Elisabetta Graziosi, Cesura per il Secolo dei Genovesi: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.

Elisabetta Graziosi

Cesura per il Secolo dei Genovesi: Anton Giulio Brignole Sale





1. Una storia letteraria per il secolo dei Genovesi

Che un capitolo intero della storia economica europea sia all’insegna dei Genovesi è passato in giudicato dopo gli studi fondamentali di Braudel e di Ruiz Martín, [1] e magari si discute sulle questioni delicate di una periodizzazione che tenga conto dei molteplici fattori di quella macchina complessa che è l’economia. Quale è l’anno finale di questo lungo fulgore: il 1627, l’anno in cui la Spagna sospese i pagamenti o il 1648, o ancora più tardi, il 1656, l’anno della peste da cui Genova fu colpita gravemente?[2] Si tratta di una discussione in cui anche la volontà di porre una cesura tanto precisa da richiedere una data indica una città dal capitalismo drammatico, fatto di trasformazioni repentine, traumi e colpi di scena attraverso cui la lunga durata precipita in crisi, all’interno comunque di un’epoca intera in cui la realtà cittadina e cosmopolita della città ligure riuscì ad imporre in Europa la sua centralità di mercato finanziario e di moderno centro di produzione e di consumi: Wall Street e grande mela dell’epoca.
Il protagonismo dei mercanti e dei finanzieri ha appagato anche il gusto per la storia nascosta, e non solo la microstoria che si compie nei recessi più bui, quella dal volto anonimo e dalla lunga durata, bensì la storia tramata nell’angolo riservato del potere, al di là delle porte d’ingresso nei palazzi aristocratici: scelte politiche e politiche matrimoniali, carità pubblica, associazioni d’impresa e sodalizi religiosi, congiure, complotti, transazioni di stato. [3] Di questa storia segreta del potere connesso a un manipolo di uomini che si trovò a capo per quasi cent’anni di un impero economico, il volto monumentale della città e lo splendore delle arti figurative ricostruiscono il tessuto esterno, comprovando un secolo di Genovesi anche nell’arte.[4] La grande committenza genovese cerca ed ostenta gli emblemi del prestigio, tesaurizza nell’arte insieme “onore e robba”, mentre il ruolo di collezionista e di mecenate, moltiplicato dalla competizione fra famiglie nella città, da sempre diffidente verso ruoli emergenti, accende scuole locali e richiama di fuorivia artisti di levatura europea. Genua/Ianua apre l’Italia alla pittura fiamminga, imprime un’accelerazione fortissima alle novità acclimatando l’idea di una varietà del bello dipendente da una diversa tradizione che fruttificherà nel secolo.[5] Grande arte e grande Barocco per il Seicento a Genova, sì che giustamente si può dire che è questo il vero e grande secolo dei Genovesi che promuove la creazione e la circolazione dell’oggetto artistico, ed eleva a forme d’arte gli oggetti d’uso della vita privata.
Esiste dunque un caso genovese nella storia economica, nella storia dell’edilizia urbana e delle arti visive. Esiste, ben prima dell’età barocca, un caso genovese nella storia delle istituzioni politiche e della partecipazione collettiva a queste istituzioni.[6] Che ne è della storia letteraria? Ci limiteremo a un catalogo di nascite illustri, di presenze sul territorio, considerando la geografia letteraria solo un modo per istituire confini simili a quelli di uno stato moderno, recinti che includono o escludono, per discutere poi sul diritto di cittadinanza? Sarebbe una nozione-contenitore che direbbe poco per una città-stato in cui la mobilità è sempre stata altissima, tanto in entrata quanto in uscita, e i rapporti di chi parte con il clan famigliare continuano anche a distanza. Per molti nomi genovesi si tratta di seguire le piste che portano altrove secondo studi e carriere compiuti in istituzioni diverse da quelle della Dominante.