Elisabetta De Troja

L’ossimoro crudele e l’immobile viaggio nella Vita di Sant’Alessio descritta e arricchita con divoti episodi





In un lontano articolo del 1947 apparso negli Analecta Bollandiana e dal titolo Intactam sposam reliquens Baldovino di Gaiffier esamina la difficoltà di una scelta, quella della verginità, decisa e attuata il giorno stesso delle nozze. [1] La vita di S. Alessio, la sua rinunzia alla sposa, la privazione sistematica di ogni bene, ma al di là del sacrificio coronato dal martirio, si pone all’interno di tutta una agiografia dello sposo o della sposa negati; tra i moltissimi, Santa Melania, sposa di Pliniano, i Santi Cecilia e Valeriano,[2] Massima e Martiniano. La leggenda agiografica di Alessio che si diffuse soprattutto in area italiana e francese ebbe, diversamente dalle altre, un’insolita fortuna letteraria; basti pensare alla Vie de Saint Alexis (XI sec.), al Ritmo marchigiano (fine del XII sec.), alla Vita Beati Alexii di Bonvesin della Riva (inizio del XIII sec.), alla Legenda aurea di Iacopo da Varazze (metà del secolo XIII).[3] Nel XVII secolo 1’antica leggenda sarà tema di un melodramma di Giulio Rospigliosi;[4] nel 1648, a Genova, diventerà l’ultimo romanzo di Anton Giulio Brignole Sale.[5]
L’itinerario della vita di Alessio si articola su quattro leggende: la siriaca,la bizantina, la greca e la latina che si equivalgono fondamentalmente nelle puntualizzazioni storiche.[6] Sotto l’impero di Onorio ed il papato di Innocenzo, un giovane romano, figlio di due patrizi, Eufemiano ed Aglae, lascia, quasi folgorato da un richiamo divino, la moglie sposata da poche ore, i genitori, il suo benessere di patrizio per fuggire a Edessa e vivere in povertà sotto il portico di una chiesa dedicata alla Madonna. Quando la fama della sua santità si diffonde, egli decide di partire per Tarso, in Cilicia, ma una tempesta lo farà approdare sulle rive laziali, ad Ostia, da dove alterne vicende lo ricondurranno nuovamente a Roma, sconosciuto e pellegrino, alla casa del padre e nessuno lo riconoscerà fino al giorno della morte: sarà lui a dichiarare la sua vera identità attraverso una lettera. Le leggende si discostano però dai rifacimenti successivi del Ribadeneira e del Villegas [7] per un aspetto fondamentale: se nelle leggende più antiche Alessio dichiara la sua scelta alla sposa per poi fuggire e non lasciar traccia di sé, nei testi piu recenti Alessio fugge altrettanto improvvisamente ma in silenzio. Come nel romanzo del Brignole. L’autore, fin dalle prime pagine, sottolinea di questo romanzo l’importanza strutturale dell’historia divisa in tre libri: se il primo ed il terzo corrispondono, nelle linee fondamentali, alla leggenda e quindi a verità o ad una interpretazione poetica della verità (« parte sia certo esser verissime, parte è verisimilissimo che siano state verissime »), il libro secondo, quello centrale, dunque, « contiene un totalmente da me finto successo, atto però a svegliar non finte devozioni ». Le considerazioni sul vero e verosimile (come non pensare alle tesi cinquecentesche di Giovan Battista Pigna sui Romanzi o ai Discorsi del Giraldi Cinzio [8] entrambi poggianti sulla efficacia della credibilità e dei mezzi per raggiungerla) erano già presenti in quella che potremmo definire l’opera politica del Brignole, il Tacito abburattato del ‘43. La verosimiglianza si risolve non in un rapporto di distanza dal vero quanto nell’efficacia suasoria della parola.[9] In effetti vi sono due tipi di verisimile (Discorso IV); il primo, « quel di cose che potrebbono esser succedute anche secondo l’ordinario corso degli avvenimenti humani; ma nol sono e del non essere v’è la certezza »: è la novella che occupa quasi tutto il secondo libro, è quel « finto successo » credibile ma totalmente inventato. Il secondo, « quello di cose che per aventura sono state ma sicuramente non può sapersi », lo ritroviamo nella storia di Alessio del I e III libro.[10]
