|
Clizia Carminati Tre lettere inedite di Anton Giulio Brignole Sale e alcuni documenti sul Brignole Sale gesuita * a) Introduzione La mancanza di un epistolario a stampa e la relativa scarsezza di documenti autografi rendono utile la pubblicazione di tre lettere di pugno di Anton Giulio Brignole Sale conservate presso l’Archivio della Compagnia di Gesù di Roma tra le carte di Sforza Pallavicino.[1] Due sono indirizzate da Genova allo stesso padre Pallavicino, una da Madrid al padre Gian Paolo Oliva.[2] La lettera all’Oliva, precedente le altre due, dovette essere donata al Pallavicino perché contenente una convinta lode del suo trattato Del bene, pubblicato a Roma (Corbelletti) nel 1644 e inviato dall’Oliva al Brignole Sale. O quante volte si veggono fare all’ignorante popolo le maraviglie, e guardarsi l’un l’altro, e dire, Numquam sic locutus est homo, all’udir che fanno una descrizzione, una tirata, come dicono, di memoria, o un di quegli, ch’essi chiaman concetti, lavorato, par loro, con arte di sottilissimo ingegno; ed è poi che? Una pulce incatenata. Questi hanno le piene udienze? questi le maraviglie, e gli applausi? questi vanno in fama di gran predicatori, e di loro si parla, di loro si scrivon novelle e si stampano poesie, per ispargerle come i pappagalli di Psaffone, a cantar di essi per tutto il mondo?[15] Persino Emanuele Tesauro, pur esaltando l’invenzione dei « concetti predicabili », si sentirà in dovere di notare gli eccessi di alcuni sacri oratori: Ma finalmente il troppo è troppo; insegnando il nostro Autore [Aristotele] agli oratori etiamdio profani, che le metafore si vogliono adoperar per confetti, non per vivanda. Onde non acquistano però gran merto, né grande applauso appresso a’ prudenti, coloro che tralasciata la vera eloquenza, e le ragioni intrinseche e sode, che sono i nervi della orazione, tessono tutta la predica, quasi un’incannata di ciambelle, di tai concetti infilzati.[16] A tale denuncia segue in tutti gli autori una facile ironia sulla scarsa originalità e sulla fatica nulla della composizione delle prediche. Soprattutto il Bartoli è impietoso: Due, o tre descrizioni rubate da poeti, romanzi, discorsi accademici; or l’arte e l’ingegno sarà in trasformare, o almen travestire queste descrizzioni, tal che quella che nel poeta è una Venere, diventi nella predica una Maddalena. […] Apparecchiate le descrizzioni, seguirà appresso il trovare un paio d’imprese, o d’emblemi di peregrina invenzione, che spiegandole aprano all’ingegno campo da pompeggiare. [Segue una questione teologica], e infine tre o quattro paradossi. [Tutte le cose ritrovate poi si mescolano tra loro], e se n’esprime ciascuna col più freddo e concettoso dir che si possa, a continue metafore, trasportate da più lontano che i mondi che sognava Democrito.[17] Sarà il Tesauro a ricordare l’esistenza di repertori di prediche, rammentando insieme la provenienza spagnola dei concetti predicabili, esattamente come aveva fatto il Brignole Sale: L’altro difetto […] son que’ mostruosi stiracchiamenti, che da alcun tempo in qua, con deplorabile miseria del nostro secolo, soli forniscono la guardarobba di diversi predicatori. Danno a tai concetti il titolo di spagnuoli, o perché veramente la primiera loro origine dalla Spagna derivi, o perché conforme a certi di una nazione abbiano più vento, che succo, e apparenza, più che sostanza; o perché, sì come dalle Spagne si traghettan tallora nella nostra Italia per gli incauti giovani merci appestate; così ancora alcuni di cotali concetti sono merce pestilente per gl’orecchi degl’ignoranti.[18] È comune al Brignole Sale e all’Oliva la condanna morale di quel modo di predicare, che profana gli argomenti di cui tratta, rivelandosi inoltre, in ultima analisi, ignoranza: Detesto l’effeminata e puerile loquacità di chi profana i ragionamenti santi con descrizzioni poetiche, con pompe accademiche, con allusioni favolose, con lunghezza di proemii, con languidezza di argomenti, con affettazione di parole, con lusso di profanità, con totale mancamento di fervore e spirito. Soprattutto, però, l’immoralità dei predicatori sta nel venir meno, per « mercimonio di applausi », al vero compito della predicazione, quello di essere non dilettevole ma utile nel portare gli uditori a correggersi e convertirsi. Sarà sano di mente quel sustituto apostolico che nelle chiese di Cristo, parlando di pene insoffribili, eterne, indubitate, schiera conglobati, e fa pompa di contraposti, non a terrore di perversi, ma per infame mercimonio di applausi non meritati da udienza notoriamente tradita?[20] Entra qui il motivo, già stiglianesco, del corrotto gusto del secolo, cui si accomodavano anche i poeti marinisti. Tanto è lunge, ch’io non voglia che sia adorna la predica, che la voglio tutta ornamento, pur che sia ornamento tutto sostanza. [Occorre uno stile in cui] gli affetti e le ragioni [siano] rese più efficaci dalle pellegrine figure, [che] metta finalmente il senso a’ piedi della ragione. E soprattutto dal Brignole Sale giunge la proposta più significativa: Che se pure tanto vago sei di tale arte [dei paradossi], che senz’essa sterili per te son le campagne, e secchi i fiumi della eloquenza, su, vuo’ secondar il tuo genio: porta in tavola a tuo piacer paradossi, ma sian di quelli, che qual Echini ingegnosi, essendo tutti spine di una salsità apparente al di fuori, chiudon poscia nel seno saporite viscere di verità profittevoli.[26] Come è stato giustamente osservato da Quinto Marini,[27] siamo dunque di fronte al tentativo di raggiungere anche nella sacra predicazione un « barocco moderato »[28] che sappia sfruttare le capacità persuasive dei ‘concetti’ senza eccedere indiscriminatamente nel loro uso. in guisa degli antichi declamatori o sofisti portano in campo asticciuole di legno dorato, vaghe ma fragili: similitudini, detti di poeti, congruenze; a cui l’intelletto applaude come ad ingegnose, non s’arrende come ad invitte: e quasi collane, o smaniglie, volentieri le si lascia mettere intorno; ma per gale, non per legami [30] auspicando (e utilizzando) uno stile « dimesso, ma elegante » che sappia alleggerire la lettura senza deviare il pensiero. L’Arte va ben oltre, cercando insieme di essere un libro di insegnamenti ai predicatori e un manuale perché il lettore stesso possa raggiungere la perfezione cristiana (dunque una predica essa stessa). È un progetto ambizioso, come quelli che riguardano la morale e la letteratura (cfr. sotto), e non privo, come quelli, di intenzioni di propaganda cattolica e di conservazione controriformistica; ed è tanto più interessante, in tale contesto, l’accento posto sul fattore stilistico. La riforma dello stile della predicazione va infatti di pari passo con i contenuti che di quello stile debbono essere oggetto: Chi dunque si dispone a consumar qualche ora su questi fogli, non pensi d’entrare o in un museo erudito di riposta dottrina, o in una galeria ornata di vaghe notizie, o in una prateria deliziosa di fiorita dicitura, o in un pomero gustevole di dilicati concetti; ma in una amena montagnuola tutta coperta di semplici e d’erbe medicinali. Nello stesso tempo, un’opera di sacra predicazione può proporsi come modello di stile, affinché i giovani vaghi d’apprendere l’eleganza, ritrovando mendica di questo candido argento la spiritualità, non sian tirati a procacciarlo nelle miniere pestilenziali de’ libri osceni.