Clizia Carminati

Tre lettere inedite di Anton Giulio Brignole Sale e alcuni documenti sul Brignole Sale gesuita *





a) Introduzione

La mancanza di un epistolario a stampa e la relativa scarsezza di documenti autografi rendono utile la pubblicazione di tre lettere di pugno di Anton Giulio Brignole Sale conservate presso l’Archivio della Compagnia di Gesù di Roma tra le carte di Sforza Pallavicino.[1] Due sono indirizzate da Genova allo stesso padre Pallavicino, una da Madrid al padre Gian Paolo Oliva.[2] La lettera all’Oliva, precedente le altre due, dovette essere donata al Pallavicino perché contenente una convinta lode del suo trattato Del bene, pubblicato a Roma (Corbelletti) nel 1644 e inviato dall’Oliva al Brignole Sale.
I contenuti delle lettere e la considerazione dei loro destinatari consentono alcune riflessioni in merito all’ideologia (letteraria e no) del Brignole Sale e vanno a illuminare, seppur fiocamente, i giorni della svolta radicale e sorprendente che egli diede alla propria esistenza facendosi sacerdote e poi gesuita. La scarsità di testimonianze riguardanti gli ultimi dieci anni dell’autore [3] mi ha fatto ritenere utile pubblicare in questa sede alcuni altri documenti [4] conservati presso il medesimo archivio; tra di essi anche due lettere ad Anton Giulio del Padre Oliva, del 1657, una a quanto so inedita, l’altra pubblicata dopo un profondo rimaneggiamento nella raccolta postuma delle lettere dell’Oliva.[5]

L’attenzione di Anton Giulio Brignole Sale all’oratoria sacra doveva essere viva e critica ben prima che egli ne divenisse un protagonista applaudito. Ciò è più che plausibile se si considera l’impegno del Brignole nell’Accademia degli Addormentati e nella politica: una pratica così assidua (e fondata in una riflessione teorica) dell’oratoria accademica e civile non poteva prescindere dai modi di svolgimento della forma più ascoltata di eloquenza pubblica. Del resto, in molti luoghi il Visconte [6] ricorda la di lui naturale predisposizione alla predicazione, e certo i superiori della Compagnia seppero far tesoro [7] dell’esperienza che il Brignole aveva accumulato durante la vita secolare.
La lettera I prova l’esistenza di un rapporto personale antecedente all’ingresso del Brignole nella Compagnia (1652) con Gian Paolo Oliva, genovese, all’epoca professore nei Collegi gesuitici di Roma ma destinato a diventare Vicario generale della Compagnia (1661); e, quel che più importa, famoso predicatore. Se l’incontro tra i due non risale, per ragioni geografiche, agli anni della gioventù, esso deve essere riportato all’inizio del 1644, quando l’Oliva tornò a Genova per predicare con successo nella Chiesa del Gesù. L’intesa tra l’Oliva e il Brignole Sale dovette essere buona, come suggerisce il tono piuttosto confidenziale della lettera I; e dovette esserlo proprio in materia di sacra predicazione, se Brignole Sale si permette di esprimere con sicurezza, anche se incluso in una lode all’Oliva, un giudizio al tempo non certo pacifico sui predicatori spagnoli.
Il Brignole, già attento ai modi dell’oratoria sacra, era giunto in Spagna dove si era trovato di fronte a un tipo di predicazione che esasperava alcuni tratti già poco graditi a un ammiratore dell’Oliva e a un letterato non più indulgente ai « vani, erranti, / lievi, minuti, frigidi, incostanti »[8] concetti marinistici. L’esperienza diretta della predicazione spagnola dovette contribuire a sensibilizzare maggiormente il Brignole Sale in materia; e anche in questo, a mio vedere, si può rintracciare un motivo della sostituzione, al ritorno dalla Spagna, della satira sul « Prencipe dapoco » con quella sul « Predicator cattivo » all’atto della pubblicazione del Satirico innocente. Resta fermo, naturalmente, che vi fu nel Brignole Sale un avvicinamento alla Chiesa di origine personale e interiore, certo incoraggiato dalla non felice esperienza politica dell’ambasceria e da una generale sfiducia nella realizzabilità del proprio progetto politico. Tuttavia, il rapporto con l’Oliva e l’attenzione ai modi della predicazione sacra testimoniano una vicinanza alla religione e alla Chiesa precedente la cosiddetta ‘conversione’, e sono dunque indizio non di una cesura ma di una certa continuità. Del resto, il progetto morale e politico del Brignole era dichiaratamente guidato e sostenuto dalla morale cattolica (cfr. sotto). D’altra parte non è possibile, a mio avviso, vedere nella scelta del 1648 « la prosecuzione di un ideale politico intellettuale che, nell’impossibilità di realizzarsi in territorio laico, cercò strada dentro una vita religiosa integralmente vissuta da ideologo e da predicatore », né la realizzazione « su se stesso di quell’idea di nuovo principe cattolico che aveva entusiasticamente recepito dal Trattato della religione del Ribadeneyra ».[9] La vita da gesuita del Brignole, infatti, non appare, né dalla ricostruzione del Visconte né dai documenti qui pubblicati, come una militanza cattolica all’interno di un’istituzione « che meglio potesse garantire l’attuazione ed il controllo del suo ambizioso progetto di restaurazione »,[10] ma come un ritiro, per quanto pieno di risentimento e originato da un desiderio di rivincita;[11] né il Brignole appare impegnato ad « attuare un programma di rifondazione politico-morale di Genova », bensì a chiedere insistentemente di essere allontanato dalla patria e a compiere in essa atti provocatori e quasi rancorosi, quale il comparire in vesti esageratamente povere di fronte ai nobili che gli erano stati compagni nell’attività politica. Sembra, insomma, che quella « linea ambigua », opportunamente richiamata da Marini, nella produzione letteraria del Brignole Sale testimoni semmai una continuità che va tutta in favore della Chiesa, e che la scelta finale segni una definitiva rinuncia a portare nella politica gli ideali religiosi.[12]
Si può ora vedere nel merito quali fossero le posizioni del Brignole e dell’Oliva in materia di sacra predicazione: precisando che i testi qui accostati non sono coevi e che i contenuti di essi ricorrono in altri contemporanei. Entrambi si dedicano alla critica pungente dei predicatori « d’oggidì » preoccupandosi poi di definire lo stile adatto alle prediche. « Da un mezzo secolo in qua questa furia si è scatenata », dice l’Oliva:[13] i predicatori « mendicano l’argomento da’ poeti, vaneggiano tra pompe di memoria e delirano tra favole di Parnasso ». Essi hanno un « dire ridicoloso, teatrale, mimico, e per dirla col nome proprio, buffonesco ». Le loro prediche sono null’altro che « stiracchiature, fior, motti, zannate ».[14] Tali descrizioni sono comuni nel Seicento; basti citare Daniello Bartoli, che denunciava l’essersi fatto « della Scuola della Verità un’Accademia di vanità »:

O quante volte si veggono fare all’ignorante popolo le maraviglie, e guardarsi l’un l’altro, e dire, Numquam sic locutus est homo, all’udir che fanno una descrizzione, una tirata, come dicono, di memoria, o un di quegli, ch’essi chiaman concetti, lavorato, par loro, con arte di sottilissimo ingegno; ed è poi che? Una pulce incatenata. Questi hanno le piene udienze? questi le maraviglie, e gli applausi? questi vanno in fama di gran predicatori, e di loro si parla, di loro si scrivon novelle e si stampano poesie, per ispargerle come i pappagalli di Psaffone, a cantar di essi per tutto il mondo?[15]

Persino Emanuele Tesauro, pur esaltando l’invenzione dei « concetti predicabili », si sentirà in dovere di notare gli eccessi di alcuni sacri oratori:

Ma finalmente il troppo è troppo; insegnando il nostro Autore [Aristotele] agli oratori etiamdio profani, che le metafore si vogliono adoperar per confetti, non per vivanda. Onde non acquistano però gran merto, né grande applauso appresso a’ prudenti, coloro che tralasciata la vera eloquenza, e le ragioni intrinseche e sode, che sono i nervi della orazione, tessono tutta la predica, quasi un’incannata di ciambelle, di tai concetti infilzati.[16]

A tale denuncia segue in tutti gli autori una facile ironia sulla scarsa originalità e sulla fatica nulla della composizione delle prediche. Soprattutto il Bartoli è impietoso:

Due, o tre descrizioni rubate da poeti, romanzi, discorsi accademici; or l’arte e l’ingegno sarà in trasformare, o almen travestire queste descrizzioni, tal che quella che nel poeta è una Venere, diventi nella predica una Maddalena. […] Apparecchiate le descrizzioni, seguirà appresso il trovare un paio d’imprese, o d’emblemi di peregrina invenzione, che spiegandole aprano all’ingegno campo da pompeggiare. [Segue una questione teologica], e infine tre o quattro paradossi. [Tutte le cose ritrovate poi si mescolano tra loro], e se n’esprime ciascuna col più freddo e concettoso dir che si possa, a continue metafore, trasportate da più lontano che i mondi che sognava Democrito.[17]

Sarà il Tesauro a ricordare l’esistenza di repertori di prediche, rammentando insieme la provenienza spagnola dei concetti predicabili, esattamente come aveva fatto il Brignole Sale:

L’altro difetto […] son que’ mostruosi stiracchiamenti, che da alcun tempo in qua, con deplorabile miseria del nostro secolo, soli forniscono la guardarobba di diversi predicatori. Danno a tai concetti il titolo di spagnuoli, o perché veramente la primiera loro origine dalla Spagna derivi, o perché conforme a certi di una nazione abbiano più vento, che succo, e apparenza, più che sostanza; o perché, sì come dalle Spagne si traghettan tallora nella nostra Italia per gli incauti giovani merci appestate; così ancora alcuni di cotali concetti sono merce pestilente per gl’orecchi degl’ignoranti.[18]

È comune al Brignole Sale e all’Oliva la condanna morale di quel modo di predicare, che profana gli argomenti di cui tratta, rivelandosi inoltre, in ultima analisi, ignoranza:

Detesto l’effeminata e puerile loquacità di chi profana i ragionamenti santi con descrizzioni poetiche, con pompe accademiche, con allusioni favolose, con lunghezza di proemii, con languidezza di argomenti, con affettazione di parole, con lusso di profanità, con totale mancamento di fervore e spirito.
Come potremo mai esporre a’ popoli un Dio crocifisso da’ peccati con dicerie inghirlandate, con descrizzioni giovanili, con narrazioni di favole, con lusinghe di antitesi? Dunque non è arte, ma ignoranza; dunque non è ingegno, ma è stoltezza.
Chiacchierini sono, e non oratori, a’ quali la sfacciataggine e l’imprudenza han fatto largo, affinché il mancamento di scienza e la trasgressione dell’arte si mascherassero col finto volto di eloquenza, in riguardo di certa fecondità profusa di periodi vagabondi, spurii, e scandalosi, ammirati solamente da chi non sa.[19]

Soprattutto, però, l’immoralità dei predicatori sta nel venir meno, per « mercimonio di applausi », al vero compito della predicazione, quello di essere non dilettevole ma utile nel portare gli uditori a correggersi e convertirsi.