Si tratta di una verità, quest’ultima, che il Brignole definisce « annuvolata », più vicina indubbiamente alla storia che alla pura creazione letteraria e quindi, anche se non certa, sicuramente possibile. L’obbedienza all’agiografia del I e del III libro fa posto, nel vuoto storico del secondo, alla curiosità dei romanzi e più precisamente, in questo caso, della novella che molti anni prima aveva visto un Brignole diverso, con quelle Instabilità dell’ingegno del ’35 [11] che fanno parte di una scrittura laica ed accademica, una scrittura poi ripudiata, a mio avviso, solo in apparenza poiché emerge in seguito come tecnica narrativa sapientemente assimilata nell’historia devota. Il racconto di Misidoro, Cilleno e Drusilla, capitati anch’essi come pellegrini nella casa di Eufemiano dopo alterne vicende, sceglie la strategia narrativa della mise en abyme o racconto in cui la storia prima, quella di Alessio, si rispecchia ma soprattutto si arricchisce di significati. Misidoro, cretese, dagli occhi « dolcemente feroci » e dalla fronte « modestamente superba », Drusilla e Cilleno ripercorrono in quel loro amore di cui Drusilla è al centro, una vicenda di fughe, di tempeste e di travestimenti che molto deve alla dinamica del romanzo greco.[12]
Se Misidoro riesce a liberare Drusilla dalle insidie di Timandro, tiranno di Creta, facendola imbarcare verso la libertà, Cilleno, in viaggio su un brigantino, rimarrà folgorato dal volto della giovane « corsaro di anime » e la salverà dalla morte dopo un improvviso naufragio. Ma l’amico Antandro, anch’esso innamorato, farà salire sulla nave della salvezza solo la donna, ricacciando il giovane tra i flutti, per provocarne la morte. Cilleno verrà poi salvato da un caicco albanese. Un mare, quello del Brignole, molto simile in questo caso a quello del Decameron (lontano dai piacevoli diporti delle Instabilità), un mare che, come afferma Almansi a proposito di quello rappresentato da Boccaccio, è narrativamente e poeticamente inerte: serve solo a provocare tempeste ed allontanamenti funzionali alla dinamica dell’historia.[13] Come, del resto, Drusilla non è altro che una Alatiel rovesciata, controriformista, in quel giuoco di cadute (solo in mare, naturalmente) e di salvataggi che innescano sempre la strategia dell’innamoramento. I tre giovani narrano, uno dopo l’altro, le proprie vicende. Il racconto di ciascuno obbedisce ad un tempo narrativo deciso dal servo di Eufemiano, Polenio che, come un re da cornice decameroniana o come un maestro di scena concede loro, in successione, la parola, decidendo la “misura” di ogni singolo intervento; ed è solo dopo la loro “verità” che inizia la lunghissima dichiarazione di Alessio, ormai da molti anni in casa di Eufemiano.
Alessio si rivolge fondamentalmente a Drusilla che non sa scegliere tra Isidoro e Cilleno,entrambi innamorati, entrambi sottoposti ad ostacoli fortissimi per conquistarsi l’amore della giovane. E Alessio, dopo un lunghissimo primo libro che lo vuole soprattutto penitente, nel silenzio della privazione e nello spazio mangiato di quel sottoscala dove ha scelto di vivere, si trasforma in predicatore. Alessio deve persuadere Drusilla alla rinuncia al mondo e soprattutto al matrimonio. Drusilla deve ripercorrere la sua scelta. Le argomentazioni volute da Alessio seguono un percorso ben preciso e si articolano: 1) Contro l’imprevedibilità della sorte;
2) Contro la schiavitù del matrimonio;
3) Contro i legami della maternità;
4) In favore della verginità che si identifica con la libertà.
Questa sistematica organizzazione verbale sul raggiungimento della libertà attraverso la rinuncia ci riporta genericamente al concetto di annientamento del desiderio; vi è un testo di P. Joseph Surin, uno dei più grandi mistici della Compagnia di Gesù, che sembra ripercorrere col Brignole quella felicità dell’anima che solo la libertà concede:

Je n’ai plus rien à prétendre, /Plus d’amis à rechercher, /Plus de causes à défendre,/ Plus de desseins à cacher,/ Je ne saurais plus rien craindre,/ Rien déguiser, ni rien feindre./ Après avoir tout quitté/ j’ai trouvé ma liberté.

Anche il mistico di Surin afferma: « J’ai quitté mon héritage […] donc plus de guerre,/ Puisque je n’ai plus de terre ».[14] L’avere non è possesso ma schiavitù, legame, guerra, privazione di individualità: l’anéantissement di Surin è riappropiazione di quell’io che gli oggetti, gli altri, la « terre », le condizioni sociali, l’amore per la moglie, l’amor filiale sottraggono. « L’identité », scrive Levinas, « n’est pas une inoffensive relation avec soi mais un enchaînement à soi, c’est la nécessité de s’occuper de soi », e l’incatenamento all’io diventa la necessità di fissare la propria volontà su quell’io che gli altri distolgono, lacerano, smembrano in ruoli diversi: in questo caso Drusilla, chiamata ad essere moglie e madre. Brignole non ha la brevità visionaria di Surin ed il mio accostamento era puramente tematico; e poichè, in questo caso, di un romanzo si tratta, possiamo individuare in Alessio che ascolta la storia narrata dai tre pellegrini e la commenta, uno scarto della scrittura: il linguaggio abbandona lo statuto narrativo del conte per trasformarsi in predica, per assumere una struttura suasoria che vuol condurre Drusilla, ma anche i suoi innamorati, a una scelta di rifiuto di ogni legame per amor di Dio. Ed egli stesso, Alessio, parla in nome di Dio, anzi diventa, com’egli stesso dice, suo « procuratore ». I mistici barocchi, secondo De Certeau, sono simili ai giuristi in una politica dell’enunciazione che, pari alla retorica contemporanea, elabora precise regole di operazioni linguistiche mirate a un uso soprattutto relazionale della lingua, in questo caso chiaramente suasorio.[15] Non dobbiamo dimenticare che per Brignole, nominato nel ‘43 ambasciatore in Spagna (fino al ‘46) e nel ‘48 senatore della Repubblica, quello stesso anno (il dicembre) coincide con la scelta dell’abbandono della dignità senatoria. Si metterà dalla parte dell’ Arcivescovo di Durazzo contro le pretese della Repubblica; l’anno dopo prenderà gli ordini sacri nelle Missioni Urbane e nel ‘52 deciderà di entrare nella Compagnia di Gesù. La scelta di uno statuto espositivo diverso, quello della predica, sembra inserirsi in un progetto non solo culturale ma esistenziale, quello gesuitico, e nelle sue strategie educative.[16] Se, all’ interno dei generi oratori, è l’epidittico quello privilegiato dai Gesuiti poiché, per convincere proprium laudis est res amplificare et ornare,[17] saranno la vituperatio e la laudatio, qui accuratamente divise, ad interagire.[18] La vituperatio deve fidem facere, cioè convincere attraverso la probatio (campo delle “prove”), quel ragionamento con cui l’ascoltante, non ancora preparato, potrà essere condotto a ricevere la parola; ma al di là di questo primo assalto, soprattutto razionale e logico, essa dovrà fondamentalmente animos impellere.[19] Per realizzare questo linguaggio Brignole assume come strumento retorico per eccellenza l’expolitio o “amplificazione rappresentativa”.[20]
L’expolitio si realizza o nella ripetizione della medesima idea (si ripetono le stesse parole o parte di esse) o attraverso la dieresi dell’idea nei suoi dettagli. Alessio sceglierà questa seconda strada. Per convincere della negatività del matrimonio, ne sottolinea gli stratij e porta Drusilla a diffidare del « Marito, il quale o con l’amarvi troppo vi condanni per geloso capriccio ad angustie » (p. 161): l’eccesso d’amore diventa privazione di spazio esistenziale. Oppure, al contrario, « […] con l’amarvi poco sia bel bello dagli amori altrui lascivi indotto ad odiarvi molto » (p. 161): la povertà d’amore si trasforma in un eccesso di odio. Si giunge quindi a una sorta di chiasmo argomentativo: eccesso-privazione; privazione-eccesso: ma il rovesciamento del risultato amoroso, dall’eccessiva passione all’eccessivo odio, non modifica la situazione della donna che rimane infelice. Anche la maternità è fonte d’angoscia, sia la maternità negata dalla sterilità sia quella realizzata nella fecondità della prole. In questo caso è la simmetria a organizzare la frase:[21]