[31] Tutto attento alla persuasione retorica, secondo l’insegnamento aristotelico, è anche il Tesauro, ma con risultati di ben maggiore libertà espressiva e, in definitiva, di piena autorizzazione del concettismo: coerentemente, del resto, con i presupposti di quella retorica: [Il predicatore] purché muova gli animi alla virtù, servirassi di figurate, e ingeniose, ed estrinseche ragioni, eziandio cavillose ed apparenti; fondate in metafore, in apologi, in curiose erudizioni; e trarrà frutto da’ fiori. [Dovrà] insegnar la verità con le favole, [poiché i concetti predicabili sono espressione di quella] virtù morale che il nostro Autore chiamò eutrapelia, o versabilità dell’ingegno negli umani discorsi.[32] Le due lettere del Brignole Sale a Sforza Pallavicino sono, a mia conoscenza, l’unico documento che attesti un rapporto diretto tra i due scrittori. È un’attestazione di qualche rilievo, tanto più che quel rapporto non pare essersi instaurato per la via più ovvia (e più marcatamente letteraria), quella delle presenze liguri nel circolo barberiniano (Peregrini e Mascardi), bensì per una strada che il Brignole Sale percorse autonomamente, quella delle conoscenze in ambito gesuitico (l’Oliva) e dell’attività letteraria negli anni della stamperia del Peri: strada che appare come un preludio alla ‘conversione’ del 1648. Ritrovasi in Epitetto, in Senofonte, in Tullio, in Plutarco, in Seneca sentenze acutissime, insegnamenti sottilissimi; ma capaci di mille limitazioni, bisognosi di mille dichiarazioni. E la cagione di ciò parmi quella che in un luogo fu accennata da Tullio. Di tutte l’arti sublimi, dic’egli, come degli alberi, ci dilettan le cime, non le radici; ma quelle senza queste non possono conseguirsi. Nessun di quegli scrittori ha presa la materia da capo [come invece ha fatto Aristotele], insegnando all’uomo chi egli sia; in qual albergo si truovi; e per qual giovamento di lui questa e quell’operazione ottenga lo specioso titolo di virtù, ed abbia conseguito il pregio e la lode dal consentimento de’ mortali. […] Ma che? Tratta Aristotile degli atti nostri, assai più che degli oggetti. Insegna, per esempio, che la liberalità è posta nel mezzo fra la prodigalità e l’avarizia; e che regola le spese conforme al dettame della prudenza. Ma poco, o nulla dimostra poi, quali sieno questi dettami della prudenza intorno allo spendere, ed in qual ragione fondati. E pur ciò sopra ogni altro precetto era necessario per ammaestrar l’uomo nel buon costume. […] Perciò la Morale d’Aristotile, a mio giudicio, meglio insegna di conoscere, che di regolare i costumi e gli affetti degli uomini. Intorno al primo leggonvisi riflessioni da intelletto più che umano; intorno al secondo (per non dir altro) è molto digiuna.[37] Nella discussione sul sapere, uno dei beni intrinseci, Aristotele è ripreso per aver riposto « il maggior bene, e per così dir la midolla della felicità nelle cognizioni speculative, ed inutili ».[38] Monsignor Antonio Querengo, il portavoce della posizione del Pallavicino, confuta dialetticamente gli argomenti aristotelici giungendo alla seguente conclusione: La morale deve venir preferita, come più giovevole; d’oggetti non men pregiati; superiore nella chiarezza; e come quella finalmente, per cui sola osserviamo quel gran precetto: Nosce te ipsum.[39] Un’abile distinzione riconcilia poi la prassi morale con la speculativa, riaffermando l’equilibrio tra i due aspetti complementari della morale già discussi nel passo del libro II citato sopra: Ma, se vi piace, non ci lasciamo Aristotile per avversario; e diciamo così: nella scienza pratica posson considerarsi due beni: l’uno di pascer l’intelletto col vero, e per questo ella non si distingue dalla Specolativa; l’altro di giovar alle operazioni, e quindi ella ha il nome e l’essenza di Pratica.[40] Una siffatta riconciliazione, che non va scompagnata da tributi d’onore alla speculazione morale come parte comunque più nobile della « scienza pratica », è necessaria al Pallavicino: il suo libro, infatti, non può diventare un’« arte », non può sfociare nel gran mare della precettistica secentesca, proprio perché la coincidenza virtù-felicità deve trovare fondamento nei valori cattolici senza necessitare di insegnamenti adatti o adattabili alle diverse situazioni della vita umana. L’operazione del Pallavicino è ben più ambiziosa ed è soprattutto ancorata a pilastri solidi, o quantomeno fatti apparire tali: egli tenta una rifondazione della morale al lume di principi e valori universali cui l’uomo possa riportare le proprie aspirazioni. È in quest’ottica che il trattato del Pallavicino si pone come risposta all’incertezza filosofica e morale del suo secolo; pure non sfugge, di tale risposta, il carattere velleitario e non davvero originale e solido, teso ad arginare e conservare più che alla costruzione di una proposta organica. Parve ad Aristotile che ‘l Tribunale della Prudenza non avesse giurisdizione a sentenziare de’ fini; e che i soli mezzi fossero soggetti al suo Foro. Intorno a’ fini, dic’egli, nessuno dubita, nessuno elegge, nessuno consulta; ma titolo di prudente dassi a colui che sceglie que’ mezzi i quali più acconciamente conducono a possedere il fine desiderato. Così filosofa egli. Ma se nella cognizione e nella elezzione de’ fini non s’adopera la prudenza, non è la prudenza maestra suprema della Virtù e reina di tutto l’animo. Qual cecità più comune e più perniciosa tra gli uomini, che prescrivere all’amore e all’industria lor, come fine, un oggetto che non merita di esser amato e cercato, se non in quanto egli giova per mezzo all’acquisto d’altro oggetto più nobile? […] E questo vuol dire prender i mezzi per mezzi, e ‘l fine per fine: cioè amar gli altri beni per la virtù e per Dio, e la virtù e Dio per loro medesimi.