[7] Generalmente si tratta un Ordine religioso, ma non mancano coloro che si inserirono nelle corti principesche e cardinalizie o nella grande burocrazia ecclesiastica, mentre più raro mi pare complessivamente l’ingresso nel mondo universitario: per i Genovesi l’insegnamento rimase prerogativa del pedante, figura subordinata nei grandi palazzi cittadini. È proprio questa mobilità di carriera a rendere così difficile e frastagliata la geografia letteraria della regione ricostruita attraverso personaggi che con il luogo d’origine ebbero rapporti di andata e ritorno, di attrazione e ripulsa. A questi Liguri in diaspora, che spesso furono più famosi di quelli rimasti, vanno aggiunti poi i Liguri ad honorem, coloro che su questa banlieu di servizi approdarono per sempre o temporaneamente per offrire i loro uffici. È un panorama difficile, in cui si corre il rischio non solo di interpretare male le assenze e le presenze cittadine, ma anche di sottovalutare il gioco degli schieramenti interni, le reti di rapporti che collegarono quelli che rimasero con i molti che si trovavano altrove, vivi e operanti all’interno di altri gruppi di cooptazione. Né bisogna credere che si tratti solo di partiti letterari, di storie innocue di libri, di asettiche “intertestualità”, perché in una città di fazioni gli antagonismi passavano in fretta, senza soluzione di continuità, dalla politica alla letteratura e viceversa.
Io credo che le risposte al problema di una letteratura genovese e ligure vadano cercate sul piano delle istituzioni in cui si formano e si consolidano i modelli culturali, sul piano concreto delle forme attraverso cui avviene, sia pure per gruppi e fazioni, la socializzazione cittadina. Queste istituzioni furono a Genova intensamente peculiari, anche se nella storia letteraria è altrettanto certo che un secolo dei Genovesi non si aprì mai, non ci fu cioè mai un’epoca in cui la cultura genovese di per sé, come un’unità riconoscibile di testi fra loro collegati, assunse una funzione guida nell’Italia letteraria. Ed è comunque interessante notare questo caso di discrasia non solo fra le differenti serie storiche, ma anche fra i diversi modi dell’esperienza artistica, perché alla letteratura nel fervore di tante iniziative rimase ruolo tuttosommato marginale.[8] E intendo qui la letteratura nella sua forma monumentale, di memoria consegnata dalla stampa al giudizio di un pubblico più vasto di quello concesso da una circolazione famigliare o clandestina, perché a Genova vi fu certamente una vivace produzione letteraria rimasta manoscritta che circolò nei gruppi parentali, fra le maglie ideologiche che dividevano e consociavano l’aristocrazia. Emblematici di un costume sono in questo caso gli Annali commissionati ad Antonio Roccatagliata che, pur circolando intensamente, vennero prima affidati a una commissione di patrizi che li raccolsero senza pubblicarli, e approdarono alle stampe solo nel 1873.[9] Ma ancora più a proposito il Dizionario di Andrea Spinola, diffuso e rifuso da diversi manoscritti che alle stampe (parzialmente) è giunto solo in anni recenti.[10] Senza dimenticare le Gemelle capovane del Cebà pubblicate nel 1723 dal Maffei nell’ambito di una riscossa erudita del teatro italiano. Vi è certamente da considerare che in una città-stato intensamente metropolitana, senza un territorio alle spalle, in cui la classe di governo è legata da una fitta rete di vincoli parentali, il libro a stampa non è necessariamente un mezzo privilegiato per la circolazione delle idee. La produzione e la diffusione delle “lettere orbe” e addirittura di lettere orbe “d’autore” rientra nello stesso quadro di manifestazioni istituzionali del complesso rapporto fra anonimato, cultura e potere.[11] Ma a questo si dovrà aggiungere il fatto che una città che dipende completamente dall’esterno per l’approvvigionamento granario, ha l’attrezzatura ideologica per acquistare “altrove” ciò che in città non si produce: anche i libri.