Sarà sano di mente quel sustituto apostolico che nelle chiese di Cristo, parlando di pene insoffribili, eterne, indubitate, schiera conglobati, e fa pompa di contraposti, non a terrore di perversi, ma per infame mercimonio di applausi non meritati da udienza notoriamente tradita?[20]
Quella morte, ch’è di cristallo formata, e d’artificiosi smalti coperta, è arnese sol da dame, e da damerini, che la voglion per fregiarsene il seno, non per correggerne il cuore: ma quella per contrario con cui deve profittevole dicitore ravvivar in me un conoscimento spaventoso di me stesso, esser deve squallido teschio, cavato dal sepolcro, e senza chioma, tutto orridezza. […] Le parole ed i concetti sempre sparsi col cenere de’ gelati sepolcri hanno forza di tener a freno l’impeto delle passioni bollenti col ribrezzo gelido dell’orrore.[21]

Entra qui il motivo, già stiglianesco, del corrotto gusto del secolo, cui si accomodavano anche i poeti marinisti.
La parte costruttiva del discorso di Brignole Sale e Oliva prevede tre linee d’intervento. La prima (che nel caso dell’Oliva risponde a un suo preciso impegno istituzionale) [22] è quella della repressione, ovvero della punizione dei predicatori concettosi, anche quando le buffonerie non derivino da « mancamento di fede », ma solo da « ingordigia d’applausi »; e soprattutto, anche quando il loro modo di predicare riscuota grande successo di pubblico: « Empie la chiesa. Dimando io, riempie il Cielo, vòta l’inferno? ». I predicatori sono chiamati a non posporre allo sregolato appetito d’applausi la salute degli uditori; le punizioni proposte dall’Oliva prenderanno poi forma ufficiale nell’ admonitio ad Verbi Dei concionatores inviata nel 1680 da Innocenzo XI all’arcivescovo di Napoli (uno dei luoghi più ‘colpiti’ dal fenomeno, secondo quanto dice il Tesauro) e, molti anni dopo, nel 1725, nell’intervento più incisivo di Benedetto XIII.[23] La seconda, messa in atto anche con le scritture che si sono esaminate, è quella che tenta di disingannare gli uditori mettendo in evidenza, oltre all’ignoranza, l’immoralità dei predicatori, che porgono « pane immaginario per vero » operando un tradimento delle aspettative di edificazione del pubblico: « vi tradisce questo nuovo Annibale, vi tradisce, mentre mostra di portar nel tempio pieni di oro quei vasi, che non d’altro pieni son, che di piombo ».[24] È una linea che molto si avvicina a quella scelta dai critici del marinismo: il Brignole Sale scrive infatti che « non vanno molto spesso novitade, e falsitade disgionte, niuna cosa ritrovandosi più antica del vero », argomento tipico di quella polemica. La terza via è la meno diretta, ma certo la più interessante, e almeno potenzialmente più efficace. Essa consiste in una proposta di stile che possa rispondere all’immaginaria domanda che l’Oliva mette in bocca ai predicatori: « qual luogo rimane all’arte, se alla predicazione apostolica non altro si permette, fuorché terrore e spavento? ». Si tratta, cioè, di correggere l’uso dello stile concettoso senza eliminarlo, di costruire un’ornamentazione non soverchia ma acconcia alla serietà del tema. Sia il Brignole Sale sia l’Oliva precisano di non aver inteso « per vani di tacciare gl’eloquenti ». L’Oliva dichiara, nell’introduzione al lettore, di aver adottato uno stile « composto di voci accurate e tessute » ma non con affettazione, bensì suggerite dall’argomento, e di aver « temperata talora la severa correzione de’ sacri autori con la soave moralità di scrittori profani ». Le definizioni più originali vengono però dal Brignole Sale:

Tanto è lunge, ch’io non voglia che sia adorna la predica, che la voglio tutta ornamento, pur che sia ornamento tutto sostanza. [Occorre uno stile in cui] gli affetti e le ragioni [siano] rese più efficaci dalle pellegrine figure, [che] metta finalmente il senso a’ piedi della ragione.
[…] Io non vieto alla predica l’aver di rose e gigli fatta la guancia, ma voglio che ciò da succo buono interno proceda, non da minio forastiero, che ad un poco di sudore diviene di belletto belletta.[25]

E soprattutto dal Brignole Sale giunge la proposta più significativa:

Che se pure tanto vago sei di tale arte [dei paradossi], che senz’essa sterili per te son le campagne, e secchi i fiumi della eloquenza, su, vuo’ secondar il tuo genio: porta in tavola a tuo piacer paradossi, ma sian di quelli, che qual Echini ingegnosi, essendo tutti spine di una salsità apparente al di fuori, chiudon poscia nel seno saporite viscere di verità profittevoli.[26]

Come è stato giustamente osservato da Quinto Marini,[27] siamo dunque di fronte al tentativo di raggiungere anche nella sacra predicazione un « barocco moderato »[28] che sappia sfruttare le capacità persuasive dei ‘concetti’ senza eccedere indiscriminatamente nel loro uso.
La ricerca di un barocco moderato è, come è noto, lo stesso tentativo compiuto da Sforza Pallavicino e, in forme che si vedranno, dallo stesso Brignole Sale per la letteratura. Su questa linea si collocano anche le osservazioni del Pallavicino in materia di oratoria sacra, contenute nell’Arte della perfezion cristiana.[29] Più tenero con i predicatori spagnoli in quanto particolarmente abili nel « muover l’immaginazione », il Pallavicino è tutto attento a coniugare immaginazione e intelletto, fantasia e spirito, in modo che risulti durevole l’effetto, troppo spesso effimero, della meraviglia provata durante la predica, e si trasformi in stimolo all’operazione e alla correzione dei vizi. Anch’egli, infatti, riprova coloro che

in guisa degli antichi declamatori o sofisti portano in campo asticciuole di legno dorato, vaghe ma fragili: similitudini, detti di poeti, congruenze; a cui l’intelletto applaude come ad ingegnose, non s’arrende come ad invitte: e quasi collane, o smaniglie, volentieri le si lascia mettere intorno; ma per gale, non per legami [30]

auspicando (e utilizzando) uno stile « dimesso, ma elegante » che sappia alleggerire la lettura senza deviare il pensiero. L’Arte va ben oltre, cercando insieme di essere un libro di insegnamenti ai predicatori e un manuale perché il lettore stesso possa raggiungere la perfezione cristiana (dunque una predica essa stessa). È un progetto ambizioso, come quelli che riguardano la morale e la letteratura (cfr. sotto), e non privo, come quelli, di intenzioni di propaganda cattolica e di conservazione controriformistica; ed è tanto più interessante, in tale contesto, l’accento posto sul fattore stilistico. La riforma dello stile della predicazione va infatti di pari passo con i contenuti che di quello stile debbono essere oggetto:

Chi dunque si dispone a consumar qualche ora su questi fogli, non pensi d’entrare o in un museo erudito di riposta dottrina, o in una galeria ornata di vaghe notizie, o in una prateria deliziosa di fiorita dicitura, o in un pomero gustevole di dilicati concetti; ma in una amena montagnuola tutta coperta di semplici e d’erbe medicinali.

Nello stesso tempo, un’opera di sacra predicazione può proporsi come modello di stile,

affinché i giovani vaghi d’apprendere l’eleganza, ritrovando mendica di questo candido argento la spiritualità, non sian tirati a procacciarlo nelle miniere pestilenziali de’ libri osceni.[31]

Tutto attento alla persuasione retorica, secondo l’insegnamento aristotelico, è anche il Tesauro, ma con risultati di ben maggiore libertà espressiva e, in definitiva, di piena autorizzazione del concettismo: coerentemente, del resto, con i presupposti di quella retorica:

[Il predicatore] purché muova gli animi alla virtù, servirassi di figurate, e ingeniose, ed estrinseche ragioni, eziandio cavillose ed apparenti; fondate in metafore, in apologi, in curiose erudizioni; e trarrà frutto da’ fiori. [Dovrà] insegnar la verità con le favole, [poiché i concetti predicabili sono espressione di quella] virtù morale che il nostro Autore chiamò eutrapelia, o versabilità dell’ingegno negli umani discorsi.[32]


Le due lettere del Brignole Sale a Sforza Pallavicino sono, a mia conoscenza, l’unico documento che attesti un rapporto diretto tra i due scrittori. È un’attestazione di qualche rilievo, tanto più che quel rapporto non pare essersi instaurato per la via più ovvia (e più marcatamente letteraria), quella delle presenze liguri nel circolo barberiniano (Peregrini e Mascardi), bensì per una strada che il Brignole Sale percorse autonomamente, quella delle conoscenze in ambito gesuitico (l’Oliva) e dell’attività letteraria negli anni della stamperia del Peri: strada che appare come un preludio alla ‘conversione’ del 1648.
Quando si voglia tentare una comparazione tra le posizioni dei due scrittori, allontanandosi dai dati documentari, ci si scontra con la difficoltà di confrontare due personaggi diversissimi, per così dire, in spirito. Uno già dagli anni ‘40 tenace propagandista dell’ortodossia cattolica alla maniera gesuitica, fautore di un progetto importante di conservazione in campo letterario, morale, religioso e politico, cardinale dal 1657, abile e ascoltato suggeritore di Alessandro VII;[33] l’altro instabile ingegno, letterato mondano e vivace, politico discusso, satirico pungente e infine gesuita tanto austero da dover essere richiamato al decoro: ché non può sfuggire, anche fatta la tara alle esagerazioni agiografiche del Visconte, l’eccesso barocco della vita di predicatore del Brignole Sale. La lettura parallela, che accosta la vivacità della scrittura del Brignole Sale alla elegante sostenutezza di quella del Pallavicino, sottolinea costantemente questa difficoltà; ed essa andrà tenuta ben presente, onde non additare riprese laddove vi sono solo consonanze, e consonanze laddove risultati simili sono diversamente ottenuti e fondati. Del resto, lo stesso tono delle lettere mostra una incommensurabilità tra i due personaggi, avvertita, mi pare sinceramente, dal Brignole Sale, che parla del Pallavicino e gli scrive con deferenza e ammirazione.
Pur essendogli quasi coetaneo, il Brignole Sale conosce il Pallavicino tardi nella sua attività letteraria: questa era incominciata da più di dieci anni quando il Pallavicino pubblicava la sua prima opera di rilievo; non solo, ma si avviava verso la conclusione. È una distanza cronologica che il Brignole Sale avverte e ricorda nella lettera II dichiarando la propria invidia per i discepoli del gesuita e professandosi suo allievo « sopra de’ suoi libri ». Ma la cesura rappresentata per il Brignole Sale dall’ambasceria di Spagna e dalla rielaborazione del Satirico appare come il periodo di maggiore vicinanza al Pallavicino:[34] mentre il Brignole  Sale riflette, dopo la pubblicazione del Tacito abburattato, sul proprio passato letterario e mondano preparandosi a scrivere il Sant’Alessio e a incominciare la vita di predicatore, il Pallavicino è ancora lontano dal Cardinalato e dalle opere dottrinarie e tuttavia compromesso con i ‘novatori’ e i marinisti dei circoli romani mentre avvia, proprio con le due opere degli anni ‘40, un ripensamento della retorica e della morale.
Il trattato in forma di dialogo Del bene,[35] letto dal Brignole Sale durante il soggiorno spagnolo, è un’opera di speculazione filosofica e insieme di propaganda, poiché costituisce il tentativo di « ricondurre all’alveo di un’ortodossia marcatamente gesuitica istanze filosofiche eterodosse ».[36] La ricerca di una definizione del « bene », condotta sulla scorta di Aristotele e del tomismo, prende in esame le opinioni delle diverse scuole filosofiche piegandole fino a renderle abilmente conciliabili (o addirittura coincidenti) con la morale cattolica. È il caso, ad esempio, della risposta alla definizione epicurea secondo cui il bene è il piacere: la distinzione tra piacere e bene morale (« bene giocondo » e « bene onesto ») non è riaffermata in modo da creare un contrasto insanabile, bensì riassorbita in una definizione prima conciliante (bene è « ciò che piace alla Natura farsi da noi »), poco dopo chiarita come ortodossa nella coincidenza, stabilita senza alcun preavviso da uno dei personaggi, tra la Natura e Dio.
Ma l’interesse del Pallavicino va oltre la speculazione filosofica alla ricerca di una serie di valori morali che abbiano rilevanza pratica e si pongano alla base dell’organizzazione sociale e dell’agire politico. Essi vengono discussi e fondati nella morale cattolica controriformista; nel IV libro è poi descritta la condizione migliore perché un uomo possa metterli in pratica e dunque essere felice. Un insegnamento morale che sia funzionale alla prassi è più volte avvertito, lungo il trattato, come necessario completamento della morale aristotelica. Con la debita prudenza: un’opposizione forte o una sottolineatura troppo marcata delle ‘mancanze’ aristoteliche avrebbero minato alla base l’edificio conservatore che il Pallavicino si riprometteva di costruire. Così, quelle mancanze affiorano con sapiente capovolgimento dopo che sono stati ribaditi i meriti:

Ritrovasi in Epitetto, in Senofonte, in Tullio, in Plutarco, in Seneca sentenze acutissime, insegnamenti sottilissimi; ma capaci di mille limitazioni, bisognosi di mille dichiarazioni. E la cagione di ciò parmi quella che in un luogo fu accennata da Tullio. Di tutte l’arti sublimi, dic’egli, come degli alberi, ci dilettan le cime, non le radici; ma quelle senza queste non possono conseguirsi. Nessun di quegli scrittori ha presa la materia da capo [come invece ha fatto Aristotele], insegnando all’uomo chi egli sia; in qual albergo si truovi; e per qual giovamento di lui questa e quell’operazione ottenga lo specioso titolo di virtù, ed abbia conseguito il pregio e la lode dal consentimento de’ mortali. […] Ma che? Tratta Aristotile degli atti nostri, assai più che degli oggetti. Insegna, per esempio, che la liberalità è posta nel mezzo fra la prodigalità e l’avarizia; e che regola le spese conforme al dettame della prudenza. Ma poco, o nulla dimostra poi, quali sieno questi dettami della prudenza intorno allo spendere, ed in qual ragione fondati. E pur ciò sopra ogni altro precetto era necessario per ammaestrar l’uomo nel buon costume. […] Perciò la Morale d’Aristotile, a mio giudicio, meglio insegna di conoscere, che di regolare i costumi e gli affetti degli uomini. Intorno al primo leggonvisi riflessioni da intelletto più che umano; intorno al secondo (per non dir altro) è molto digiuna.[37]

Nella discussione sul sapere, uno dei beni intrinseci, Aristotele è ripreso per aver riposto « il maggior bene, e per così dir la midolla della felicità nelle cognizioni speculative, ed inutili ».[38] Monsignor Antonio Querengo, il portavoce della posizione del Pallavicino, confuta dialetticamente gli argomenti aristotelici giungendo alla seguente conclusione:

La morale deve venir preferita, come più giovevole; d’oggetti non men pregiati; superiore nella chiarezza; e come quella finalmente, per cui sola osserviamo quel gran precetto: Nosce te ipsum.[39]

Un’abile distinzione riconcilia poi la prassi morale con la speculativa, riaffermando l’equilibrio tra i due aspetti complementari della morale già discussi nel passo del libro II citato sopra:

Ma, se vi piace, non ci lasciamo Aristotile per avversario; e diciamo così: nella scienza pratica posson considerarsi due beni: l’uno di pascer l’intelletto col vero, e per questo ella non si distingue dalla Specolativa; l’altro di giovar alle operazioni, e quindi ella ha il nome e l’essenza di Pratica.[40]

Una siffatta riconciliazione, che non va scompagnata da tributi d’onore alla speculazione morale come parte comunque più nobile della « scienza pratica », è necessaria al Pallavicino: il suo libro, infatti, non può diventare un’« arte », non può sfociare nel gran mare della precettistica secentesca, proprio perché la coincidenza virtù-felicità deve trovare fondamento nei valori cattolici senza necessitare di insegnamenti adatti o adattabili alle diverse situazioni della vita umana. L’operazione del Pallavicino è ben più ambiziosa ed è soprattutto ancorata a pilastri solidi, o quantomeno fatti apparire tali: egli tenta una rifondazione della morale al lume di principi e valori universali cui l’uomo possa riportare le proprie aspirazioni. È in quest’ottica che il trattato del Pallavicino si pone come risposta all’incertezza filosofica e morale del suo secolo; pure non sfugge, di tale risposta, il carattere velleitario e non davvero originale e solido, teso ad arginare e conservare più che alla costruzione di una proposta organica.
Sta a conferma di ciò proprio l’oscillazione, all’interno della morale, fra primato della speculazione e primato della prassi. Si è già visto il tentativo piuttosto maldestro di coniugare la prassi alla speculazione attraverso l’escamotage del concetto di « scienza pratica ». Ma, a sua volta, la ricerca filosofica di principi universali di morale deve arrestarsi allorché il Pallavicino, accortosi della pericolosità di una speculazione laica che facendo appello alla lezione dell’esperienza « porga una base sufficientemente sicura all’intelletto per le sue induzioni »,[41] la rifiuta per richiamarsi alla « base unica del probabile » di aristotelica memoria.[42] Il criterio di probabilità, la cui validità è affermata contro l’opinione degli scettici, è detto « evidente moralmente, e fondamento di tutta la Pratica »; esso richiama in primo piano il ruolo della prassi, che deve far fronte alla mancanza di certezze configurandosi come prassi prudente, fondata appunto sulla probabilità. Ancora una volta, però, il Pallavicino si trova di fronte a un pericolo: quello di formulare un’ « arte di prudenza » che, partendo dal presupposto dell’inconoscibilità del mondo e dell’uomo, assuma connotazione fortememente relativistica. Così come avverrà, soltanto tre anni dopo, nell’Oráculo manual di Baltasar Gracián, dove la rigida separazione tra mondo terreno e trascendenza conduce a dimenticare completamente quest’ultima e a formulare un’arte del comportamento cui non può più attribuirsi il nome di morale, ma solo quello di ‘pratica del dominio sociale’. Per Gracián la prudenza è conoscenza ma anche e soprattutto diffidenza e capacità di nascondersi al momento opportuno, alla maniera delle seppie.[43] Per il Pallavicino, poiché la prudenza definita come sopra è soltanto, come è stato giustamente osservato, « un pallido simulacro della phrònesis aristotelica »,[44] diviene urgente riportare la prudenza ad essere sopra ogni cosa una virtù cristiana, ed egli lo fa senza indugio al cominciamento del terzo libro:

Parve ad Aristotile che ‘l Tribunale della Prudenza non avesse giurisdizione a sentenziare de’ fini; e che i soli mezzi fossero soggetti al suo Foro. Intorno a’ fini, dic’egli, nessuno dubita, nessuno elegge, nessuno consulta; ma titolo di prudente dassi a colui che sceglie que’ mezzi i quali più acconciamente conducono a possedere il fine desiderato. Così filosofa egli. Ma se nella cognizione e nella elezzione de’ fini non s’adopera la prudenza, non è la prudenza maestra suprema della Virtù e reina di tutto l’animo. Qual cecità più comune e più perniciosa tra gli uomini, che prescrivere all’amore e all’industria lor, come fine, un oggetto che non merita di esser amato e cercato, se non in quanto egli giova per mezzo all’acquisto d’altro oggetto più nobile? […] E questo vuol dire prender i mezzi per mezzi, e ‘l fine per fine: cioè amar gli altri beni per la virtù e per Dio, e la virtù e Dio per loro medesimi.[45]

Coerentemente, dunque, la prassi morale deve essere guidata da una virtù, la prudenza appunto, che trova unico fondamento, allo stesso modo dei beni definiti nei primi due libri del trattato, nella Rivelazione.
A questa rifondazione non segue, come si è detto, la formulazione di un’« arte ». Tuttavia, il lettore del Pallavicino può trovare espresse tra le righe precise direttive di comportamento. In un caso soltanto l’autore si preoccupa di renderle esplicite, ed è parlando dell’azione politica al livello più alto. Il Principe è infatti l’unico soggetto in grado di possedere al grado più alto i beni discussi nel dialogo; e se degli altri soggetti il Pallavicino si preoccupa solo nella misura in cui possono diventare una minaccia per lo status quo (e dunque è sufficiente presentare loro quella condizione come la più naturale e potenzialmente felice)[46] trattando del Principe occorre entrare nel merito, affinché quell’assetto sociale non sia minacciato dal suo stesso garante, con la conseguenza di rinfocolare le istanze centrifughe che si erano volute soffocare. In altre parole, il Principe deve a sua volta credere nel sistema morale che è stato definito e comportarsi conformemente ad esso. È lui infatti il titolare supremo della prudenza cristianamente intesa; deve regolarsi secondo i suoi dettami nella gestione della ricchezza, ma soprattutto della « potenza », che viene difesa contro chi la vuole causa di degenerazione per se stessa. Il pericolo di una potenza che divenga « potenza di azioni nocive » è anche il motivo di una digressione contro Machiavelli durante la trattazione dei « beni esterni », ossia l’amore e l’onore. L’amore è ovviamente, secondo la dottrina cattolica, il bene per eccellenza; l’onore gli è per molti versi simile, tranne quando si tributa a causa di qualità che incutono timore. Questa distinzione fornisce l’appiglio per discutere, nel capo XXXIV del libro IV, « se sia migliore al Principe la via dell’amore, o del timore »; Machiavelli viene citato e impugnato con un ampio esame dei pro e dei contro, sino a concludere che « è più giovevole avere l’amore, che il timore dei sudditi ». Anche secondo un ragionamento pragmatico, poiché l’amore protegge, al contrario del timore, dalle « offese occulte », e dunque giova più del timore a mantenere il regno, in diametrale contraddizione con Machiavelli. Ma sono banditi i mezzi immorali di procurarsi l’amore dei sudditi: « il più sicuro mezzo per farsi amare universalmente è la virtù », la prudenza cristiana appunto. Così il Principe diviene Principe cristiano a tutti gli effetti, immagine di Dio e fautore della morale rivelata. Non è strano, a questo punto, che il Pallavicino designi come migliore Stato in cui vivere il « Principato del Pontefice », che unisce i vantaggi di una Repubblica (sicurezza, quiete, « ornamenti dell’ingegno ») alla stabilità di una Monarchia fondandosi proprio sui valori cristiani. È interessante rilevare come proprio un tentativo simile vada a motivare la lode senza riserve che il Pallavicino esprime allo zio Virgilio Malvezzi nella dedica del libro II. Nel comporre opere sull’« arte del Regnare », dice il Pallavicino, « gloria della vostra penna è stata il far una pace salutevolissima a gli uomini tra la prudenza politica e tra la pietà cristiana ».[47]
La proposta politica e morale di Anton Giulio Brignole Sale manca dell’impalcatura filosofica che sostiene quella del Pallavicino: essa fu elaborata nel concreto dell’attività politica e dell’osservazione dei costumi e non aspirò mai ad essere una compiuta rifondazione su basi filosofiche. Non fu neppure compiutamente esposta, non comunque in un testo a ciò atto: ne ritroviamo segnali nel terzo libro della Maddalena, in maggior misura nel Tacito abburattato e nella satira contro il « Prencipe dapoco » stampata ma non pubblicata nel Satirico di Gio. Gabriele Antonio Lusino, espunta all’atto della pubblicazione del Satirico innocente. Tuttavia, a ben guardare, quanto espresso dal Brignole in materia politica e morale sembra implicitamente sotteso da un sistema di valori simile a quello del Pallavicino. Lo sembra soprattutto nella misura in cui si propone come risposta a una esigenza di profonda riforma dei costumi, anche nell’azione politica. Risposta che del resto impegnava molta parte degli intellettuali secenteschi, con risultati che sarebbe fruttuoso comparare con quelli qui considerati (penso ad esempio a Diego Saavedra Fajardo). Una distinzione è però d’obbligo: manca al Brignole Sale l’intenzione propagandistica e abilmente conservatrice che il Pallavicino mostra nell’intera sua opera; più per l’ovvia differenza di posizione sociale e politica e per la minore sistematicità che per le caratteristiche ‘innovative’ della proposta del Brignole Sale. È stato infatti osservato che l’ideale politico dei ‘giovani’ genovesi non ha nulla di rivoluzionario, bensì si propone di innovare la Repubblica « riagganciando il carro della politica a quello della religione » e giungendo di fatto a una situazione in cui il Pallavicino già era.[48] Quanto poi l’ago della bilancia del Brignole Sale pendesse verso la Chiesa, lo si è detto parlando della scelta in favore delle Missioni urbane, quando i contrasti con la Repubblica erano divenuti insanabili (e il Brignole Sale era senatore), e della vicinanza alla Compagnia di Gesù che quella scelta precedeva.
È infatti come un ritorno all’ordine, e non come innovazione, che il Brignole Sale presenta il suo progetto di riforma dei costumi corrotti nel discorso che apre il Tacito. È un ordine non necessariamente ritrovabile in altre epoche, ma rispondente a valori ben precisi e dagli effetti definiti. La condanna delle « vanità » secentesche, tanto sentita da ritrovarsi anni dopo nell’eccessiva austerità delle prediche,[49] si rivela subito sostenuta dal sistema di valori del cattolicesimo nell’identificazione più volte resa esplicita fra il Brignole Sale e un predicatore.[50] Nella Maddalena è trasparente il fondamento cattolico dei consigli politici e morali. È interessante, ad ogni modo, che nel Tacito l’educazione morale che l’Accademia degli Addormentati si propone di fornire sia descritta in termini che ricordano la filosofia classica:

[I giovani si fanno degni di salire alla suprema sfera del politico governo] in purgar nell’Academia le passioni loro da ogni vizio in guisa che già fatti giusti verso sé medesimi in aver sottomesso alla ragion Reina il talento servo, come che rubello, possan ne’ maneggi publici esser giusti verso gli altri, come conviensi (p.12).