[45] Coerentemente, dunque, la prassi morale deve essere guidata da una virtù, la prudenza appunto, che trova unico fondamento, allo stesso modo dei beni definiti nei primi due libri del trattato, nella Rivelazione. [I giovani si fanno degni di salire alla suprema sfera del politico governo] in purgar nell’Academia le passioni loro da ogni vizio in guisa che già fatti giusti verso sé medesimi in aver sottomesso alla ragion Reina il talento servo, come che rubello, possan ne’ maneggi publici esser giusti verso gli altri, come conviensi (p.12). La vestizione dell’« anima nuda di alme virtù » è un’operazione da compiersi alla luce della ragione,[51] secondo un cammino di riflessione filosofica che conduce a ritrovare la morale cattolica. Ciò è evidente nella trattazione del Tacito, dove lo storico viene contestato ma soprattutto ‘purgato’ fino alla completa sostituzione della virtù classica ad opera di quella cristiana. Ne sono esempi il discorso secondo, in cui si condanna l’uccisione « violentia amoris » di Zenobia impedita nella fuga dalla gravidanza avanzata, e il discorso ottavo, dove si afferma l’amore ‘naturale’ degli uomini per la virtù (subito cristianamente connotata), contro il ‘relativismo’ affermato da Tacito. È quanto, nella teoria, andava facendo il Pallavicino; prassi del resto diffusa nell’epoca della Controriforma, dove la moralizzazione dei classici era al tempo un modo per salvarli dalla condanna e un tentativo di piegarne fruttuosamente gli insegnamenti. Il saggio è nuova, ed ingegnosa iena, che sa esser ora femina, ed or maschio, nell’usare or la fortezza, or la piacevolezza secondo i luoghi[52]. Par di trovarsi dinanzi al ritratto del saggio che si cava dall’Oráculo manual di Gracián: un uomo accorto che, grazie a un ingegno penetrante e alla dissimulazione, riesce a ottenere il dominio in ogni situazione. Ma il Brignole Sale, quasi rispondendo implicitamente a tale accostamento, ricorda che l’adattabilità del saggio non deve essere « sofistica », bensì guidata da un « principio interno » che non può essere relativo alla situazione. Inoltre, il saggio deve mantenersi entro il « decoro », poiché « molte volte [è] possente di far l’uomo ciò ch’ei far non deve ». Il fine dei consigli brignoliani è insomma « l’esser buoni » (p. 256) e non il dominio sociale, nella convinzione, che è anche del Pallavicino, che la virtù stia già nella natura umana e possa dunque essere ottenuta da chiunque segua quei consigli: « Nulli praeclusa est virtus ». quasi ignobil meretrice, che anche a mulattieri, ed a facchini, purché spender vogliano lor nolo, suo malgrado è costretta di concedersi a vettura: questa è quasi altissima donzella, che temprando con modestia i vezzi, fa rivali i gran monarchi della sua grazia; quella dona cuore a’ sudditi contro del Principe: fa questa dono al Principe del cuor de’ sudditi; quella fa ch’essi non l’amino, perché nol temono: questa fa che temano d’amarlo poco, quanto più l’amano; quella fa che volgano le spalle per istrapazzo: questa, che per amore si aprano il petto. […] Sovvengavi, o Prencipi, che se sete uomini, convien trattare umanamente.[54] Siamo di fronte a un non dichiarato ma palese antimachiavellismo che abbiamo visto essere anche del Pallavicino e che, ad ogni modo, ha numerosi sostenitori nel Seicento. L’affabilità altro non è se non una chiara scelta fra amore e timore, ed è una virtù tutta cattolica, tratteggiata come si potrebbe fare per la bontà divina. È la virtù che Maddalena insegnava al principe di Marsiglia per farlo diventare un modello per i propri sudditi e la cui ortodossia cattolica ella rende esplicita poco dopo: Quanto più siete in alto, tanto più v’avvicinate a Dio, onde ancora tanto più cercar dovete di somigliarlo. Quindi l’infinito amore ch’ei porta agli uomini ha da prestar norma a quello a cui siete tenuti co’ vostri sudditi. Non dee la suprema potenza servire ad altro se non a fare che il voler beneficare e il potere vadano giunti. […] Polo sempre fisso a cui dovete riguardar ne’ vostri giri v’ha ad esser Dio.[55] L’operazione tentata dal Pallavicino nel Del bene ha bisogno di una corrispondente riforma stilistica precisamente definita dall’autore. Ciò è intrinseco al fondamento filosofico di quell’operazione, che abbiamo visto essere l’aristotelico criterio di probabilità. Illumina, a questo proposito, un passo del secondo libro in cui sono messi a confronto Platone e Aristotele: Platone in filosofare fu sempre vago di proposizioni maravigliose, e però lontane dalla credenza universale. […] Aristotele s’inviò per contrario sentiero. Tanto fu alieno dal tracciar lo stupore del volgo, che si elesse per maestro il volgo medesimo; e su’ primi, e più rozzi, ed universali concetti della marmaglia appoggiò le colonne della sua filosofia. […] Si è conosciuto con lunga esaminazione che la Natura non è ciurmadrice di bugie agl’intelletti; e che, avendo questi per unico fine il vero, non son prodotti con una fatale infelicità, onde il più delle volte sieno delusi dal falso; che però la maggior parte delle comuni credenze è vera; e che la buona filosofia non dee affaticarsi in altro che in dispiegare agli uomini distintamente quello che in una certa maniera confusa è noto naturalmente a ciascuno: facendo ella quasi la ripetizione, e ‘l commento alla lezione ed al testo dettato ad ogni uomo dalla Natura.[56] L’esigenza di uno stile che si differenziasse, vedremo in che modo, da quello correntemente adottato dai « moderni », era sentita dal Pallavicino anche a causa del fine propagandistico che si proponeva: era necessario raggiungere e convincere il pubblico più vasto possibile senza svalutare i contenuti o esporsi alle facili critiche già da tempo tributate allo stile concettoso. Questo aspetto dell’opera del Pallavicino è notato e apprezzato dal Brignole Sale nelle lettere I e III. Nella prima in particolare esso costituisce l’unico motivo addotto dell’apprezzamento del Brignole Sale: Io ebbi sempre la filosofia per una Donna austera, e da Romiti, ma il Padre anche avvolta da tutte le sue maggiori, e più acute, e più intralciate spinosità ha saputo profumarla, e colorirla, ed abbellirla in modo da poter innamorare, non che i Cavalieri, ma anche le Dame. I profumi, i colori, gli abbellimenti scelti dal Pallavicino somigliano più a quelli di Sofronia, desiderati per le prediche dal Brignole Sale, che a quelli di Armida; pure, sono tali. Il Pallavicino infatti, rendendo conto della sua scelta stilistica nel principio del terzo libro, si dichiara « meno ornato che que’ moderni i quali trattano con amenità le materie morali », ma almeno altrettanto distante dagli « istrici armati di acute punte » dei moderni scolastici: contrario, insomma, a un dettato retoricamente scarno, in pieno accordo con Aristotele. È chiaro però che il nodo della questione era la scelta o no dell’imperante stile ‘fiorito’. E invero il Pallavicino (al pari del Brignole Sale) tiene a precisare la propria distanza dai pavoni vestiti di penne così pompose, e così lampeggianti, come paiono le accademiche amenità dell’eloquenza moderna: ove la morale filosofia comparisce corteggiata da lungo stuolo di citati scrittori, e abbigliata con un drappo a fiorami di leggiadrissima dicitura, ricamato di figure, gioiellato di sentenze, e poco men ch’io non dissi, trinciato d’incisi, affibbiato da nastri d’oro di contrapposti.