[12] Sono questi due atteggiamenti reciproci che possono servire a spiegare perché, nonostante sia una capitale, Genova come centro editoriale resti dietro non solo a Firenze e Roma, ma anche a Pavia: ciò che si produce e si consuma in loco, circola egualmente e più liberamente manoscritto districandosi fra i divieti ufficiali (tanto di più dopo che nel 1611 era stato proibito di scrivere di politica senza autorizzazione del governo).[13] Viceversa la merce libro a Genova, come ogni altra merce, può essere acquistata altrove e anche altrove commissionata sotto il patrocinio di un’aristocrazia che è fra le più cosmopolite d’Italia. Un esame delle dediche potrebbe dire molto in questo settore sulla presenza genovese nel mondo dell’editoria: nelle stampe come nelle compagnie commerciali i Genovesi battono spesso un’altra bandiera.
Mi pare certo insomma che a Genova si proponga un diverso rapporto fra edito ed inedito, fra ciò che si stampa e si acquista o si colleziona per la biblioteca, e ciò che effettivamente si scrive e si legge nel chiuso delle stanze. È una repubblica in cui anche la pubblicistica politica è fatta di samizdat a circolazione limitata ma pertinace, di libelli scritti da agenti provocatori spesso posti sotto sequestro e pure ricopiati e conservati.[14] La quantità di manoscritti d’autore ricordati dai repertori è imponente e meraviglia tanto di più vederne segnalata le presenza negli archivi privati, al di là di una volontà di conservazione che non appartiene alla Repubblica ma ai privati cittadini, alle famiglie, agli Ordini religiosi. E sostanzialmente ritardatario risulta il discorso con cui Giuseppe Pavoni (pubblicando nel 1611 un Sermone dell’Unione dell’oscuro Michele Pontelli, chierico regolare bolognese) attribuiva alla stampa una funzione da levatrice degli ingegni e un ruolo eternatore,[15] che semmai erano concordemente oramai gli scrittori a volersi attribuire; è un discorso che può riuscire significativo solo in una città in cui la circolazione dei manoscritti prodotti in loco ha ancora effettivamente la maior pars, rimanendo al di qua dell’esito editoriale.[16] E pure mi pare che la stessa circolazione intrafamigliare, nella duplice forma del clan e della fazione (che ha una base largamente famigliare) divarichi il caso genovese dalla mutazione epocale che portò la letteratura in tipografia producendo il moderno modello d’autore, che scrive per il pubblico indifferenziato delle stampe. Il modello d’autore che rimane costante nella cultura genovese (vero o verosimile che sia) è quello di chi scrive per la famiglia, per il gruppo aristocratico, per il partito politico: è (ma è un esempio sufficientemente limpido cólto proprio all’inizio del lungo processo) Battista Fregoso che scrive in volgare un florilegio di fatti memorabili per il figlio Pietro, che solo postumo venne tradotto in latino e pubblicato con un allargamento deliberato dal destinatario ad un pubblico più vasto.[17] Ma si potrà ricordare anche il caso del bolognese Plinio Tomacelli, che fu prima precettore e poi uomo di fiducia del principe Giovanni Andrea Doria, cui dedicò dei Ragionamenti morali: un testo rimasto manoscritto nell’àmbito della famiglia e di un ruolo privato contiguo a quello paterno.[18] Era un modello di trasmissione culturale ben vivo a Genova che, sotto il pretesto del vademecum di famiglia, dilatava l’insegnamento dalla cerchia parentale ad un pubblico più vasto e a volte nascondeva intendimenti più complessi. Istruzioni (a stampa) rivolte ai figli furono un secolo più tardi anche quelle di Giovan Francesco Spinola, di Raffaele Della Torre, di Gaspare Squarciafico: quante rimasero manoscritte?[19] Si tratta di casi di testi in cui il ruolo autorevole è dato dalla funzione paterna in una microsocietà di eguali per nascita. È, con le dovute differenze, quello stesso del Chiabrera, che pure svolge un ruolo di poeta di corte, ma aspira a un rapporto paritario, fra eguali divisi solo dalla fascia generazionale, legato dal dono e dal rituale dell’onore, non dallo stipendio e dall’obbligo della residenza, più ospite d’eccezione che funzionario o segretario.