La vestizione dell’« anima nuda di alme virtù » è un’operazione da compiersi alla luce della ragione,[51] secondo un cammino di riflessione filosofica che conduce a ritrovare la morale cattolica. Ciò è evidente nella trattazione del Tacito, dove lo storico viene contestato ma soprattutto ‘purgato’ fino alla completa sostituzione della virtù classica ad opera di quella cristiana. Ne sono esempi il discorso secondo, in cui si condanna l’uccisione « violentia amoris » di Zenobia impedita nella fuga dalla gravidanza avanzata, e il discorso ottavo, dove si afferma l’amore ‘naturale’ degli uomini per la virtù (subito cristianamente connotata), contro il ‘relativismo’ affermato da Tacito. È quanto, nella teoria, andava facendo il Pallavicino; prassi del resto diffusa nell’epoca della Controriforma, dove la moralizzazione dei classici era al tempo un modo per salvarli dalla condanna e un tentativo di piegarne fruttuosamente gli insegnamenti.
Anche quando sembra maggiormente indulgere a interpretazioni « barocche » della virtù, il Brignole Sale ha cura di inserire un elemento di profonda distanza. Nel discorso decimo, per esempio, viene descritto il saggio che grazie al « malagevolissimo conoscimento di se medesimo » riesce ad essere par negotiis. Quella che per Tacito non è virtù, ma mediocrità, per il Brignole assume i tratti della prudenza secentesca:

Il saggio è nuova, ed ingegnosa iena, che sa esser ora femina, ed or maschio, nell’usare or la fortezza, or la piacevolezza secondo i luoghi[52].

Par di trovarsi dinanzi al ritratto del saggio che si cava dall’Oráculo manual di Gracián: un uomo accorto che, grazie a un ingegno penetrante e alla dissimulazione, riesce a ottenere il dominio in ogni situazione. Ma il Brignole Sale, quasi rispondendo implicitamente a tale accostamento, ricorda che l’adattabilità del saggio non deve essere « sofistica », bensì guidata da un « principio interno » che non può essere relativo alla situazione. Inoltre, il saggio deve mantenersi entro il « decoro », poiché « molte volte [è] possente di far l’uomo ciò ch’ei far non deve ». Il fine dei consigli brignoliani è insomma « l’esser buoni » (p. 256) e non il dominio sociale, nella convinzione, che è anche del Pallavicino, che la virtù stia già nella natura umana e possa dunque essere ottenuta da chiunque segua quei consigli: « Nulli praeclusa est virtus ».
La stessa morale cattolica deve guidare, ovviamente, l’operato del Principe, su cui il Brignole Sale maggiormente si sofferma. Anzi, la politica viene interpretata come missione religiosa e devota,[53] così come il Principe del Pallavicino doveva essere garante e diffusore della retta morale. Così il Brignole Sale, dopo aver illustrato i peggiori difetti dei Principi antichi e moderni (trascuraggine, effeminatezza, lascivia, dissimulazione, eccessiva ambizione, slealtà e soprattutto crudeltà), enumera « le tre qualità più necessarie ad un gran Principe, alto senno, larga providenza, generosa liberalitade », tutte riassunte nell’« affabilità » non « molle e sprezzevole », bensì « tutta generosa, degna di Principe ». Quella è

quasi ignobil meretrice, che anche a mulattieri, ed a facchini, purché spender vogliano lor nolo, suo malgrado è costretta di concedersi a vettura: questa è quasi altissima donzella, che temprando con modestia i vezzi, fa rivali i gran monarchi della sua grazia; quella dona cuore a’ sudditi contro del Principe: fa questa dono al Principe del cuor de’ sudditi; quella fa ch’essi non l’amino, perché nol temono: questa fa che temano d’amarlo poco, quanto più l’amano; quella fa che volgano le spalle per istrapazzo: questa, che per amore si aprano il petto. […] Sovvengavi, o Prencipi, che se sete uomini, convien trattare umanamente.[54]

Siamo di fronte a un non dichiarato ma palese antimachiavellismo che abbiamo visto essere anche del Pallavicino e che, ad ogni modo, ha numerosi sostenitori nel Seicento. L’affabilità altro non è se non una chiara scelta fra amore e timore, ed è una virtù tutta cattolica, tratteggiata come si potrebbe fare per la bontà divina. È la virtù che Maddalena insegnava al principe di Marsiglia per farlo diventare un modello per i propri sudditi e la cui ortodossia cattolica ella rende esplicita poco dopo:

Quanto più siete in alto, tanto più v’avvicinate a Dio, onde ancora tanto più cercar dovete di somigliarlo. Quindi l’infinito amore ch’ei porta agli uomini ha da prestar norma a quello a cui siete tenuti co’ vostri sudditi. Non dee la suprema potenza servire ad altro se non a fare che il voler beneficare e il potere vadano giunti. […] Polo sempre fisso a cui dovete riguardar ne’ vostri giri v’ha ad esser Dio.[55]


L’operazione tentata dal Pallavicino nel Del bene ha bisogno di una corrispondente riforma stilistica precisamente definita dall’autore. Ciò è intrinseco al fondamento filosofico di quell’operazione, che abbiamo visto essere l’aristotelico criterio di probabilità. Illumina, a questo proposito, un passo del secondo libro in cui sono messi a confronto Platone e Aristotele:

Platone in filosofare fu sempre vago di proposizioni maravigliose, e però lontane dalla credenza universale. […] Aristotele s’inviò per contrario sentiero. Tanto fu alieno dal tracciar lo stupore del volgo, che si elesse per maestro il volgo medesimo; e su’ primi, e più rozzi, ed universali concetti della marmaglia appoggiò le colonne della sua filosofia. […] Si è conosciuto con lunga esaminazione che la Natura non è ciurmadrice di bugie agl’intelletti; e che, avendo questi per unico fine il vero, non son prodotti con una fatale infelicità, onde il più delle volte sieno delusi dal falso; che però la maggior parte delle comuni credenze è vera; e che la buona filosofia non dee affaticarsi in altro che in dispiegare agli uomini distintamente quello che in una certa maniera confusa è noto naturalmente a ciascuno: facendo ella quasi la ripetizione, e ‘l commento alla lezione ed al testo dettato ad ogni uomo dalla Natura.[56]

L’esigenza di uno stile che si differenziasse, vedremo in che modo, da quello correntemente adottato dai « moderni », era sentita dal Pallavicino anche a causa del fine propagandistico che si proponeva: era necessario raggiungere e convincere il pubblico più vasto possibile senza svalutare i contenuti o esporsi alle facili critiche già da tempo tributate allo stile concettoso. Questo aspetto dell’opera del Pallavicino è notato e apprezzato dal Brignole Sale nelle lettere I e III. Nella prima in particolare esso costituisce l’unico motivo addotto dell’apprezzamento del Brignole Sale:

Io ebbi sempre la filosofia per una Donna austera, e da Romiti, ma il Padre anche avvolta da tutte le sue maggiori, e più acute, e più intralciate spinosità ha saputo profumarla, e colorirla, ed abbellirla in modo da poter innamorare, non che i Cavalieri, ma anche le Dame.

I profumi, i colori, gli abbellimenti scelti dal Pallavicino somigliano più a quelli di Sofronia, desiderati per le prediche dal Brignole Sale, che a quelli di Armida; pure, sono tali. Il Pallavicino infatti, rendendo conto della sua scelta stilistica nel principio del terzo libro, si dichiara « meno ornato che que’ moderni i quali trattano con amenità le materie morali », ma almeno altrettanto distante dagli « istrici armati di acute punte » dei moderni scolastici: contrario, insomma, a un dettato retoricamente scarno, in pieno accordo con Aristotele. È chiaro però che il nodo della questione era la scelta o no dell’imperante stile ‘fiorito’. E invero il Pallavicino (al pari del Brignole Sale) tiene a precisare la propria distanza dai

pavoni vestiti di penne così pompose, e così lampeggianti, come paiono le accademiche amenità dell’eloquenza moderna: ove la morale filosofia comparisce corteggiata da lungo stuolo di citati scrittori, e abbigliata con un drappo a fiorami di leggiadrissima dicitura, ricamato di figure, gioiellato di sentenze, e poco men ch’io non dissi, trinciato d’incisi, affibbiato da nastri d’oro di contrapposti.[57]

Gli autori che si avvalgono di tal forma non sono filosofi ma sofisti, « badando a dire ottimamente quel che si può anziché a dir l’ottimo come si può »; pervertono l’ordine della natura e dell’arte trasformando le parole di mezzo in fine. Proprio il fine condiziona invece la scelta stilistica del Pallavicino: egli scrive non per i golosi, che mangiano per mero diletto, ma per gli uomini temperati, che hanno per primo fine il nutrirsi; per chi vuole studiare, non ingannare il tempo. Si tratta, certo, di una scelta motivata anche dalla materia trattata:

È agevole in queste [le scritture « amene »] render arguta colla brevità la sentenza; affinché il lettore si reputi a pregio l’intenderla, ed amila, in un certo modo, non come insegnamento altrui, ma come suo parto. Per lo contrario, quando le speculazioni insegnate aggravano per sé stesse l’ingegno, voglion più tosto venir avvolte in un zendado semplice ma leggiero, che in un broccato d’alto ricamo che aggiunga peso.[58]

Ma non deve sfuggire la connotazione morale (e moralistica) di quella scelta, connaturata ai contenuti e alle intenzioni del trattato. Un parallelo reso esplicito, in maniera più ingenua, dal Brignole Sale nel discorso primo del Tacito:

[recidete] senza indugio dall’ingegno e da’ discorsi di erudizioni, e paradossi, e frasi, e acutezze, e sensi doppi le vanissime superfluità, per poi seguir a far lo stesso in quelle delle membra, e de’ costumi, e de’ vestimenti… (p. 24)