[57] Gli autori che si avvalgono di tal forma non sono filosofi ma sofisti, « badando a dire ottimamente quel che si può anziché a dir l’ottimo come si può »; pervertono l’ordine della natura e dell’arte trasformando le parole di mezzo in fine. Proprio il fine condiziona invece la scelta stilistica del Pallavicino: egli scrive non per i golosi, che mangiano per mero diletto, ma per gli uomini temperati, che hanno per primo fine il nutrirsi; per chi vuole studiare, non ingannare il tempo. Si tratta, certo, di una scelta motivata anche dalla materia trattata: È agevole in queste [le scritture « amene »] render arguta colla brevità la sentenza; affinché il lettore si reputi a pregio l’intenderla, ed amila, in un certo modo, non come insegnamento altrui, ma come suo parto. Per lo contrario, quando le speculazioni insegnate aggravano per sé stesse l’ingegno, voglion più tosto venir avvolte in un zendado semplice ma leggiero, che in un broccato d’alto ricamo che aggiunga peso.[58] Ma non deve sfuggire la connotazione morale (e moralistica) di quella scelta, connaturata ai contenuti e alle intenzioni del trattato. Un parallelo reso esplicito, in maniera più ingenua, dal Brignole Sale nel discorso primo del Tacito: [recidete] senza indugio dall’ingegno e da’ discorsi di erudizioni, e paradossi, e frasi, e acutezze, e sensi doppi le vanissime superfluità, per poi seguir a far lo stesso in quelle delle membra, e de’ costumi, e de’ vestimenti… (p. 24) È il motivo, tipico degli antimarinisti, della « lascivia » del Marino e dei suoi seguaci; ma le critiche e le scelte stilistiche dei due autori paiono andare ben oltre. Me lo suggerisce il certo disprezzo espresso dal Pallavicino nei confronti dell’intervento del lettore sul testo concettista. È immorale, secondo lui, proprio il diletto che ci appare oggi fondamento delle acutezze, ossia che il lettore si attribuisca parte del merito ripercorrendo con il proprio ingegno il cammino percorso dall’autore. Il che è proprio quanto cercano invece di fare gli autori davvero concettisti, quale ancora il Gracián, che fonda su quel principio tutto il suo Oráculo manual. Ma ciò, come si diceva, costituisce agli occhi del Pallavicino un pericolo grave, impedendo di fatto all’autore di dare una direzione obbligata alla morale del lettore. È perciò che, io credo, la proposta barocco-moderata del Pallavicino non può fermarsi a una riforma di stile, ma deve essere accompagnata da una rigida morale che inquadri teoricamente tutta l’attività letteraria ovvero ne costituisca il contenuto. Fuori da questo quadro quella proposta, fondata su una difesa della retorica concettista, è inconsistente e dà adito (come di fatto accadde) a estremizzazioni del concettismo. b) Tre lettere di Anton Giulio Brignole Sale Criteri di edizione. Si è proceduto a un moderatissimo ammodernamento, distinguendo u e v, eliminando l’h etimologica e sfoltendo le virgole davanti a pronome relativo e a che consecutivo. Le abbreviazioni sono state sciolte, le maiuscole e tutti i tratti caratteristici dell’ortografia brignoliana conservati. I. Opp. NN. 272, f. 6r: al Padre Gian Paolo Oliva (Roma) Molto Reverendo Padre Signor mio Osservandissimo II. Opp. NN. 272, f. 5: al Padre Sforza Pallavicino (Roma) Molto Reverendo Padre Signor mio Osservandissimo III. Opp. NN. 272, ff. 7-8: al Padre Sforza Pallavicino (Roma) Molto Reverendo Padre Signor mio Osservandissimo c. Documenti sul Brignole Sale gesuita Entità dei documenti e criteri di edizione. Alcuni documenti riguardano solo in parte il Brignole Sale: ho segnalato i tagli. I docc. 1-6 e 9-10 provengono dal codice Med. 30 (Epistolae Generalium Provinciae Mediolanensis), un copialettere dei due generali Goswin Nickel e Oliva contenente minute relative agli anni 1654-1662 e alla « Provincia Mediolanensis », cui apparteneva il Brignole Sale. Il codice riporta in alcuni casi solo stralci o tracce delle lettere, e sempre le riporta senza rispetto della punteggiatura: su quest’ultima è stato necessario dunque intervenire cospicuamente. Le due lettere dell’Oliva del 1657 (docc. 7-8) provengono invece dal codice Epp. NN. (Epistolae Generalium ad Nostros) 16, che fa parte di una serie di registri contenenti copie di lettere dell’Oliva scritte di seguito. Sono presenti segni di rielaborazione e cassatura di intere missive, il che fa ritenere che non si tratti di minutari, bensì di registri compilati in vista della stampa (come suggerisce, del resto, una breve indicazione moderna: ms typis edendum) e corretti dall’Oliva stesso. La grafia delle correzioni collima infatti con quella di altri documenti autografi conservati nell’Archivio. Si è proceduto a un moderato ammodernamento, come per le lettere del Brignole Sale, e si sono riportate in nota correzioni e cassature. Si è anche riportato il testo edito della prima lettera, che differisce profondamente da quello già corretto riportato dal manoscritto. Ciò non ci autorizza, comunque, a credere spuria la seconda correzione: l’edizione seguì la morte dell’Oliva di poco più di un anno, e i tempi delle impressioni secentesche fanno ritenere che il materiale pervenuto al tipografo fosse stato controllato personalmente dall’autore.[71] 1. Med. 30, f. 23r. Lettera di Goswin Nickel a Valentino Egidi, provinciale di Milano, 13 giugno 1654 […] 2. Ivi, allo stesso, 20 giugno 1654 Ho avuto la lettera di Vostra Reverenza delli 3 del corrente, e mi son molto rallegrato ch’il male del Padre Brignoli non sia pericoloso.[73] Con tutto ciò, si deve liberare dalle fatiche di petto sin che sia libero e assodato affatto. […] 3. Ivi, f. 112r, G. Nickel a Brignole Sale (Genova), 27 maggio 1656 La lettera di Vostra Reverenza delli 29 del passato m’ha sopramodo edificato, scorgendo in quella la sua profonda umiltà inchinata più a pulpiti bassi che a quelli di consideratione, per li quali vi bisogna maggior studio che sue forze non potrebbon sostenerlo lungo tempo. Ha Vostra Reverenza fatto molto bene a proporre il suo sentimento e resta solo che si rimetta alla santa obedienza, e senza sollecitudine di apparecchiare nuove fatighe vada pian piano perfettionando le già fatte con la lettione de’ Santi Padri per maggior gloria divina. 