Se sarete sterile, che terreno infelice (p. 162);
Se sarete feconda, che martirij nel partorire (p. 162).

L’idea di fecondità, nel gioco delle varianti, si risolve in un doppio esito negativo:

Se saranno [i figli] ingegnosi, sapranno essere malvagi (p. 182).
Se saranno ignoranti, non sapranno esser buoni (p. 182).

La libertà si restringe in quattro fragili mura, nello spazio ristretto della stanza definita « domestica spelonca » o « camera selvaggia »:

Giaceva questa sotto di una delle scale, per le quali dalla sala al portico si discendeva, e parea più tosto un vuoto da fabricarsi che una stanza già fabricata. Era così angusta, che la mensa, e ‘letto s’occupavano la giurisdizione l’uno dell’altro. Era così bassa, che ben poco havrebbono potuto operare nel santissimo huomo l’estasi più divina circa il sollevarlo da terra (p. 67).

La simmetria (« Era così angusta »…« Era così bassa ») diventa neutralizzazione dello spazio; l’amplificatio serve a realizzare uno spazio che non c’è più mentre gli oggetti si sovrappongono l’un l’altro quasi contendendosi quella « camera » che si annulla fino a schiacciare Alessio diventando locus senza nome, un vuoto (in netto contrasto con quell’habitat che connotava l’Alessio nobile e ricco: « logge », « teatri », « festini », « ampia sala nuziale »). La stanza, il vuoto del sottoscala sono in opposizione alla vastità del mondo:

Parvi cosa dura una volontaria prigione? Ma se la licenza del mondo ad altro non ha servito, che ad inciampare da un laccio in un altro, non è meglio una prigione che libera vi mantenga, di una libertà che serva, più sempre incatenata vi faccia? (p. 164 ).