È il motivo, tipico degli antimarinisti, della « lascivia » del Marino e dei suoi seguaci; ma le critiche e le scelte stilistiche dei due autori paiono andare ben oltre. Me lo suggerisce il certo disprezzo espresso dal Pallavicino nei confronti dell’intervento del lettore sul testo concettista. È immorale, secondo lui, proprio il diletto che ci appare oggi fondamento delle acutezze, ossia che il lettore si attribuisca parte del merito ripercorrendo con il proprio ingegno il cammino percorso dall’autore. Il che è proprio quanto cercano invece di fare gli autori davvero concettisti, quale ancora il Gracián, che fonda su quel principio tutto il suo Oráculo manual. Ma ciò, come si diceva, costituisce agli occhi del Pallavicino un pericolo grave, impedendo di fatto all’autore di dare una direzione obbligata alla morale del lettore. È perciò che, io credo, la proposta barocco-moderata del Pallavicino non può fermarsi a una riforma di stile, ma deve essere accompagnata da una rigida morale che inquadri teoricamente tutta l’attività letteraria ovvero ne costituisca il contenuto. Fuori da questo quadro quella proposta, fondata su una difesa della retorica concettista, è inconsistente e dà adito (come di fatto accadde) a estremizzazioni del concettismo.
Quanto il Pallavicino tenta nel Del bene e nel Trattato dello stile e del dialogo, scritto contestualmente al primo, ossia una difesa (di grande forza teorica) della retorica concettista che porti ad un suo uso non indiscriminato, non marinistico, ma subordinato alla riuscita comunicativa, non può leggersi se non tenendo presente la rigida impalcatura morale che inquadra la prassi letteraria nel primo (la bellezza della « prima apprensione » è infatti solo « bene in ragion di mezzo ») e l’ambito contenutistico (le scritture didascaliche) nel secondo. L’apprendimento cumulativo che è caratteristica e pregio delle acutezze è approvato soltanto se di contenuti convenienti, conformi alla ragione e alla morale.[59] Qui sta la ragione dello strettissimo rapporto tra riforma nella letteratura e nell’oratoria sacra, e la possibilità di quest’ultima di diventare anche modello stilistico (si ricordi la lettera introduttiva dell’Arte della perfezion cristiana). Qui, a mio vedere, sta anche il nodo dell’accordo di fondo tra il Pallavicino e il Brignole Sale: non a caso il primo interviene a lodare, del secondo, il Sant’Alessio, « un libro che ha la curiosità dei romanzi, e la verità dell’istorie », espressione riuscita di quella poetica. Dopo il Sant’Alessio il Brignole Sale poteva a buon diritto entrare nella rosa d’ingegni che potevano contribuire alla costruzione e alla diffusione della particolare letteratura barocca auspicata dal Pallavicino; più che ammirato, il Brignole Sale era chiamato, con quelle lodi, a partecipare a un progetto che egli certo avrebbe condiviso ma cui aveva già, inconsapevolmente e ingenuamente (nel senso più volte precisato), aderito.




b) Tre lettere di Anton Giulio Brignole Sale

Criteri di edizione. Si è proceduto a un moderatissimo ammodernamento, distinguendo u e v, eliminando l’h etimologica e sfoltendo le virgole davanti a pronome relativo e a che consecutivo. Le abbreviazioni sono state sciolte, le maiuscole e tutti i tratti caratteristici dell’ortografia brignoliana conservati.


I. Opp. NN. 272, f. 6r: al Padre Gian Paolo Oliva (Roma)

Molto Reverendo Padre Signor mio Osservandissimo
Vostra Signoria dovea insieme col libro [60] del Padre Sforza mandarmi anche la penna, per potere degnamente ringratiarla di tesoro così fino, e così inesausto. Io ebbi sempre la filosofia per una Donna austera, e da Romiti, ma il Padre anche avvolta da tutte le sue maggiori, e più acute, e più intralciate spinosità ha saputo profumarla, e colorirla, ed abbellirla in modo da poter innamorare, non che i Cavalieri, ma anche le Dame. Vostra Signoria mi faccia gratia di darne al Padre cento mila volte il parabien [61] a mio nome, assicurandolo ch’egli non ha in Europa maggior ammiratore del suo ingegno mostruosissimo, di quel ch’io sono: e che se bene io non so nulla, so però tanto da saper distinguer i volumi che non fan che trasportar di carta in foglio, da quelli che di proprio producendo il tutto, meritano, quasi Creatori, divini ossequii.
Io ho passato la Quaresima senza prediche, o riandando sol le sue con la memoria,[62] e certo il maggior beneficio ch’ella potria far alla Chiesa di Dio, sarebbe il venir a far un quadresimale in Spagna, et insegnar a questi buffali,[63] come si predica. Venga gentilissimo Padre Oliva, che poscia ce ne torneremo subito insieme.[64] Intanto mi onori di suo’ comandi. E la riverisco
Di Madrid a 19 aprile 645
Servitore Obbligatissimo
Anton Giulio Brignole Sale


II. Opp. NN. 272, f. 5: al Padre Sforza Pallavicino (Roma)

Molto Reverendo Padre Signor mio Osservandissimo
Da una breve lettera di Vostra Signoria al Signor Gio. Dominico Peri[65] ho vedute le cortesissime lodi ch’ella si degna dare al mio Santo Alessio. Io sommamente mi confondo di tanto eccesso, non sapendo onde avere mai meritato che un libricciuolo d’uno infelicissimo ingegno, da me fatto solamente per le mani delle donnicciuole, abbia avuta la ventura di capitar tra quelle della Fenice de’ nostri giorni, e di esser anche commendato dalla sua penna. Glie ne rendo infinite gratie, e non le faccio infinite scuse del non averle io stesso mandato in riconoscimento de’ miei obblighi le inettie che talvolta mi escono dal cervello, perocché essendo state trattenute solo dalla riverenza che portano alla Maestà più che umana del suo ingegno, stimo aver in ciò più meritato, che errato. Padre Sforza io conosco me, e conosco lei, e perché la conosco arrivo ad adorarla fino a tremarne. Invidio la ventura di chi è nato in tempi di poter essere suo discepolo, e godo che chi la gode partecipi meco del medesimo sangue.[66] Pure se non lo sarò sotto la sua voce lo sarò sopra de’ suoi libri per quanto potrà l’ottuso mio intelletto penetrarne la sottigliezza, che benché chiarissima è profondissima. Vostra Signoria mi onori de’ suoi comandi: e divotissimamente la riverisco.
Genova li 10 ottobre 648
Di Vostra Paternità Molto Reverenda
divotissimo et obligatissimo servitore
Anton Giulio Brignole Sale


III. Opp. NN. 272, ff. 7-8: al Padre Sforza Pallavicino (Roma)

Molto Reverendo Padre Signor mio Osservandissimo
Sicome infin ad ora ho offerto alla incomparabile altezza dell’ingegno di Vostra Paternità tributi di ossequentissima maraviglia, così adesso desidero aver occasione di stringermi con ossequio d’obligationi perpetue alla sua angelica bontà, mentre la vengo a supplicar di degnarsi ad aiutarmi con essa a ringratiar il Signor Iddio della infinita misericordia che ha usato meco in chiamarmi al sovrumano grado del Sacerdotio.[67] Che Vostra Paternità ne abbia gusto aggiungerà presso me un nuovo testimonio di aver avuto acertatissima vocatione. Si compiaccia ricevere la parte ch’io le dò di questo fortunatissimo mio sucesso, come un effetto della svisceratissima divotione ch’io professo verso i suoi inestimabili pregi. Mi perdoni, s’io non replicai alla lettera cortesissima, ch’ella per ultimamente mi scrisse, massime nel proposito de’ libri di Monsignor Ciampoli,[68] perocché la ricevei sulla mia partenza per Salò,[69] e poi ho ritrovato che per via del Padre Gentile [70] ella gli avea già mandati. E qui divotamente la riverisco, et alle sue efficacissime orationi mi raccomando. Genova 2 genaro 649
Di Vostra Paternità Molto Reverenda
divotissimo et obbligatissimo servitore
Anton Giulio Brignole Sale




c. Documenti sul Brignole Sale gesuita

Entità dei documenti e criteri di edizione. Alcuni documenti riguardano solo in parte il Brignole Sale: ho segnalato i tagli. I docc. 1-6 e 9-10 provengono dal codice Med. 30 (Epistolae Generalium Provinciae Mediolanensis), un copialettere dei due generali Goswin Nickel e Oliva contenente minute relative agli anni 1654-1662 e alla « Provincia Mediolanensis », cui apparteneva il Brignole Sale. Il codice riporta in alcuni casi solo stralci o tracce delle lettere, e sempre le riporta senza rispetto della punteggiatura: su quest’ultima è stato necessario dunque intervenire cospicuamente. Le due lettere dell’Oliva del 1657 (docc. 7-8) provengono invece dal codice Epp. NN. (Epistolae Generalium ad Nostros) 16, che fa parte di una serie di registri contenenti copie di lettere dell’Oliva scritte di seguito. Sono presenti segni di rielaborazione e cassatura di intere missive, il che fa ritenere che non si tratti di minutari, bensì di registri compilati in vista della stampa (come suggerisce, del resto, una breve indicazione moderna: ms typis edendum) e corretti dall’Oliva stesso. La grafia delle correzioni collima infatti con quella di altri documenti autografi conservati nell’Archivio. Si è proceduto a un moderato ammodernamento, come per le lettere del Brignole Sale, e si sono riportate in nota correzioni e cassature. Si è anche riportato il testo edito della prima lettera, che differisce profondamente da quello già corretto riportato dal manoscritto. Ciò non ci autorizza, comunque, a credere spuria la seconda correzione: l’edizione seguì la morte dell’Oliva di poco più di un anno, e i tempi delle impressioni secentesche fanno ritenere che il materiale pervenuto al tipografo fosse stato controllato personalmente dall’autore.[71]


1. Med. 30, f. 23r. Lettera di Goswin Nickel a Valentino Egidi, provinciale di Milano, 13 giugno 1654

[…]
Ho avuto molto dispiacere dello sputo di sangue del Padre Brignoli; se viene dal petto, potremo deporre la speranza del suo talento di predicare. […] [72]


2. Ivi, allo stesso, 20 giugno 1654

Ho avuto la lettera di Vostra Reverenza delli 3 del corrente, e mi son molto rallegrato ch’il male del Padre Brignoli non sia pericoloso.[73] Con tutto ciò, si deve liberare dalle fatiche di petto sin che sia libero e assodato affatto. […]


3. Ivi, f. 112r, G. Nickel a Brignole Sale (Genova), 27 maggio 1656

La lettera di Vostra Reverenza delli 29 del passato m’ha sopramodo edificato, scorgendo in quella la sua profonda umiltà inchinata più a pulpiti bassi che a quelli di consideratione, per li quali vi bisogna maggior studio che sue forze non potrebbon sostenerlo lungo tempo. Ha Vostra Reverenza fatto molto bene a proporre il suo sentimento e resta solo che si rimetta alla santa obedienza, e senza sollecitudine di apparecchiare nuove fatighe vada pian piano perfettionando le già fatte con la lettione de’ Santi Padri per maggior gloria divina.


4. Ivi, f.113v, allo stesso, 3 giugno 1656

La settimana passata mi fu resa la lettera di Vostra Reverenza delli 15 di maggio, nella quale spiega molte ragioni che la stringono a star lontana da Genova, e desidera vivamente l’essecutione; ma pure, come buon religioso, mette avanti la santa rassegnatione, del che io resto pienamente edificato, e mi persuado che non le dispiacerà ch’io prenda qualche breve tempo per risolver questo punto, nel quale devo cercare il maggior servitio divino, secondo l’intentione di Vostra Reverenza.


5. Ivi, f.116r, allo stesso, 17 giugno 1656

Ho questa di Vostra Reverenza delli 3 del corrente, e deve esser sicura che non ho dismesso l’animo di consolarla nella sua proposta. Sono stato astretto a differirla e non posso ancora risolverla, che però è anche necessaria la patienza di Vostra Reverenza acciò che anche per questa via cresca il suo merito. Intanto lodo il santo desiderio di Vostra Reverenza in conservar l’anima e corpo in sagrificio accettabile alla Santità divina.