4. Ivi, f.113v, allo stesso, 3 giugno 1656 La settimana passata mi fu resa la lettera di Vostra Reverenza delli 15 di maggio, nella quale spiega molte ragioni che la stringono a star lontana da Genova, e desidera vivamente l’essecutione; ma pure, come buon religioso, mette avanti la santa rassegnatione, del che io resto pienamente edificato, e mi persuado che non le dispiacerà ch’io prenda qualche breve tempo per risolver questo punto, nel quale devo cercare il maggior servitio divino, secondo l’intentione di Vostra Reverenza. 5. Ivi, f.116r, allo stesso, 17 giugno 1656 Ho questa di Vostra Reverenza delli 3 del corrente, e deve esser sicura che non ho dismesso l’animo di consolarla nella sua proposta. Sono stato astretto a differirla e non posso ancora risolverla, che però è anche necessaria la patienza di Vostra Reverenza acciò che anche per questa via cresca il suo merito. Intanto lodo il santo desiderio di Vostra Reverenza in conservar l’anima e corpo in sagrificio accettabile alla Santità divina. 6. Ivi, f.132v, allo stesso (Milano), 23 dicembre 1656 Era Vostra Reverenza per l’estate passata stata assegnata per predicarla nella città di Siena, dove era aspettata; ma la peste ha impedito il disegno, e però vien chiesta per l’estate seguente;[74] et io vi vengo molto volentieri, perché il Papa senese [75] ha gusto che quel Collegio sia ben provisto e la città abbia sodisfattione. Che però desidero che Vostra Reverenza si disponga per fare questa santa opera; e perché doverà poi la Quaresima del 1658 fare la carità a questa nostra Chiesa,[76] alla quale l’invito, le tornarà commodo, perché trovandosi in Siena non averà a fare lungo viaggio per arrivare a Roma, con detrimento della sua sanità. Prego Dio che la conservi per suo servitio.[77] 7. Epp. NN. 16, ff.76r-77r. Lettera di Gian Paolo Oliva Padre Anton Giulio Brignole. Siena 8. Ivi, f.80v. Lettera di Gian Paolo Oliva Padre Anton Giulio Brignole 9. Med. 30, f. 351v. Lettera di Gian Paolo Oliva a Brignole Sale (Genova), 9 luglio 1661 Può Vostra Reverenza credere fermamente che la sua lettera delli 26 del passato mi è stata di straordinaria consolatione perché è uscita dal suo cuore, overo di divina carità, etc. [Non contiene negotio alcuno, ma solo si rallegra dell’elettione e gli si risponde come a gli altri]. Con che mi raccomando a’ Sacrifici [90] di Vostra Reverenza. 10. Ivi, f.408, lettera di G. P. Oliva a Francesco Vasco, provinciale, 8 aprile 1662 […] [*] Ringrazio Davide Conrieri per aver seguito lo svolgimento di questo lavoro. Ringrazio inoltre Quinto Marini, Franco Vazzoler e Mario Zanardi S.I. per l’attenta lettura e i preziosi consigli. [1] Archivum Romanum Societatis Iesu (ARSI), Opera Nostrorum (Opp. NN.) 272, ff. 5-8. Il nome del Brignole Sale, che non figurava nell’indice dattiloscritto moderno preposto al volume a causa della mancata lettura della firma, è stato aggiunto a mano dal padre Edmond Lamalle, che segnalò queste tre lettere in una scheda del 1972. Il volume fa parte di una serie di nove (Opp. NN. 270-278) contenenti gran parte delle missive destinate al Pallavicino e vari scritti, oltre a documenti riguardanti l’Istoria del Concilio di Trento (1651-57). Tali volumi, sconosciuti alla bibliografia specifica, sono stati recentemente riportati all’attenzione degli studiosi da Tomaso Montanari (che ringrazio): cfr. il suo articolo Bernini, Pietro da Cortona e un frontespizio per Sforza Pallavicino, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, Quaderni, 1-2, 1996, pp. 339-359, n. 6. Tra le lettere, molto interessanti quelle di Virgilio Malvezzi, in via di pubblicazione su “Studi secenteschi” per cura mia. [2] Nato a Genova nel 1600, entrò nella Compagnia di Gesù nel 1616; insegnò umanità a Roma dove divenne Maestro e superiore del noviziato di S.Andrea al Quirinale (1641-1651) e rettore del Collegio Germanico (1651-1654; 1657). Fu predicatore di grande fama in molte città italiane (ivi compresa Genova) e nel 1651 venne nominato predicatore dei Sacri Palazzi; fu amico e corrispondente di Sforza Pallavicino e fu in stretti rapporti con Cristina di Svezia (le dedicò i suoi Sermoni, pubblicati nel 1675). Nel 1661 fu eletto Vicario generale perpetuo del Generale Goswin Nickel con diritto di successione: ne assunse di fatto i poteri, per succedergli nel 1664. Morì a Roma nel 1681. Pubblicò molti volumi di prediche; il suo epistolario è postumo. Presso l’ARSI è conservata in più esemplari manoscritti (Vitae 99, 100, 158) una lunga memoria: Il ritratto celeste del P. Gio. Paolo Oliva Preposito Generale della Compagnia di Giesù nelle sue virtù eroiche. Predica Istorica detta nella solenne memoria della sua morte nel Collegio romano della Compagnia di Giesù a Padri e Religiosi della medesima Compagnia da Giuseppe Agnelli il giorno di S. Giovanni Grisostomo l’anno 1682. Nell’ARSI (Fondo Gesuitico 552, ff. 134r-136v) si trova un interessante memoriale di supplica al Monarca spagnolo perché fosse fatta una dichiarazione in difesa del Padre Oliva, accusato da un frate di S. Basilio e da un gesuita portoghesi di aver parlato male del re cattolico in una predica; l’accusa fu smentita con una lettera dell’8 giugno 1643 (ivi, f. 137) controfirmata dall’Almirante di Castiglia Pedro de Arce, Segretario del Consiglio di Stato (lo stesso incontrato dal Brignole Sale durante l’ambasceria e descritto in toni non lusinghieri: cfr. Michele De Marinis, Anton Giulio Brignole Sale e i suoi tempi, Genova, Libreria Editrice Apuana, 1914, pp. 258-259 e la relazione dello stesso Brignole Sale, ivi, p. 326). Sull’Oliva si vedano C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, Paris-Bruxelles, 1894, s.v.; M. Fois, Il generale Gian Paolo Oliva tra obbedienza al Papa e difesa dell’ordine, nel volume collettivo I Gesuiti fra impegno religioso e potere politico nella Repubblica di Genova, “Quaderni Franzoniani”, a. V, 2, lug.