La domanda, in questa argomentazione in favore della libertà, al di là quindi di ogni possibile legame familiare o sociale, si struttura, in apparenza, nell’antitesi o più propriamente nello stretto giro del chiasmo argomentativo, prigione-libertà; libertà-prigione. Un chiasmo ossimorico, un paradosso intellettuale, nella concezione di una libertà resa prigioniera, quasi fisicamente soffocata dallo spazio chiuso della solitudine, quella di Alessio, quella di Drusilla, forse. L’infinitamente grande (la libertà) nell’infinitamente piccolo (la stanza): e già lo Stigliani sottolineava questi due estremi a proposito dell’Adone [22] una traslitterazione, quella del Brignole, dal campo della scienza, misurabile, a quella del mistero e della fede, incommensurabile. L’anima che per sé non vuole il mondo ma la cella della penitenza è come quella « verginità che il ventre di terrena donzella ingrandì fino a capire l’infinito, l’immenso », mentre la terra, nei confronti del cielo « tutta ad essere un indivisibile punto ne giunge »: l’« infinito », l’« immenso » ed il « punto » si fronteggiano, così come il mondo e la cella.
Ma passando dalla strategia dell’elocutio a quella della struttura romanzesca, è per giustificare la persuasione che il Brignole Sale adotta, come ho accennato, lo statuto della mise en abyme. Come sappiamo, ed è preziosa in tal senso la teorizzazione di Gide,[23] abyme deriva da un procedimento araldico: l’abisso è il cuore dello scudo. Si dice che una figura è, con altre figure, in abisso quando si trova al centro dello scudo ma senza toccare le altre figure.[24]
È evidente che vi deve essere un’analogia tra la situazione del personaggio, in questo caso dei personaggi secondari, e quella del protagonista narratore, tra il contenuto tematico del racconto cornice, che è poi il romanzo stesso, e quello del racconto incastonato. L’analogia è chiara: Alessio lascia la sposa (ma anche i genitori) per amore di Dio; Drusilla, incerta tra i due possibili sposi, finisce per lasciarli entrambi e sceglie la libertà di amare solo Dio. Le due storie producono un indubbio sovraccarico semantico per cui il racconto secondo può aggiungere al piano del racconto primo lo statuto della riflessione e della parola effettivamente pronunciata (tutti parlano, Alessio ma anche i tre giovani), mentre nel primo libro la voce di Alessio si alterna a quella di un narratore esterno ed onniscente. Nella storia “seconda” il racconto tematizza se stesso, dialoga con se stesso: la riproduzione in miniatura distingue tra ciò che è essenziale e ciò che è solo accessorio, punta quindi al cuore dello scudo, al suo significato, questa volta non avviluppato o stordito dal giuoco retorico, da quello che Getto ha definito la “predicazione multipla” della santità.
Il primo senso, quello letterario e ovvio, quello di Alessio vergine per sempre, copre un senso secondo e figurato attraverso Drusilla che non rappresenta soltanto una donna in fuga, in fuga anche dalla difficoltà di una scelta. Drusilla è improvvisamente “fermata” dallo svolgersi della vicenda, è “fermata” anche nell’ascolto ed in questa immobilità che le permette di ricevere la parola, rimane se stessa ma diventa anche coloro che rifiuta: Drusilla è anche Misidoro e Cilleno, Drusilla è anche tutti coloro che ascoltano la parola di Dio attraverso Alessio. Ma, nello stesso tempo, chi è l’interlocutore privilegiato di Alessio se non Alessio stesso?
Alessio, se è finalmente colui che parla, non per raccontare ma per convincere, è anche colui che ascolta, è il primo ad ascoltare se stesso: « Orsù Alessio, tu sarai felice. Nobiltà, beltà, ricchezze, senno, honestà nella tua sposa così gentilmente si adunano, che gioia non potrà venirti nel desiderio, che tu in lei compiutamente non trovi » (p. 11).
E ancora:

E qual biasimo (diceagli un pensier contrario) potrà darmisi ch’io ciò mi goda, che la terra, e ’l cielo mi fa lecito di godere? (pag. 11).
Ah codardo (prorompeva allora un altro interno commovimento) (pag. 15).
Ma che parli, sconsigliato Alessio? (pag. 19).
Vinci, vinci, generoso te stesso, spezza ogni ritegno (pag. 19).