6. Ivi, f.132v, allo stesso (Milano), 23 dicembre 1656

Era Vostra Reverenza per l’estate passata stata assegnata per predicarla nella città di Siena, dove era aspettata; ma la peste ha impedito il disegno, e però vien chiesta per l’estate seguente;[74] et io vi vengo molto volentieri, perché il Papa senese [75] ha gusto che quel Collegio sia ben provisto e la città abbia sodisfattione. Che però desidero che Vostra Reverenza si disponga per fare questa santa opera; e perché doverà poi la Quaresima del 1658 fare la carità a questa nostra Chiesa,[76] alla quale l’invito, le tornarà commodo, perché trovandosi in Siena non averà a fare lungo viaggio per arrivare a Roma, con detrimento della sua sanità. Prego Dio che la conservi per suo servitio.[77]


7. Epp. NN. 16, ff.76r-77r. Lettera di Gian Paolo Oliva

Padre Anton Giulio Brignole. Siena
Nella mia indispositione non ho avuto sollevamento maggiore delle nuove sì buone, che qua sono giunte di continovo intorno al frutto grande, che Iddio costì raccoglie con le ferventi prediche di Vostra Reverenza. Sentirò pure l’anno venturo chi adempia quelle idee, che io per debolezza d’ingegno e di spirito non ho potuto mettere in pratica, ed Ella col fervore e con l’eloquenza esporrà al mondo,[78] restituendo alla Compagnia quella lode di spirito apostolico [79] e di vere conversioni, delle quali più d’uno l’han defraudata.[80] Conto i mesi che restano alla Quaresima, ognun de’ quali mi pare un semestre, per l’impatiente desiderio che ho di udirla. Mi permetterà in tanto Vostra Reverenza, che io per la gelosia che ho di non vedere alcuna impressione pregiuditiale al gran frutto ch’è per fare, la preghi a moderarsi un tantino nelle minacce ch’Ella fa costì per quell’abuso che regna nel vestire delle Donne. Io considero il sommo frutto che Vostra Reverenza di sicuro farà in questa Città Capo della religione Cattolica colla riforma di [81] disordini assai più rilevanti di cotesto, che in riguardo di molti altri maggiori non è enorme. Onde grandemente mi preme ch’Ella venga, non solamente con l’aura di chi potrà accreditare i suoi fervori colla assistenza delle loro persone, ma anche senza ombra minima di austerità, superiore o [82] al delitto che perseguita, o alla comune apprensione che di esso si ha. Alla prudenza di Vostra Reverenza [83] questi due periodi basteranno [84] per dichiarare [85] l’affetto che io porto al suo gran merito, e la stima in che l’ho; donde nasce il timore di non vedere per poca cosa impedita la copiosa messe ch’Ella raccorrà in questa Corte col zelo, colla dottrina, e colla fama precorsa de’ suoi esempii. So ch’Ella mi crede, e m’intende, e che avendo di già sodisfatto largamente alla sua conscienza con quello che ha detto, non più entrerà nella materia degl’abiti. Le aggiungo, ma in sommo segreto, e in tutta confidenza, come il Predicatore, con cui Ella costì s’accorda, quantunque sia di vita incolpata, qui nondimeno, né giovò, né piacque: tanto pregiudica il concetto di zelo eccedente. Con che la prego delle sue orationi e santi sacrifici, de’ quali son bisognoso, per non finire di riavermi dallo scotimento del petto. Roma 4 agosto 1657.[86]


8. Ivi, f.80v. Lettera di Gian Paolo Oliva

Padre Anton Giulio Brignole
Veramente Ella mi confonde, e con la prudenza della risposta, e col [87] gradimento delle notitie, che le diedi nell’ultima mia. Vostra Reverenza tal vuol essere ne’ pieghi, qual l’ammirano tutti nel pulpito: e io, come godo i sentimenti delle sue lettere, così sospiro l’accelleratione de’ suoi discorsi. Ma di gratia, né parli, e molto meno esaggeri il sospetto di poter mancare [88] prima che termini la Quadragesima: poiché a me basta che sia udita per due sole settimane, sì per lo frutto maggiore che farà Ella con poche prediche di quel che farebbono altri con molte e molte, sì perché a’ Nostri nella Chiesa nostra primaria [89] si proponga una vera idea di ragionare apostolicamente. Mi raccomandi al Signore nelle sue orationi, e creda che io per la contentezza esco di me, quando penso che tra pochi mesi l’avremo in questa Città. Roma 25 Agosto 1657.


9. Med. 30, f. 351v. Lettera di Gian Paolo Oliva a Brignole Sale (Genova), 9 luglio 1661

Può Vostra Reverenza credere fermamente che la sua lettera delli 26 del passato mi è stata di straordinaria consolatione perché è uscita dal suo cuore, overo di divina carità, etc. [Non contiene negotio alcuno, ma solo si rallegra dell’elettione e gli si risponde come a gli altri]. Con che mi raccomando a’ Sacrifici [90] di Vostra Reverenza.
(a margine:) Sotto questo peso insoffribile respiro alquanto quando penso al Padre Brignole, dalle cui orationi spero aiuto, e sofferenza.[91]


10. Ivi, f.408, lettera di G. P. Oliva a Francesco Vasco, provinciale, 8 aprile 1662

[…]
La morte del P. Brignole sebene riesce d’incommodo, ci obliga non dimeno a conformarci con la volontà di Dio benedetto, il quale ha tolto quello che era suo. […] (a margine, con segno di inserimento:) L’ho sentita insino all’anima, e uomini tali non si rihanno dopo due secoli. Vorrei che Vostra Reverenza facesse notare tutte le cose di edificatione, e le mandasse qua pro memoria, [e ne formasse elogio].[92]





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[*] Ringrazio Davide Conrieri per aver seguito lo svolgimento di questo lavoro. Ringrazio inoltre Quinto Marini, Franco Vazzoler e Mario Zanardi S.I. per l’attenta lettura e i preziosi consigli.

[1] Archivum Romanum Societatis Iesu (ARSI), Opera Nostrorum (Opp. NN.) 272, ff. 5-8. Il nome del Brignole Sale, che non figurava nell’indice dattiloscritto moderno preposto al volume a causa della mancata lettura della firma, è stato aggiunto a mano dal padre Edmond Lamalle, che segnalò queste tre lettere in una scheda del 1972. Il volume fa parte di una serie di nove (Opp. NN. 270-278) contenenti gran parte delle missive destinate al Pallavicino e vari scritti, oltre a documenti riguardanti l’Istoria del Concilio di Trento (1651-57). Tali volumi, sconosciuti alla bibliografia specifica, sono stati recentemente riportati all’attenzione degli studiosi da Tomaso Montanari (che ringrazio): cfr. il suo articolo Bernini, Pietro da Cortona e un frontespizio per Sforza Pallavicino, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, Quaderni, 1-2, 1996, pp. 339-359, n. 6. Tra le lettere, molto interessanti quelle di Virgilio Malvezzi, in via di pubblicazione su “Studi secenteschi” per cura mia.

[2] Nato a Genova nel 1600, entrò nella Compagnia di Gesù nel 1616; insegnò umanità a Roma dove divenne Maestro e superiore del noviziato di S.Andrea al Quirinale (1641-1651) e rettore del Collegio Germanico (1651-1654; 1657). Fu predicatore di grande fama in molte città italiane (ivi compresa Genova) e nel 1651 venne nominato predicatore dei Sacri Palazzi; fu amico e corrispondente di Sforza Pallavicino e fu in stretti rapporti con Cristina di Svezia (le dedicò i suoi Sermoni, pubblicati nel 1675). Nel 1661 fu eletto Vicario generale perpetuo del Generale Goswin Nickel con diritto di successione: ne assunse di fatto i poteri, per succedergli nel 1664. Morì a Roma nel 1681. Pubblicò molti volumi di prediche; il suo epistolario è postumo. Presso l’ARSI è conservata in più esemplari manoscritti (Vitae 99, 100, 158) una lunga memoria: Il ritratto celeste del P. Gio. Paolo Oliva Preposito Generale della Compagnia di Giesù nelle sue virtù eroiche. Predica Istorica detta nella solenne memoria della sua morte nel Collegio romano della Compagnia di Giesù a Padri e Religiosi della medesima Compagnia da Giuseppe Agnelli il giorno di S. Giovanni Grisostomo l’anno 1682. Nell’ARSI (Fondo Gesuitico 552, ff. 134r-136v) si trova un interessante memoriale di supplica al Monarca spagnolo perché fosse fatta una dichiarazione in difesa del Padre Oliva, accusato da un frate di S. Basilio e da un gesuita portoghesi di aver parlato male del re cattolico in una predica; l’accusa fu smentita con una lettera dell’8 giugno 1643 (ivi, f. 137) controfirmata dall’Almirante di Castiglia Pedro de Arce, Segretario del Consiglio di Stato (lo stesso incontrato dal Brignole Sale durante l’ambasceria e descritto in toni non lusinghieri: cfr. Michele De Marinis, Anton Giulio Brignole Sale e i suoi tempi, Genova, Libreria Editrice Apuana, 1914, pp. 258-259 e la relazione dello stesso Brignole Sale, ivi, p. 326). Sull’Oliva si vedano C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Paris-Bruxelles, 1894, s.v.; M. Fois, Il generale Gian Paolo Oliva tra obbedienza al Papa e difesa dell’ordine, nel volume collettivo I Gesuiti fra impegno religioso e potere politico nella Repubblica di Genova, “Quaderni Franzoniani”, a. V, 2, lug.-dic. 1992, pp. 29-40, il quale tocca solo tangenzialmente i temi che qui ci interessano. F. Haskell, Mecenati e pittori, trad. it. Firenze, Sansoni, 1966, cita spesso l’impegno dell’Oliva in campo artistico (amico di Bernini, gli fece ultimare S. Andrea al Quirinale; chiamò G. B. Gaulli e Andrea Pozzo ad affrescare rispettivamente la Chiesa del Gesù e quella di S. Ignazio). L’Oliva predicatore, tuttavia, meriterebbe studi più approfonditi (non è quasi menzionato nelle opere sulla sacra predicazione secentesca).

[3] Ha riempito il silenzio che gli studiosi avevano lasciato intorno all’ultimo periodo della vita del Brignole Sale Quinto Marini, Anton Giulio Brignole Sale e l’oratoria sacra, in I Gesuiti fra impegno religioso… cit., pp. 127-150.

[4] Cfr. la nota introduttiva al paragrafo c).

[5] Lettere di Gian Paolo Oliva della Compagnia di Giesù, t. II, Venezia, Baglioni, 1683, 720, pp. 96-97. Nel paragrafo c) riporto in nota il testo a stampa.

[6] Giovanni Maria Visconte, Alcune memorie delle virtù del Padre Anton Giulio Brignole genovese della Compagnia di Giesù…, Milano, Lodovico Monza, 1666.

[7] Segnatamente, continuando ad assegnargli pulpiti importanti ignorando le sue richieste che andavano nella contraria direzione: cfr. docc. 3-6 del paragrafo c) e nota.

[8] l Satirico di Gio. Gabriele Antonio Lusino, [s.l., s.d.], epigramma sul « poeta goffo ». I due versi non sono ripresi nell’ed. definitiva del Satirico innocente (Genova, Calenzani, 1648). Sulla vicenda delle due edizioni cfr. R. Gallo Tomasinelli, Anton Giulio Brignole Sale, in “Miscellanea storica ligure”, VII (1975), pp. 177-208, p. 189.

[9] Marini, art. cit., p. 130.

[10] Ivi, p. 131.

[11] Come mi suggerisce Marini, che vede nell’ingresso in un ordine potente e nei rapporti con personalità quali Oliva e Pallavicino la testimonianza del non diminuito peso politico del Brignole Sale. Pur essendo d’accordo con Marini sulla reazione indispettita e aristocratica del Brignole Sale, deciso a privare la Repubblica della sua persona, e sul desiderio di rivincita cui egli pensò di poter dar corso con l’ingresso nella Compagnia, ritengo che la mancanza di un diretto impegno politico di rilievo dimostri una rinuncia del Brignole Sale alle proprie ambizioni. Semmai, è vero che si trattò di una rinuncia che egli maturò progressivamente, scontrandosi con i problemi dell’Ordine e ancor più, mi suggerisce ancora Marini, di Genova, in pieno declino di potere e ormai incapace di reggere al nuovo gioco delle potenze europee.

[12] Come già pensava Claudio Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, Torino, UTET, 1978, pp. 298-299.