-dic. 1992, pp. 29-40, il quale tocca solo tangenzialmente i temi che qui ci interessano. F. Haskell, Mecenati e pittori, trad. it. Firenze, Sansoni, 1966, cita spesso l’impegno dell’Oliva in campo artistico (amico di Bernini, gli fece ultimare S. Andrea al Quirinale; chiamò G. B. Gaulli e Andrea Pozzo ad affrescare rispettivamente la Chiesa del Gesù e quella di S. Ignazio). L’Oliva predicatore, tuttavia, meriterebbe studi più approfonditi (non è quasi menzionato nelle opere sulla sacra predicazione secentesca). [3] Ha riempito il silenzio che gli studiosi avevano lasciato intorno all’ultimo periodo della vita del Brignole Sale Quinto Marini, Anton Giulio Brignole Sale e l’oratoria sacra, in I Gesuiti fra impegno religioso… cit., pp. 127-150. [4] Cfr. la nota introduttiva al paragrafo c). [5] Lettere di Gian Paolo Oliva della Compagnia di Giesù, t. II, Venezia, Baglioni, 1683, 720, pp. 96-97. Nel paragrafo c) riporto in nota il testo a stampa. [6] Giovanni Maria Visconte, Alcune memorie delle virtù del Padre Anton Giulio Brignole genovese della Compagnia di Giesù…, Milano, Lodovico Monza, 1666. [7] Segnatamente, continuando ad assegnargli pulpiti importanti ignorando le sue richieste che andavano nella contraria direzione: cfr. docc. 3-6 del paragrafo c) e nota. [8] l Satirico di Gio. Gabriele Antonio Lusino, [s.l., s.d.], epigramma sul « poeta goffo ». I due versi non sono ripresi nell’ed. definitiva del Satirico innocente (Genova, Calenzani, 1648). Sulla vicenda delle due edizioni cfr. R. Gallo Tomasinelli, Anton Giulio Brignole Sale, in “Miscellanea storica ligure”, VII (1975), pp. 177-208, p. 189. [9] Marini, art. cit., p. 130. [10] Ivi, p. 131. [11] Come mi suggerisce Marini, che vede nell’ingresso in un ordine potente e nei rapporti con personalità quali Oliva e Pallavicino la testimonianza del non diminuito peso politico del Brignole Sale. Pur essendo d’accordo con Marini sulla reazione indispettita e aristocratica del Brignole Sale, deciso a privare la Repubblica della sua persona, e sul desiderio di rivincita cui egli pensò di poter dar corso con l’ingresso nella Compagnia, ritengo che la mancanza di un diretto impegno politico di rilievo dimostri una rinuncia del Brignole Sale alle proprie ambizioni. Semmai, è vero che si trattò di una rinuncia che egli maturò progressivamente, scontrandosi con i problemi dell’Ordine e ancor più, mi suggerisce ancora Marini, di Genova, in pieno declino di potere e ormai incapace di reggere al nuovo gioco delle potenze europee. [12] Come già pensava Claudio Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, Torino, UTET, 1978, pp. 298-299. [13] Prediche dette nel Palazzo Apostolico da Gio. Paolo Oliva della Compagnia di Giesù e dedicate ad Alessandro VII pont. max., [Roma, Varese, 1680], p. 37. [14] A. G. Brignole Sale, Satirico innocente cit., epigramma sul « Predicator cattivo ». [15] Daniello Bartoli, L’eternità consigliera, Bologna, Zenero, 1653, p. I, capo V, « che si dee voler sentir da’ predicatori la verità per profitto, non la vanità per diletto », p. 67. [16] Il cannocchiale aristotelico, Torino, Zavatta, 1670, p. 503. Un « concetto predicabile » è un’« argutezza concettosa », « cioè un argomento ingeniosamente provante una proposizione di materia sacra, e persuasibile al popolo, il cui mezzo termine sia fondato in metafora » (p. 501). Cfr. Mario Zanardi, Sulla genesi del “Cannocchiale aristotelico”, “Studi secenteschi”, XXIV (1983), pp. 15-34. [17] Op. cit., pp. 85-87. [18] Satirico innocente cit., pp. 327-327. Giovanni [Pozzi] da Locarno, Saggio sullo stile dell’oratoria sacra del Seicento esemplificato sul padre Emmanuele Orchi, Roma, Inst. hist. ord. Fr. Min. Cap., 1954, p. 165, n. 4, dà per sicura la provenienza dal Brignole Sale del corrispondente passo del Tesauro (Cannocchiale cit., p. 503). [19] Oliva, Prediche cit., pp. 40, 33, 34. [20] Oliva, Prediche cit., p. 34. [21] A. G. Brignole Sale, Satirico innocente cit., pp. 328-330. [22] Cfr. M. Fois, art. cit., pp. 31 e 40. [23] Cfr. Michele Miele, Attese e direttive sulla predicazione in Italia tra Cinquecento e Settecento, in La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento, Atti del Convegno di studio dell’Associazione italiana dei Professori di Storia della Chiesa, Napoli settembre 1994, a cura di G. Martina SJ e U. Dovere, Roma, Edd. Dehoniane, 1996, pp. 83-109. La lettera di Innocenzo XI è riportata alle pp. 108-109. Sull’argomento le pp. 102-106. [24] A. G. Brignole Sale, Satirico innocente cit., p. 312. [25] Ivi, pp. 339 e 336. [26] Ivi, pp. 324. [27] Art. cit., p. 146. Lo studioso ritrova i fattori storico-culturali e i personaggi che poterono incidere sull’ideologia letteraria del Brignole Sale, sia nell’ambito della sacra predicazione genovese, sia nell’ambito della riflessione su di essa e sullo stile in genere. Per quest’ultimo ambito, egli fa i nomi di Mascardi e Peregrini; i documenti qui pubblicati permettono, credo, di aggiungere a quei nomi quelli di Oliva e Pallavicino. Conservo peraltro qualche dubbio sulla reale vicinanza fra l’ideale stilistico del Brignole e quello del Mascardi; questi, ad ogni modo, può bene aver rappresentato uno stimolo forte all’elaborazione, da parte del Brignole Sale, di una propria riforma dello stile. [28] Fondamentale per tutto quanto dico al proposito il saggio di Franco Croce, La critica dei barocchi moderati, in Tre momenti del barocco letterario italiano, Firenze, Sansoni, 1966. [29] Venezia, Pezzana, 1666. [30] Op. cit., p. 74. [31] Op. cit., Proemio e lettera A’ lettori. [32] Il cannocchiale aristotelico, ed. cit., pp. 588-589. [33] Cfr. la voce di Mario Rosa, Alessandro VII nel Dizionario biografico degli italiani. [34] Ulteriore indizio di una continuità fra gli ultimi scritti letterari, l’avvicinamento alla Chiesa e la decisione di prendere i voti può essere la testimonianza del Visconte secondo cui il Brignole Sale risparmiava dall’‘abiura’ « satire morali » e « prose morali mescolate di satirico » (p. 183). [35] Traggo le citazioni dall’edizione di Napoli, Bulifon, 1681. [36] Elena Mazzocchi, La riflessione secentesca su retorica e morale, in “Studi secenteschi”, XXXVIII (1997), pp. 11-56, p. 24. [37] Del bene, ed. cit., pp. 148-149; l. II, parte I, capo V. Corsivo mio. [38] Ivi, p. 478; l. IV, parte I, capo XIV. [39] Ivi, p. 485; l. IV, parte I, capo XV. [40] Ivi, p. 486; l. IV, parte I, capo XVI. [41] E. Mazzocchi, art. cit., p. 28. [42] Del bene, l. II, parte I, capi XXXIII-XXXIV. [43] Baltasar Gracián, Oráculo manual y arte de prudencia, ed. E. Blanco, Madrid, Cátedra, 1995, afor. 98 (Cifrar la voluntad): « Lleva riesgo de perder el que juega a juego descubierto. Compita la detención del recatado con la atención del advertido: a linces de discurso, xibias de interioridad ». [44] E. Mazzocchi, art. cit., p. 29. [45] Del bene, pp. 314-316; l. III, capo I (dedica a Fabio Chigi). [46] È da notare l’insistenza del Pallavicino sull’infelicità che può derivare a chi voglia diventare Principe senza averne le qualità e sulle inquietudini che quella posizione comporta. È più desiderabile rimanere « privati » per non passare dal potere all’impotenza « a goder quiete »; e « la più desiderabil fortuna è nascere » non con ricchezze principesche, bensì « con ricchezza mediocre, ma vantaggiosa secondo al grado » (ivi, p. 570; l. IV, parte II, capo LI). Per il pubblico cui scrive il Pallavicino, un’ideologia di conservazione a tutti gli effetti, riconfermata dall’accenno ai premi conferiti dal Principe ai sudditi capaci: proprio grazie a questi la Monarchia è miglior patria della Repubblica, che deve, per conservarsi, « diffidare