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[1] Fernand Braudel, Gênes au début du XVIIe siècle, in Fatti e idee di storia economica nei secoli XII-XX. Studi dedicati a Franco Borlandi, Bologna, il Mulino, 1977, pp. 457-79; Idem, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), vol. III, I tempi del mondo, Torino, Einaudi, 1982, pp. 140-55; Felipe Ruiz Martín, La banca genovesa en España durante el siglo XVII, in Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà nell’Europa preindustriale. Amministrazione, tecniche operative e ruoli economici, Atti del Convegno (Genova, 1-6 ottobre 1990), “Atti della Società Ligure di Storia patria”, n.s., XXXI, fasc. 1, 1991, pp. 267-73. Per il quadro generale mi riferisco a Claudio Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, Torino, UTET, 1978.

[2] Fernand Braudel, Il secondo Rinascimento. Due secoli e tre Italie, Presentazione di Maurice Aymard, traduzione di Corrado Vivanti, Torino, Einaudi, 1986, p. 79; Idem, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1976, I, p. 536. Per la definizione cronologica del “secolo dei Genovesi”, vd. anche quanto ne dice Carlo Bitossi, Un pittore cappuccino tra i “Magnifici”, in Bernardo Strozzi. Genova 1581/82-Venezia 1644, a cura di Ezia Gavazza, Giovanna Nepi Sciré, Giovanna Rotondi Terminiello, Bologna, Electa, 1995, pp. 331-36

[3] Rimando su questo argomento agli studi di Grendi e di Bitossi: vd. Edoardo Grendi, La repubblica aristocratica dei Genovesi. Politica, carità e commercio fra Cinque e Seicento, Bologna, il Mulino, 1987; Carlo Bitossi, Il governo dei Magnifici. Patriziato e politica a Genova fra Cinque e Seicento, Genova, Ecig, 1990.

[4] Ennio Poleggi, Strada nuova: una lottizzazione del Cinquecento a Genova, Genova, Sagep, 1972 2; Idem, La strada dei “Signori” Balbi, in Il Palazzo dell’Università di Genova. Il Collegio dei Gesuiti nella strada dei Balbi, Genova, Università degli Studi, 1987, pp. 91-102; Carolina Di Biase, Strada Balbi a Genova. Residenza aristocratica e città, Genova SAGEP, 1993; Genova nell’Età Barocca, a c. di Enrica Gavazza e Giovanna Rotondi Terminiello, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1992.

[5] Van Dyck a Genova. Grande pittura e collezionismo, a c. di Susan J. Barnes, Piero Boccardo, Clario Di Fabio, Laura Tagliaferro, Milano, Electa, 1997; Pittura fiamminga in Liguria. Secoli XIV-XVII, a c. Piero Boccardo e Clario Di Fabio, Genova, Banca Carige, 1997; Repertory of Dutch and Flemish Paintings in Italian Public Collection, Edited by Bert W. Meijer, 1. Liguria, a c. di Maria Fontana Amoretti e Michiel Plomp, Firenze, Centro Di-Istituto Universitario Olandese di Storia dell’Arte, 1998.

[6] Enrico Sestan, Le origini delle signorie cittadine: un problema storico esaurito?, in La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato nel Rinascimento, a c. di Giorgio Chittolini, Bologna, il Mulino, 1979, pp. 74-75, su cui vd. la discussione di Arturo Pacini, La tirannia delle fazioni e la repubblica dei ceti. Vita politica e istituzioni a Genova tra Quattro e Cinquecento, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento”, Bologna, il Mulino, 1992, quaderno XVIII, pp. 57-119. Sul problema più generale di una “local history” ligure, vd. Edoardo Grendi, Storia di una storia locale: perché in Liguria (e in Italia) non abbiamo avuto una “local history”?, in “Quaderni storici”, n. 82, a. XXVIII, fasc. 1, aprile 1993, pp. 141-97 (ora in Idem, Storia di una storia locale. L’esperienza ligure 1792-1992, Padova, Marsilio, 1996).

[7] Claudio Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, cit., p. 292; Franco Vazzoler, Letteratura e ideologia aristocratica a Genova nel primo Seicento, in Letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova, Costa & Nolan, 1992, vol. I, pp. 218-22.

[8] Si veda il quadro efficace della Genova primosecentesca come crocevia di esperienze artistiche tracciato da Marco Corradini, Affari, politica ed arti a Genova tra Cinque e Seicento, in Id., Genova e il Barocco. Studi su Angelo Grillo, Ansaldo Cebà, Anton Giulio Brignole Sale, Milano, Vita e Pensiero, 1994, pp. 3-33.

[9] Carlo Bitossi, Città, Repubblica e nobiltà nella cultura politica genovese fra Cinque e Seicento, in La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova, Costa & Nolan, 1992, vol. I, p. 30. Ma sulla circolazione manoscritta delle pubblicistica genovese vd. soprattutto Claudio Costantini, Politica e storiografia: l’età dei grandi repubblichisti, in Letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova, Costa & Nolan, 1992, vol. II, pp. 108-16.

[10] Andrea Spinola, Scritti scelti, a cura di Carlo Bitossi, Genova, SAGEP, 1981.