[13] Prediche dette nel Palazzo Apostolico da Gio. Paolo Oliva della Compagnia di Giesù e dedicate ad Alessandro VII pont. max., [Roma, Varese, 1680], p. 37.

[14] A. G. Brignole Sale, Satirico innocente cit., epigramma sul « Predicator cattivo ».

[15] Daniello Bartoli, L’eternità consigliera, Bologna, Zenero, 1653, p. I, capo V, « che si dee voler sentir da’ predicatori la verità per profitto, non la vanità per diletto », p. 67.

[16] Il cannocchiale aristotelico, Torino, Zavatta, 1670, p. 503. Un « concetto predicabile » è un’« argutezza concettosa », « cioè un argomento ingeniosamente provante una proposizione di materia sacra, e persuasibile al popolo, il cui mezzo termine sia fondato in metafora » (p. 501). Cfr. Mario Zanardi, Sulla genesi del “Cannocchiale aristotelico”, “Studi secenteschi”, XXIV (1983), pp. 15-34.

[17] Op. cit., pp. 85-87.

[18] Satirico innocente cit., pp. 327-327. Giovanni [Pozzi] da Locarno, Saggio sullo stile dell’oratoria sacra del Seicento esemplificato sul padre Emmanuele Orchi, Roma, Inst. hist. ord. Fr. Min. Cap., 1954, p. 165, n. 4, dà per sicura la provenienza dal Brignole Sale del corrispondente passo del Tesauro (Cannocchiale cit., p. 503).

[19] Oliva, Prediche cit., pp. 40, 33, 34.

[20] Oliva, Prediche cit., p. 34.

[21] A. G. Brignole Sale, Satirico innocente cit., pp. 328-330.

[22] Cfr. M. Fois, art. cit., pp. 31 e 40.

[23] Cfr. Michele Miele, Attese e direttive sulla predicazione in Italia tra Cinquecento e Settecento, in La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento, Atti del Convegno di studio dell’Associazione italiana dei Professori di Storia della Chiesa, Napoli settembre 1994, a cura di G. Martina SJ e U. Dovere, Roma, Edd. Dehoniane, 1996, pp. 83-109. La lettera di Innocenzo XI è riportata alle pp. 108-109. Sull’argomento le pp. 102-106.

[24] A. G. Brignole Sale, Satirico innocente cit., p. 312.

[25] Ivi, pp. 339 e 336.

[26] Ivi, pp. 324.

[27] Art. cit., p. 146. Lo studioso ritrova i fattori storico-culturali e i personaggi che poterono incidere sull’ideologia letteraria del Brignole Sale, sia nell’ambito della sacra predicazione genovese, sia nell’ambito della riflessione su di essa e sullo stile in genere. Per quest’ultimo ambito, egli fa i nomi di Mascardi e Peregrini; i documenti qui pubblicati permettono, credo, di aggiungere a quei nomi quelli di Oliva e Pallavicino. Conservo peraltro qualche dubbio sulla reale vicinanza fra l’ideale stilistico del Brignole e quello del Mascardi; questi, ad ogni modo, può bene aver rappresentato uno stimolo forte all’elaborazione, da parte del Brignole Sale, di una propria riforma dello stile.

[28] Fondamentale per tutto quanto dico al proposito il saggio di Franco Croce, La critica dei barocchi moderati, in Tre momenti del barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966.

[29] Venezia, Pezzana, 1666.

[30] Op. cit., p. 74.

[31] Op. cit., Proemio e lettera A’ lettori.

[32] Il cannocchiale aristotelico, ed. cit., pp. 588-589.

[33] Cfr. la voce di Mario Rosa, Alessandro VII nel Dizionario biografico degli italiani.

[34] Ulteriore indizio di una continuità fra gli ultimi scritti letterari, l’avvicinamento alla Chiesa e la decisione di prendere i voti può essere la testimonianza del Visconte secondo cui il Brignole Sale risparmiava dall’‘abiura’ « satire morali » e « prose morali mescolate di satirico » (p. 183).

[35] Traggo le citazioni dall’edizione di Napoli, Bulifon, 1681.

[36] Elena Mazzocchi, La riflessione secentesca su retorica e morale, in “Studi secenteschi”, XXXVIII (1997), pp. 11-56, p. 24.

[37] Del bene, ed. cit., pp. 148-149; l. II, parte I, capo V. Corsivo mio.

[38] Ivi, p. 478; l. IV, parte I, capo XIV.

[39] Ivi, p. 485; l. IV, parte I, capo XV.

[40] Ivi, p. 486; l. IV, parte I, capo XVI.

[41] E. Mazzocchi, art. cit., p. 28.

[42] Del bene, l. II, parte I, capi XXXIII-XXXIV.

[43] Baltasar Gracián, Oráculo manual y arte de prudencia, ed. E. Blanco, Madrid, Cátedra, 1995, afor. 98 (Cifrar la voluntad): « Lleva riesgo de perder el que juega a juego descubierto. Compita la detención del recatado con la atención del advertido: a linces de discurso, xibias de interioridad ».

[44] E. Mazzocchi, art. cit., p. 29.

[45] Del bene, pp. 314-316; l. III, capo I (dedica a Fabio Chigi).

[46] È da notare l’insistenza del Pallavicino sull’infelicità che può derivare a chi voglia diventare Principe senza averne le qualità e sulle inquietudini che quella posizione comporta. È più desiderabile rimanere « privati » per non passare dal potere all’impotenza « a goder quiete »; e « la più desiderabil fortuna è nascere » non con ricchezze principesche, bensì « con ricchezza mediocre, ma vantaggiosa secondo al grado » (ivi, p. 570; l. IV, parte II, capo LI). Per il pubblico cui scrive il Pallavicino, un’ideologia di conservazione a tutti gli effetti, riconfermata dall’accenno ai premi conferiti dal Principe ai sudditi capaci: proprio grazie a questi la Monarchia è miglior patria della Repubblica, che deve, per conservarsi, « diffidare delle proprie membra ».

[47] Del Bene cit, p. 138.

[48] Cfr. Claudio Costantini, op. cit., cap. XVI, soprattutto le pp. 286 e 295-299.

[49] Cfr. il documento 7, paragrafo c).

[50] Tacito abburattato. Discorsi politici e morali, Venezia, Combi, 1646, pp. 18-19, 116-117, 253.

[51] Lo stesso ritorno alla ragione che motiva la riforma stilistica nella letteratura e nell’oratoria sacra.

[52] Tacito abburattato cit., p. 233.

[53] Cfr. C. Costantini, op. cit., p. 298.

[54] [54] Tacito abburattato cit., p. 196.

[55] Maria Maddalena peccatrice e convertita, a c. di D. Eusebio, Fondazione Pietro Bembo/ Ugo Guanda Editore, Parma, 1994, p. 331.

[56] Del bene cit., l. II, parte I, capo IV; p. 146

[57] Ivi, l. III, parte I, capo II; p. 318. Tralascio, per brevità, di citare i passi contro le vanità accademiche contenuti nel discorso primo del Tacito e le vivacissime critiche al concettismo espresse nelle due redazioni della satira contro il « Poeta goffo »

[58] Ivi, capo IV; p. 321

[59] Cfr. ll satirico di Gio. Gabriele Antonio Lusino, p. 275: « non sai che il diletto proprio dell’umanitade, il qual consiste nel discorso, nasce più dalla sostanza delle cose, che dal suono? ».

[60] È il trattato (in forma di dialogo) di filosofia morale Del Bene, Roma, Corbelletti, 1644.

[61] Spagnolo, dar el parabién: fare le congratulazioni. Cfr. Tacito abburattato cit., p. 8.

[62] Il Brignole Sale udì predicare il Padre Oliva a Genova nei primi mesi del 1644; fu quella, probabilmente, l’occasione in cui lo conobbe e avviò con lui il rapporto testimoniato da questa lettera. Il soggiorno genovese dell’Oliva è raccontato nell’Historia Domus Professae Genuensis (per cui cfr. sotto, n. 70): [1644] « Ornamentum additum fuit hoc anno nostrae ecclesiae a Jacobo Philippo Duratio et Hieronymo fratre statuis duabus marmoreis ad altare proprii sacelli; maius autem a Concionibus P. Jo. Pauli Olivae. Advenit ipse Rector hinc Romani Tyrocinii ad anni initium, et mansit apud nos per tres menses; mirum quantum desideratus, quanto plausu exceptus, et auditus a viris praesertim primariis, qui ubicumque Pater diceret eo confluere, quasi agmine facto, videbantur » (ARSI, Med. 81, p. 145).

[63] È lo stesso apprezzamento dedicato ai predicatori cattivi nel Satirico innocente cit., p. 341. Cfr. l’Introduzione.

[64] Dopo l’“aggravio di Milano” (un peggioramento, dovuto a una confisca di rendite genovesi da parte del governo milanese, nell’annosa questione delle gabelle del Finale) nel marzo, l’incarico diplomatico del Brignole Sale in Spagna si fece difficile e avvilente: cfr. R. Gallo Tomasinelli, La corrispondenza fra Anton Giulio Brignole Sale e il Senato genovese, “La Berio”, XXXIV, 2, lug.-dic. 1994, pp. 3-32. Sull’ambasceria si veda tutto il capitolo XIX di De Marinis, Anton Giulio Brignole Sale cit., oltre alla relazione del Brignole Sale che costituisce l’Appendice II dello stesso volume.

[65] 1590-1666. Mercante e affarista genovese, autore del trattato Il Negotiante (1638-1665), curatore di interessi del Brignole Sale, dal 1648 al 1650 diresse la stamperia fatta venire dall’Olanda poi acquistata da Benedetto Guasco. Fu anche libraio. Curò la pubblicazione della Vita di S. Alessio nel 1648; è probabile che ne avesse inviato copia al Pallavicino. Da notare le molte opere di gesuiti presenti nei non cospicui annali della stamperia, conformemente a quanto affermato dal Visconte (Memorie cit., p. 8): « [Brignole Sale] ristrinse l’onore di così ben formati caratteri a’ libri che ne fossero degni ». Sul Peri cfr. M. Maira, G. D. Peri scrittore, tipografo e uomo d’affari nella Genova del ‘600, “La Berio”, XXVI, 3, 1986, pp. 3-70.

[66] l consanguineo di cui si parla potrebbe essere Ippolito Durazzo, nato nel 1628 da Giovan Filippo e Maddalena Brignole Sale e dunque nipote di Anton Giulio. Egli divenne gesuita e poteva ben essere discepolo del Pallavicino a vent’anni. Se ne può forse leggere testimonianza in una lettera che il Pallavicino, già cardinale, gli scrisse nel settembre 1662 (cfr. Lettere dettate dal Card. Sforza Pallavicino, Venezia, Baseggio, 1701, pp. 268-269): « Le lettere di Vostra Reverenza non erano necessarie per quei due fini, ai quali sogliono esser indrizzate, cioè o per conservar in me la memoria di lei, o per certificarmi di quella che Vostra Reverenza conserva di me. […] Ben’io avrei tentazione di vanagloria in legger nella sua il molto ch’Ella riconosce da me nella cultura del suo ingegno, se l’evidenza del fatto non mi forzasse l’intelletto a prender questa significazione per una soprabondanza della sua cortesia ». Non ho potuto vedere una biografia di Ippolito citata dal De Marinis: Vita del Padre Ippolito Durazzo della Compagnia di Gesù descritta dal Padre Tommaso Campora, Genova, Franchelli, 1690.

[67] Cfr. Visconte, Memorie cit., p. 33: « ordinatosi assai presto Sacerdote, disse con singolar divozione la prima Messa nel giorno del S. Natale di Nostro Signore ». Aveva rinunciato alla carica di senatore, di cui aveva preso possesso solo il primo luglio, il 19 dicembre 1648; il suo successore Luigi Centurione era entrato in carica il 22 dicembre.

[68] Si tratta probabilmente di copie delle Rime del Ciampoli (pubblicate per cura del Pallavicino nel 1648) che il Pallavicino voleva inviare a Genova (forse proprio alla stamperia del Peri) perché fossero vendute. Il Brignole Sale poteva essere un buon intermediario anche per donarne alcune a letterati e personaggi illustri genovesi.