delle proprie membra ». [47] Del Bene cit, p. 138. [48] Cfr. Claudio Costantini, op. cit., cap. XVI, soprattutto le pp. 286 e 295-299. [49] Cfr. il documento 7, paragrafo c). [50] Tacito abburattato. Discorsi politici e morali, Venezia, Combi, 1646, pp. 18-19, 116-117, 253. [51] Lo stesso ritorno alla ragione che motiva la riforma stilistica nella letteratura e nell’oratoria sacra. [52] Tacito abburattato cit., p. 233. [53] Cfr. C. Costantini, op. cit., p. 298. [54] [54] Tacito abburattato cit., p. 196. [55] Maria Maddalena peccatrice e convertita, a c. di D. Eusebio, Fondazione Pietro Bembo/ Ugo Guanda Editore, Parma, 1994, p. 331. [56] Del bene cit., l. II, parte I, capo IV; p. 146 [57] Ivi, l. III, parte I, capo II; p. 318. Tralascio, per brevità, di citare i passi contro le vanità accademiche contenuti nel discorso primo del Tacito e le vivacissime critiche al concettismo espresse nelle due redazioni della satira contro il « Poeta goffo » [58] Ivi, capo IV; p. 321 [59] Cfr. ll satirico di Gio. Gabriele Antonio Lusino, p. 275: « non sai che il diletto proprio dell’umanitade, il qual consiste nel discorso, nasce più dalla sostanza delle cose, che dal suono? ». [60] È il trattato (in forma di dialogo) di filosofia morale Del Bene, Roma, Corbelletti, 1644. [61] Spagnolo, dar el parabién: fare le congratulazioni. Cfr. Tacito abburattato cit., p. 8. [62] Il Brignole Sale udì predicare il Padre Oliva a Genova nei primi mesi del 1644; fu quella, probabilmente, l’occasione in cui lo conobbe e avviò con lui il rapporto testimoniato da questa lettera. Il soggiorno genovese dell’Oliva è raccontato nell’Historia Domus Professae Genuensis (per cui cfr. sotto, n. 70): [1644] « Ornamentum additum fuit hoc anno nostrae ecclesiae a Jacobo Philippo Duratio et Hieronymo fratre statuis duabus marmoreis ad altare proprii sacelli; maius autem a Concionibus P. Jo. Pauli Olivae. Advenit ipse Rector hinc Romani Tyrocinii ad anni initium, et mansit apud nos per tres menses; mirum quantum desideratus, quanto plausu exceptus, et auditus a viris praesertim primariis, qui ubicumque Pater diceret eo confluere, quasi agmine facto, videbantur » (ARSI, Med. 81, p. 145). [63] È lo stesso apprezzamento dedicato ai predicatori cattivi nel Satirico innocente cit., p. 341. Cfr. l’Introduzione. [64] Dopo l’“aggravio di Milano” (un peggioramento, dovuto a una confisca di rendite genovesi da parte del governo milanese, nell’annosa questione delle gabelle del Finale) nel marzo, l’incarico diplomatico del Brignole Sale in Spagna si fece difficile e avvilente: cfr. R. Gallo Tomasinelli, La corrispondenza fra Anton Giulio Brignole Sale e il Senato genovese, “La Berio”, XXXIV, 2, lug.-dic. 1994, pp. 3-32. Sull’ambasceria si veda tutto il capitolo XIX di De Marinis, Anton Giulio Brignole Sale cit., oltre alla relazione del Brignole Sale che costituisce l’Appendice II dello stesso volume. [65] 1590-1666. Mercante e affarista genovese, autore del trattato Il Negotiante (1638-1665), curatore di interessi del Brignole Sale, dal 1648 al 1650 diresse la stamperia fatta venire dall’Olanda poi acquistata da Benedetto Guasco. Fu anche libraio. Curò la pubblicazione della Vita di S. Alessio nel 1648; è probabile che ne avesse inviato copia al Pallavicino. Da notare le molte opere di gesuiti presenti nei non cospicui annali della stamperia, conformemente a quanto affermato dal Visconte (Memorie cit., p. 8): « [Brignole Sale] ristrinse l’onore di così ben formati caratteri a’ libri che ne fossero degni ». Sul Peri cfr. M. Maira, G. D. Peri scrittore, tipografo e uomo d’affari nella Genova del ‘600, “La Berio”, XXVI, 3, 1986, pp. 3-70. [66] l consanguineo di cui si parla potrebbe essere Ippolito Durazzo, nato nel 1628 da Giovan Filippo e Maddalena Brignole Sale e dunque nipote di Anton Giulio. Egli divenne gesuita e poteva ben essere discepolo del Pallavicino a vent’anni. Se ne può forse leggere testimonianza in una lettera che il Pallavicino, già cardinale, gli scrisse nel settembre 1662 (cfr. Lettere dettate dal Card. Sforza Pallavicino, Venezia, Baseggio, 1701, pp. 268-269): « Le lettere di Vostra Reverenza non erano necessarie per quei due fini, ai quali sogliono esser indrizzate, cioè o per conservar in me la memoria di lei, o per certificarmi di quella che Vostra Reverenza conserva di me. […] Ben’io avrei tentazione di vanagloria in legger nella sua il molto ch’Ella riconosce da me nella cultura del suo ingegno, se l’evidenza del fatto non mi forzasse l’intelletto a prender questa significazione per una soprabondanza della sua cortesia ». Non ho potuto vedere una biografia di Ippolito citata dal De Marinis: Vita del Padre Ippolito Durazzo della Compagnia di Gesù descritta dal Padre Tommaso Campora, Genova, Franchelli, 1690. [67] Cfr. Visconte, Memorie cit., p. 33: « ordinatosi assai presto Sacerdote, disse con singolar divozione la prima Messa nel giorno del S. Natale di Nostro Signore ». Aveva rinunciato alla carica di senatore, di cui aveva preso possesso solo il primo luglio, il 19 dicembre 1648; il suo successore Luigi Centurione era entrato in carica il 22 dicembre. [68] Si tratta probabilmente di copie delle Rime del Ciampoli (pubblicate per cura del Pallavicino nel 1648) che il Pallavicino voleva inviare a Genova (forse proprio alla stamperia del Peri) perché fossero vendute. Il Brignole Sale poteva essere un buon intermediario anche per donarne alcune a letterati e personaggi illustri genovesi. [69] Cfr. Visconte, Memorie, p. 32: « così finalmente dopo alcuni mesi di contrasto, non puote più commandare a se stesso di tolerare quella oppressione d’animo [il peso della toga senatoria], e per sollevarsene alquanto uscì di Genova, con animo d’andare a trattenersi alcuni giorni nel Bresciano, su la riviera di Salò, che dagli aliti temperati del gran lago di Garda, addolcito il natio rigore, s’addomestica in delicie d’aranci, di limoni, cedri, ed altre simili piante, con una imperfetta imitazione delle riviere genovesi ». [70] Si tratta con ogni probabilità di Niccolò Gentile, gesuita, sul quale scarne notizie si trovano nei cataloghi della Provincia Mediolanensis (ARSI, Med. 53, passim): nato a Genova il 29 settembre 1615, entrò nella Compagnia il 10 novembre 1631, prese i quattro voti nel 1648; percorse tutti i gradi della carriera di insegnante nei Collegi, fino a diventare professore di teologia. Fu rettore per oltre dieci anni del Collegio del Bene a Genova (lo era quando fu scritta questa lettera); fu superiore della casa professa dal 1671 al 1674, morì dopo il 1675. Redasse per gli anni 1641-1675 l’Historia Domus Professae Genuensis, conservata manoscritta all’ARSI (Med. 81) e di recente pubblicata in traduzione