[11] Edoardo Grendi, Lettere orbe. Anonimato e poteri nel Seicento genovese, Palermo, Gelka, 1989.

[12] Per il ruolo del porto genovese nel commercio librario, importante evidentemente anche per l’approvvigionamento cittadino, vd. Graziano Ruffini, Sotto il segno del Pavone. Annali di Giuseppe Pavoni e dei suoi eredi 1598-1642, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 40, 80.

[13] Vd. Claudio Costantini, La ricerca di un’identità repubblicana nella Genova del primo Seicento, in Dibattito politico e problemi di governo a Genova nella prima metà del Seicento, numero tematico di “Miscellanea storica ligure”, a. VII, 1975, n. 2. pp. 10-11.

[14] Giovanni Assereto, Genova nel secondo Settecento, in “Rivista storica italiana”, a. CIX, fasc. II, 1997, p. 707.

[15] Michele Pontelli, Sermone dell’unione, in Genova, appresso il Pavoni, 1611 (vd. G. Ruffini, Sotto il segno del Pavone, cit., pp. 57-58, e scheda 164).

[16] Nella biblioteca di Giulio Pallavicino, fondatore degli Addormentati, era « copia di libri infiniti », che a testimonianza del Guastavino erano « tanto stampati quanto scritti a penna », vd. Nicola Giuliani, Ansaldo Cebà, in “Giornale ligustico di archeologia, storia e letteratura”, a. IX, fasc. X-XI, 1882 p. 424. Quasi un secolo più tardi l’immagine del genovese (libidinoso, in questo caso) raccoglitore di dipinti e di manoscritti, si trova ripetuta in Francesco Fulvio Frugoni, De’ ritratti critici abbozzati e contornati dal padre F.F.F., Venezia, presso Combi e La Noù, 1669, vol. 1, pp. 76-81.

[17] Baptistae Campofulgosi factorum dictorumque memorabilium ad Petrum filium liber, Mediolani, Iacobus Ferrarius, 1508.Su cui vd. Carolina Gasparini, Appunti sulla vita di Battista Fregoso, in “Giornale storico della Letteratura italiana”, a. CI, vol. CLXI, 1984, fasc. 515, pp. 398-420.

[18] Vilma Borghesi, Momenti dell’educazione di un patrizio genovese: Giovanni Andrea Doria (1540-1606), in Studi e documenti di storia ligure in onore di don Luigi Alfonso per il suo 85° genetliaco, numero tematico degli “Atti della società ligure di storia patria”, n.s., vol. XXXVI, fasc. II, 1996, pp.203-6.

[19] Ecco i casi citati: Giovan Francesco Spinola, Instruttione famigliare di Francesco Lanospigio nobile genovese a Nicolò suo figlio, in Roma, per Nicol’Angelo Tinassi, 1670 (di cui si vedano le pagine antologizzate in Luigi Volpicelli, Il pensiero pedagogico della Controriforma, Firenze, Coedizioni Giuntine e Sansoni, 1960; Raffaele Della Torre, Astrolabio di Stato da raccoglier le vere dimensioni de i sentimenti di Cornelio Tacito ne gl’Annali o sia instruttione di Raffaele Dalla Torre ad Oratio suo figlio per approfittarsi della lettura di Tacito, in Venetia, appresso li Bertani, 1647; [Gaspare Squarciafico], Le politiche malattie della Repubblica di Genova e le loro medicine descritte da Marco Cesare Salbriggio a Filidoro suo figlio e rappresentate al grande e real consiglio, Francoforte, s.e.,1655. E per un caso già postarcadico di istruzioni rimaste manoscritte, vd. Dino Puncuh, Istruzioni di Francesco Maria II di Clavesana per il buon governo del feudo di Rezzo e dell’azienda famigliare, in Studi e documenti di storia ligure in onore di don Luigi Alfonso per il suo 85° genetliaco, numero tematico degli “Atti della società ligure di storia patria”, n.s., vol. XXXVI, fasc. II, 1996, pp. 305-35.




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Anton Giulio Brignole Sale.
Un ritratto letterario

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Indice
Indice dei nomi
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Premessa
Graziosi
Cesura per il Secolo dei Genovesi
Malfatto
La biblioteca di Anton Giulio
Corradini
Il teatro comico
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Eusebio
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Rodler
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