[69] Cfr. Visconte, Memorie, p. 32: « così finalmente dopo alcuni mesi di contrasto, non puote più commandare a se stesso di tolerare quella oppressione d’animo [il peso della toga senatoria], e per sollevarsene alquanto uscì di Genova, con animo d’andare a trattenersi alcuni giorni nel Bresciano, su la riviera di Salò, che dagli aliti temperati del gran lago di Garda, addolcito il natio rigore, s’addomestica in delicie d’aranci, di limoni, cedri, ed altre simili piante, con una imperfetta imitazione delle riviere genovesi ».

[70] Si tratta con ogni probabilità di Niccolò Gentile, gesuita, sul quale scarne notizie si trovano nei cataloghi della Provincia Mediolanensis (ARSI, Med. 53, passim): nato a Genova il 29 settembre 1615, entrò nella Compagnia il 10 novembre 1631, prese i quattro voti nel 1648; percorse tutti i gradi della carriera di insegnante nei Collegi, fino a diventare professore di teologia. Fu rettore per oltre dieci anni del Collegio del Bene a Genova (lo era quando fu scritta questa lettera); fu superiore della casa professa dal 1671 al 1674, morì dopo il 1675. Redasse per gli anni 1641-1675 l’Historia Domus Professae Genuensis, conservata manoscritta all’ARSI (Med. 81) e di recente pubblicata in traduzione italiana: I Gesuiti a Genova nei secoli XVII e XVIII. Storia della Casa Professa di Genova della Compagnia di Gesù dall’anno 1603 al 1773, introduzione e traduzione dal manoscritto latino di Giuliano Raffo S.I., estratto da “Atti della Società ligure di storia patria”, n.s., XXXVI (CX), fasc. I, Genova, 1996. Cfr. per le notizie su Niccolò Gentile la p. 154.

[71] Nell’Archivio sono conservati (Hist. Soc. II 245) alcuni fogli di stampa di quello che sarebbe dovuto essere il terzo volume delle lettere dell’Oliva e che non fu mai pubblicato; non vi sono altre lettere al Brignole Sale.

[72] Si tratta forse dell’episodio raccontato dal Visconte (p. 105): « [a Vercelli] cominciò a predicare con tal fervore, che avendo durato un’ora e mezza, sputò sangue; credendosi tutti che avesse rotta una vena del petto; se bene Dio non volle da lui a tanto prezzo il bene di quelle anime; e presto restò guarito ».

[73] Nei cataloghi triennali della Provincia Mediolanensis il Brignole Sale figura dotato di ‘bonae vires’ sino al 1658; dal 1660, ‘debiles’.

[74] Il Brignole Sale predicò a Siena l’estate e l’Avvento del 1657. Secondo il Visconte, vi si ammalò, il che spiegherebbe le preoccupazioni espresse dall’Oliva nel doc. 8.

[75] Alessandro VII (Fabio Chigi), nato a Siena nel 1599, eletto papa nel 1655, morto nel 1667.

[76] È la chiesa romana del Gesù.

[77] Il Visconte insiste in numerose occasioni sul grande desiderio del Brignole Sale di allontanarsi da Genova, tanto grande da fargli domandare « con molte calde instanze e con replicate lettere » di essere inviato nelle Indie Occidentali (p. 105). Oltre che a Genova, il Brignole Sale non desiderava predicare in pulpiti illustri perché « diceva d’avere avuto sempre fin dal secolo appetito smoderato di comparire, e che questo lo travagliava continuamente, e lo faceva predicare con ambizione e vanità ». Per questo travaglio interiore « più volte propose in voce ed in carta a’ suoi Padri spirituali e Superiori d’essere levato da questi ministeri speciosi, ed occupato in luoghi ed impieghi di bassa apparenza » (p. 166). Il Visconte fa seguire la cronaca delle varie istanze al Generale, che risponde « con aggradimento, ma senza conchiusione particolare », citando probabilmente i documenti 3-6. Pubblica anche una lettera del 1661 in cui il Brignole Sale spiega al Generale le ragioni del suo intimo dissidio riconducendolo alla cattiva istruzione ricevuta da giovinetto e confessandosi invidioso del mondo letterario che si vede nelle grandi città. Più avanti, il Visconte ricorda tra i motivi anche il difficile rapporto del Brignole Sale con la sua passata vita secolare: a lui chiedevano d’intervenire presso la famiglia per interessi temporali o precise richieste economiche (p. 179). Queste testimonianze permettono di ipotizzare che fosse anche la difficoltà della rinuncia al proprio progetto politico, se non uno specifico motivo politico, a spingere il Brignole Sale ad allontanarsi da Genova.

[78] Scritto nell’interlinea, sopra ‘effettuerà’ cassato.

[79] L’iniziale è corretta su una precedente maiuscola.

[80] Corretto su un precedente ‘hanno … fraudata’.

[81] 'Di’ è ripetuto erroneamente e cassato.

[82] Aggiunto nell’interlinea.

[83] ‘So che’ cass.

[84] Riscritto su ‘bastano’(?).

[85] In precedenza: ‘dichiararle’.

[86] La versione stampata in Lettere di Gian Paolo Oliva cit., t. II, pp. 96-97 è la seguente:
P. Brignole - Siena
Ne’ miei tanti e penosi ingombri non ho provato, in questi giorni, sollevamento maggiore delle buone Nuove, di continuo qua giunte intorno a’ copiosi Manipoli che Vostra Reverenza costì raccoglie con gli apostolici ragionamenti della sua Lingua. Sentirò pure l’anno venturo chi adempia quelle idee che io per debolezza d’ingegno e di spirito, non ho saputo mettere in pratica, ed Ella col fervore e coll’eloquenza espone al Mondo; restituendo alla Compagnia quella lode di vere conversioni che non tutti le danno. Conto i mesi che ci differiscono la Quaresima, per desiderio di sentirla, come la moglie di Tobia contava le giornate che le ritardavano il ritorno di Tobiolo, per impazienza di rivederlo [Tobia, 10, 1-7]. Si contenterà intanto la sua Modestia che io, per gelosia di ammirarla in Roma senza veruna pregiudiciale impressione al gran Frutto che mi prometto dagli ardori delle sue voci, la preghi a moderarsi alquanto in certe minacce particolari, che la Reverenza Vostra sempremai e in ogni discorso più volte fa costì contro l’ampliato abuso di vestire con sommo lusso e muri e servidori e cavalli. Veramente un tal disordine merita ogni più spaventoso clamore di gastighi profetati. Tuttavia parmi debito assai più obligante di chi promulga la divina Parola, scagliarsi contro a’ Misfatti d’odii, d’invidie, di calunnie, d’oscenità, di rapine, di sacrilegii; oggetti tanto più enormi della Pompa, e che nella Città, Capo della Religione Cattolica, Ella biasimerà con compunzione di gran lunga maggiore. Onde troppo mi preme che Vostra Reverenza venga non solo coll’aura di chi potrà accreditare le fiamme del suo Zelo per l’assistenza alle sue Prediche, ma anche perché sia udita senz’ombra minima d’Austerità, qui forse appresa per superiore al Delitto che perseguita. Questi due Periodi bastano alla sua Prudenza, per dichiarare la stima in cui ho il suo Valore: donde in me nasce la paura di non piangere, per poca nebbia, impedita l’abbondante raccolta ch’Ella farà in questa Corte col zelo, con la dottrina, e con la fama precorsa de’ suoi esempii. So che mi crede, e m’intende: e che, avendo di già sodisfatto largamente alla sua coscienza con la detestazione di quei vizii, che tanto più spiacciono a Dio e peggio infettano i posteri di Adamo, moderatamente entrerà poi nella materia de’ Tesori spregati in magnificenze transitorie: prodigalità da riprendersi bensì con acrimonia ecclesiastica, ma non con ristringere tutti gli argomenti d’un intero Quaresimale all’unico esterminio di tale scialacquamento.
La reprimenda dell’Oliva è soltanto una delle molte che la veemenza nel riprendere i vizi dovette procurare al Brignole Sale. Il Visconte ricorda come proprio a Roma il Brignole Sale non si curò della diminuzione di pubblico e continuò a predicare « con la stessa maniera di fruttuoso fervore » (p. 83; cfr. anche pp. 157-158). Da notare la diplomatica sostituzione, nell’edizione a stampa del doc. 7, dei cattivi costumi femminili con una generica prodigalità e l’eliminazione del riferimento all’altro Predicatore (che non si è identificato). Un esempio dei toni che il Brignole Sale dovette usare per l’argomento ci viene dalle pagine del discorso I del Tacito (ed. cit. pp. 18-23), dove, tra le altre cose, si dice che in Genova si vedevano « Eve lusinghiere, a far prevaricar gli sfortunati Adami mostrar le poma ».

[87] Corretto su ‘con’.

[88] Non significherà ‘morire’, bensì ‘non farcela a proseguire’, per affaticamento, sino al termine del periodo quaresimale (che prevedeva ritmi davvero sostenuti).

[89] La chiesa del Gesù di Roma (cfr. doc. 6).

[90] Cioè alle S. Messe celebrate dal Brignole Sale.

[91] Si tratta evidentemente di una traccia della missiva, elaborata dal « sostituto » o segretario; fa parte di una serie di lettere (scritte sulla scorta di un unico prototipo) di ringraziamento per le ricevute congratulazioni (l’Oliva fu eletto vicario generale nel maggio 1661). La « sofferenza » sperata è naturalmente la capacità di reggere il « peso insoffribile ».

[92] Quest’ultima frase è cassata. Fu probabilmente Niccolò Gentile a raccogliere le notizie sul Brignole Sale che si trovano all’ARSI (Med. 93, f. 74) e che non furono mai rielaborate in un necrologio, come testimonia il Visconte (p. 244): « si sarebbero anco stese più le sue lodi con la predica che costuma farsi a religiosi di straordinario concetto di virtù, come già se n’era dato ordine, se non che essendosi per impedimenti differita, si stimò meglio farne il presente racconto ». Il Padre Gentile peraltro scrisse, anni dopo, della morte del Brignole Sale nella citata Historia domus professae Genuensis. Vale la pena di citare il passo: « [1662] Il padre Anton Giulio Brignole, chiamato quest’anno a predicare nello stesso periodo [la Quaresima], fu accolto con il consueto favore. Terminata la prima parte della prima predica, volendo dare una spiegazione della sua venuta, a un certo punto citò le parole di S. Paolo: “Il mio sangue sta per essere sparso in libagione, ed è giunto il momento di sciogliere le vele” con quello che segue. Per dare maggiore credibilità al suo discorso, aggiunse che voleva scagliarsi più liberamente contro i vizi e gli abusi correnti. Così fece, e per altre dieci volte parlò con tanta veemenza da dare l’impressione di uno che stava per andarsene. Poi si mise subito a letto, quindi riprese di nuovo a parlare con vivo sentimento religioso. Con il consenso del padre provinciale, fece testamento e lasciò le rendite provenienti dal suo ricco patrimonio, non ai figli [che aveva avuto prima di entrare in Compagnia], ma ad opere pie. Per ordine del padre generale emise la professione solenne di quattro voti, e rivolse pie esortazioni a tutti, specialmente ai figli, ai parenti e agli amici. Prima di ricevere gli ultimi sacramenti, per invito del padre provinciale, ai nobili presenti che glielo chiedevano parlò con tanto calore del disprezzo del mondo e della felicità di chi trova Dio, da strappare addirittura le lacrime. Morì il 20 marzo: su questo grande uomo, non solo ho scritto qualcosa nelle già citate memorie dei nostri defunti, ma ha anche pubblicato un piccolo volume il padre Gian Maria Visconti » (I Gesuiti a Genova cit., p. 293; cfr. Med. 81, pp. 153-154).




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Anton Giulio Brignole Sale.
Un ritratto letterario

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Rodler
Anton Giulio nel ricordo di Francesco Fulvio Frugoni
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