italiana: I Gesuiti a Genova nei secoli XVII e XVIII. Storia della Casa Professa di Genova della Compagnia di Gesù dall’anno 1603 al 1773, introduzione e traduzione dal manoscritto latino di Giuliano Raffo S.I., estratto da “Atti della Società ligure di storia patria”, n.s., XXXVI (CX), fasc. I, Genova, 1996. Cfr. per le notizie su Niccolò Gentile la p. 154. [71] Nell’Archivio sono conservati (Hist. Soc. II 245) alcuni fogli di stampa di quello che sarebbe dovuto essere il terzo volume delle lettere dell’Oliva e che non fu mai pubblicato; non vi sono altre lettere al Brignole Sale. [72] Si tratta forse dell’episodio raccontato dal Visconte (p. 105): « [a Vercelli] cominciò a predicare con tal fervore, che avendo durato un’ora e mezza, sputò sangue; credendosi tutti che avesse rotta una vena del petto; se bene Dio non volle da lui a tanto prezzo il bene di quelle anime; e presto restò guarito ». [73] Nei cataloghi triennali della Provincia Mediolanensis il Brignole Sale figura dotato di ‘bonae vires’ sino al 1658; dal 1660, ‘debiles’. [74] Il Brignole Sale predicò a Siena l’estate e l’Avvento del 1657. Secondo il Visconte, vi si ammalò, il che spiegherebbe le preoccupazioni espresse dall’Oliva nel doc. 8. [75] Alessandro VII (Fabio Chigi), nato a Siena nel 1599, eletto papa nel 1655, morto nel 1667. [76] È la chiesa romana del Gesù. [77] Il Visconte insiste in numerose occasioni sul grande desiderio del Brignole Sale di allontanarsi da Genova, tanto grande da fargli domandare « con molte calde instanze e con replicate lettere » di essere inviato nelle Indie Occidentali (p. 105). Oltre che a Genova, il Brignole Sale non desiderava predicare in pulpiti illustri perché « diceva d’avere avuto sempre fin dal secolo appetito smoderato di comparire, e che questo lo travagliava continuamente, e lo faceva predicare con ambizione e vanità ». Per questo travaglio interiore « più volte propose in voce ed in carta a’ suoi Padri spirituali e Superiori d’essere levato da questi ministeri speciosi, ed occupato in luoghi ed impieghi di bassa apparenza » (p. 166). Il Visconte fa seguire la cronaca delle varie istanze al Generale, che risponde « con aggradimento, ma senza conchiusione particolare », citando probabilmente i documenti 3-6. Pubblica anche una lettera del 1661 in cui il Brignole Sale spiega al Generale le ragioni del suo intimo dissidio riconducendolo alla cattiva istruzione ricevuta da giovinetto e confessandosi invidioso del mondo letterario che si vede nelle grandi città. Più avanti, il Visconte ricorda tra i motivi anche il difficile rapporto del Brignole Sale con la sua passata vita secolare: a lui chiedevano d’intervenire presso la famiglia per interessi temporali o precise richieste economiche (p. 179). Queste testimonianze permettono di ipotizzare che fosse anche la difficoltà della rinuncia al proprio progetto politico, se non uno specifico motivo politico, a spingere il Brignole Sale ad allontanarsi da Genova. [78] Scritto nell’interlinea, sopra ‘effettuerà’ cassato. [79] L’iniziale è corretta su una precedente maiuscola. [80] Corretto su un precedente ‘hanno … fraudata’. [81] 'Di’ è ripetuto erroneamente e cassato. [82] Aggiunto nell’interlinea. [83] ‘So che’ cass. [84] Riscritto su ‘bastano’(?). [85] In precedenza: ‘dichiararle’. [86] La versione stampata in Lettere di Gian Paolo Oliva cit., t. II, pp. 96-97 è la seguente: [87] Corretto su ‘con’. [88] Non significherà ‘morire’, bensì ‘non farcela a proseguire’, per affaticamento, sino al termine del periodo quaresimale (che prevedeva ritmi davvero sostenuti). [89] La chiesa del Gesù di Roma (cfr. doc. 6). [90] Cioè alle S. Messe celebrate dal Brignole Sale. [91] Si tratta evidentemente di una traccia della missiva, elaborata dal « sostituto » o segretario; fa parte di una serie di lettere (scritte sulla scorta di un unico prototipo) di ringraziamento per le ricevute congratulazioni (l’Oliva fu eletto vicario generale nel maggio 1661). La « sofferenza » sperata è naturalmente la capacità di reggere il « peso insoffribile ». [92] Quest’ultima frase è cassata. Fu probabilmente Niccolò Gentile a raccogliere le notizie sul Brignole Sale che si trovano all’ARSI (Med. 93, f. 74) e che non furono mai rielaborate in un necrologio, come testimonia il Visconte (p. 244): « si sarebbero anco stese più le sue lodi con la predica che costuma farsi a religiosi di straordinario concetto di virtù, come già se n’era dato ordine, se non che essendosi per impedimenti differita, si stimò meglio farne il presente racconto ». Il Padre Gentile peraltro scrisse, anni dopo, della morte del Brignole Sale nella citata Historia domus professae Genuensis. Vale la pena di citare il passo: « [1662] Il padre Anton Giulio Brignole, chiamato quest’anno a predicare nello stesso periodo [la Quaresima], fu accolto con il consueto favore. Terminata la prima parte della prima predica, volendo dare una spiegazione della sua venuta, a un certo punto citò le parole di S. Paolo: “Il mio sangue sta per essere sparso in libagione, ed è giunto il momento di sciogliere le vele” con quello che segue. Per dare maggiore credibilità al suo discorso, aggiunse che voleva scagliarsi più liberamente contro i vizi e gli abusi correnti. Così fece, e per altre dieci volte parlò con tanta veemenza da dare l’impressione di uno che stava per andarsene. Poi si mise subito a letto, quindi riprese di nuovo a parlare con vivo sentimento religioso. Con il consenso del padre provinciale, fece testamento e lasciò le rendite provenienti dal suo ricco patrimonio, non ai figli [che aveva avuto prima di entrare in Compagnia], ma ad opere pie. Per ordine del padre generale emise la professione solenne di quattro voti, e rivolse pie esortazioni a tutti, specialmente ai figli, ai parenti e agli amici. Prima di ricevere gli ultimi sacramenti, per invito del padre provinciale, ai nobili presenti che glielo chiedevano parlò con tanto calore del disprezzo del mondo e della felicità di chi trova Dio, da strappare addirittura le lacrime. Morì il 20 marzo: su questo grande uomo, non solo ho scritto qualcosa nelle già citate memorie dei nostri defunti, ma ha anche pubblicato un piccolo volume il padre Gian Maria Visconti » (I Gesuiti a Genova cit., p. 293; cfr. Med. 81, pp. 153-154). |
Anton Giulio Brignole Sale. Un ritratto letterario * Indice Indice dei nomi * Premessa Graziosi Cesura per il Secolo dei Genovesi Malfatto La biblioteca di Anton Giulio Corradini Il teatro comico Moretti Poeta per musica De Troia L'ossimoro crudele Eusebio Maddalena-naviglio Conrieri La traduzione portoghese della Maria Maddalena Rodler Anton Giulio nel ricordo di Francesco Fulvio Frugoni Carminati Tre lettere inedite * * quaderni.net |