di 357 cc. numerate a partire dal fondo: le cc. 1-151 sono bianche, le cc. 152-357 contengono il testo del dramma. La mano del copista è unica. Una mano posteriore ha aggiunto dopo il titolo: « Gli due Annelli. In Lucca, per Giacinto Paci, 1664. In 12 ». Il codice fa parte del lascito di Giuseppe Gazzino del 1844. Ne dà per primo notizia F. Toso, Letteratura genovese e ligure. Profilo storico e antologia, II, Cinquecento e Seicento, Marietti, Genova 1989, p. 56.nota

[32] Agostino Pinelli, comico Annuvolato, figura tra gli interpreti sia dei Due anelli nel 1637 che del Fazzoletto nel 1642, ed è anche uno dei personaggi del Carnovale, dove compare con il nome di Agostillo Pellino.

[33] G. B. Andreini, Lo schiavetto, Milano, Malatesta, 1612 (ora in Commedie dei comici dell’arte, a c. di L. Falavolti, Utet, Torino 1982); G. B. Andreini, Le due comedie in comedia, Venezia, Imberti, 1623 (ora in Commedie dell’arte, a c. di S. Ferrone, II, Mursia, Milano 1987). Già Vazzoler, Equivoci della politica, p. 211 affianca i Comici schiavi a Le due comedie in comedia, ma piuttosto per segnalare la diversa funzione della situazione metateatrale per i due autori.

[34] Sulla quale vd. L. Mariti, Commedia ridicolosa. Comici di professione, dilettanti, editoria teatrale nel Seicento. Storia e testi, Bulzoni, Roma 1978, che a p. XXXIII ricorda anche i Comici schiavi.

[35] A. G. Brignole Sale, Tacito abburatato. Discorsi politici e morali, Genova, Calenzani, 1643, p. 22. Non ignoro l’opinione, che risale al De Marinis, secondo cui i discorsi stampati nel Tacito furono pronunciati dal Brignole davanti agli Addormentati nel 1636, all’epoca del suo principato in Accademia; ritengo tuttavia che almeno il primo discorso, « introduttorio », sia da considerarsi composto in un tempo molto più vicino alla data di pubblicazione: tra l’altro in esso Brignole Sale si rivolge per due volte al « signor prencipe », e quindi non può rivestire in quel momento tale carica.

[36] Così Fiorenzo Toso presenta i tre caratteri fissi: « Il vecchio innamorato, la servetta civettuola, lo spaccone ammazzasette » (Letteratura genovese e ligure, II, p. 49); cfr. anche gli analoghi rilievi di Trovato (Marini, Il fazzoletto, p. XXV). È stata recentemente riportata alla luce una lirica, trascritta dal manoscritto m. r. II. 1. 8 della Berio, che conferma la propensione del Brignole all’uso letterario del proprio dialetto, riservato tuttavia ai componimenti comici: F. Toso, Una poesia in genovese di Anton Giulio Brignole Sale, “A Compagna”, n. s., 29 (1997), n. 1, pp. 4-5.

[37] Sulla fama di assoluta incomprensibilità del genovese, suffragata da un testo dell’importanza dell’Ercolano di Benedetto Varchi, si sofferma il Toso (Marini, Il fazzoletto, pp. XLIV-XLVI).

[38] L. Malfatto, L’inventario della biblioteca di Anton Giulio Brignole Sale, “La Berio”, 28 (1988), n. 1, pp. 5-34.

[39] I. Andreini, Rime, Milano, Bordone e Locarni, 1601. Sulla commedia dell’arte a Genova: Belgrano, Delle feste e dei giuochi dei genovesi; Inventione di Giulio Pallavicino di scriver tutte le cose accadute alli tempi suoi (1583-1589), a c. di E. Grendi, Sagep, Genova 1975 (Scrittori liguri, 1); Vazzoler, Letteratura e ideologia aristocratica, pp. 232-233; Id., Comici professionisti, aristocratici dilettanti e pubblico, pp. 517-518.nota

[40] Comici dell’arte. Corrispondenze. G. B. Andreini, N. Barbieri, P. M. Cecchini, S. Fiorillo, T. Martinelli, F. Scala, ed. diretta da S. Ferrone, a c. di C. Burattelli, D. Landolfi, A. Zinanni, Le Lettere, Firenze 1993.

[41] “Gazzetta di Genova” o “Novellari” del 23 marzo 1641: Belgrano, Delle feste e dei giuochi dei genovesi, p. 436.

[42] Traggo le citazioni dall’edizione della Gallo, di cui seguo anche la divisione in atti e scene.

[43] T. Tasso, Il re Torrismondo, vv. 1-2. Cito dall’edizione a c. di V. Martignone, Fondazione Bembo / Guanda, Parma 1993.

[44] Tasso, Torrismondo, vv. 9-13.

[45] ‘Cangiare il pelo’ per ‘invecchiare’ è stilema petrarchesco: RVF CXXII, 5; CXCV, 1; CCLXXVII, 14; CCCXIX, 12; CCCLX, 41.

[46] La scena dei Due anelli funge a sua volta da modello per l’inizio del Fazzoletto: la somiglianza dei passi viene sottolineata da Toso (Marini, Il Fazzoletto, pp. 28-29). Nel complesso emergono non pochi punti di contatto fra le commedie plurilingui brignoliane e la pièce del Marini.

[47] Tasso, Torrismondo, vv. 3099-3101.

[48] L’edizione della Gallo riporta due volte « l’uno e l’altro »: trattandosi di errore evidente del manoscritto, lo correggo mediante collazione con la princeps lucchese di Paci del 1664.

[49] Emendo qui il « privare Isabella » dell’edizione moderna; ripristino anche il punto di domanda al termine del primo periodo della battuta di Alessandro, chiaramente interrogativo.

[50] Il pronome maschile si giustifica con il travestimento indossato da Matilda, che compare nei panni di un paggio. E’ quasi superfluo osservare come anche questo espediente contribuisca a complicare la situazione rispetto al modello tassiano.

[51] Brignole Sale, I due anelli simili, pp. 39-40.

[52] Ricordo anche, per completezza, che due tra i protagonisti della tragicommedia, Odoardo e Matilda, portano i nomi di personaggi della Liberata. La stessa Gerusalemme, associata al Furioso, ritorna nei Due anelli come soggetto degli affreschi che ornano una sala di una reggia, non differente in questo da un palazzo gentilizio genovese di inizio Seicento: « La stanza secreta di Matilda ha dipinto la selva incantata del Tasso, il palazzo d’Atlante dell’Ariosto e la morte di Zerbino in braccio ad Isabella » (a. III, sc. i).

[53] Cfr. le osservazioni di Vazzoler, Equivoci della politica, p. 207.

[54] Vazzoler, Equivoci della politica, pp. 201-202.

[55] Brignole Sale, Le instabilità dell’ingegno, p. 402. Nonostante la libertà accordata da Aurilla, proponitrice del gioco, di spaziare nel campo della tragedia o della commedia, tutti i sei « successi » raccontati sono di carattere tragico. La commedia è tuttavia rappresentata da una breve ma finissima contesa che interviene tra Flerida e Felicita per assicurarsi la parte del Capitano, nella quale le smargiassate tipiche di questa figura sono volte al femminile e trasferite dal contesto militare a quello amoroso (pp. 402-403).

[56] Erodoto, Storie, I, 7-12.

[57] Brignole Sale, Le instabilità dell’ingegno, pp. 425-428.




inizio pagina




Anton Giulio Brignole Sale.
Un ritratto letterario

*

Indice
Indice dei nomi
*
Premessa
Graziosi
Cesura per il Secolo dei Genovesi
Malfatto
La biblioteca di Anton Giulio
Corradini
Il teatro comico
Moretti
Poeta per musica
De Troia
L'ossimoro crudele
Eusebio
Maddalena-naviglio
Conrieri
La traduzione portoghese della Maria Maddalena
Rodler
Anton Giulio nel ricordo di Francesco Fulvio Frugoni
Carminati
Tre lettere inedite


*

HOME

*

quaderni.net

 
amministratore
Claudio Costantini
*
tecnico di gestione
Roberto Boca
*
consulenti
Oscar Itzcovich
Caterina Pozzo

*
quaderni.net@quaderni.net