Se, secondo Lacan, la mia parola mi costituisce anticipando sulla risposta della quale è in cerca,[25] Alessio è il primo a diventare l’interlocutore di se stesso, la sua risposta è in anticipo sulla domanda poiché è fondamentalmente a lui che è rivolta la parola di libertà, parola come ascolto e profezia. Ma se è Cristo colui che possiede la parola per eccellenza, Alessio diventa egli stesso Cristo e non solo il suo « procuratore ». La meditazione di Alessio, preparazione alla parola declamata del secondo libro, ripercorre più volte un momento preciso della settimana di passione, Cristo nell’Orto degli Olivi, mentre prega e piange lacrime di sangue (ma nel Vangelo di Luca, il solo a parlare del fenomeno, Cristo non piange lacrime di sangue ma suda sangue: et factus est sudor eius sicut guttae sanguinis decurrentes in terram 22,44; è quindi, quella del Brignole, una libera interpretazione del passo evangelico).
Nel 1636 il Brignole aveva stampato il Santissimo Rosario meditato, « una serie di meditazioni, per i misteri del Rosario, divisi in tre giorni della settimana, il mercoledì, il sabato, la domenica e per parecchie settimane », come ci suggerisce l’irrinunciabile De Marinis.[26] Il confronto con Cristo è sistematico:

Il mio Cristo per lacrimar sangue a fiumi si fa tutt’occhi: e i miei occhi, per non dar ne meno il pianto a stille, si fanno pomice.[27]

La frase si struttura in una disposizione simmetricamente rovesciata (stilema sottolineato da Giovanni Pozzi per Emanuele Orchi e definito « quasi un esercizio di carte incollate » [28]). Sangue a fiumi, gli occhi che divorano la figura: mi rammentano un quadro di Francesco Montelatici, Cecco Bravo, rappresentante anch’esso Cristo nell’orto, dove 1’orbita si raddensa in sguardo, segno tumefatto e tumescente.[29] Ma qui al Cristo tutt’occhi si oppone il penitente dagli occhi come pomice, occhi seccati, dunque.[30] E ancora, per questo gusto della simmetria rovesciata, allusione geometrica ad una frontalità tra Dio e uomo subito infranta, anche visivamente, dall’inversione sintattica, leggiamo nel S. Alessio:

l peso delle tue colpe preme Iddio fino ad ispremerne rossi torrenti, e in questi torrenti non saran da te […] le tue colpe sommerse? (p.189).

Il pianto di sangue si fa dunque fiume e torrente ma gli occhi dell’uomo non gemmano né sangue né lacrime: il peccatore può solo immergersi nel liquido divino che lo salverà. Per il topos delle lacrime come mare o fiume Vittorio Bodini, soprattutto per la poesia di Quevedo e di Gongora, parla non di similitudine ma di metamorfosi: non è solo la liquidità o la trasparenza ciò che filtra nel Brignole, ma la metamorfosi; le lacrime non sembrano un lago di sangue ma sono un lago di sangue.[31]
Nell’altro grande romanzo religioso del Brignole, forse la sua opera più bella, Maria Maddalena peccatrice e convertita (del ‘36), gli attributi metaforici si riferiscono quasi esclusivamente al ciclo metereologico dell’acqua: « nube lacrimosa », « piogge d’alma », « piogge odorose », « rugiade », « vive fonti », « mare », « onde che inondano ».[32] Ma, nello stesso romanzo, accanto all’isotopia della fluidità, della perdita continua d’umore, sembra conviva anche la contraria, quella della secchezza e dell’aridità. Leggiamo infatti:

Gli occhi […] parevano spirar da due sepolcri solo miserabile orridezza, quasi cadaveri.

Gli occhi possono assumere l’oscurità dello sguardo del Cristo velandosi di « atri colori » e trasformandosi in « livide rote ».
Nel romanzo, differentemente dal rapporto tra l’uomo e Cristo del Santo Rosario meditato, Alessio può ergersi in una posizione di diretto confronto con Cristo stesso; il luogo è nuovamente l’Orto degli Olivi dove si articola il monologo per eccellenza o piuttosto il divino dialogo tra Cristo e il Padre: Abba pater, omnia tibi possibilia sunt, transfer calicem hunc a me (Matteo XXVI, 39, 42). Nel ricordo del sudore fatto sangue:

Voi nell’orto a ciò pensando, che dovevate per me patire, sangue fino a terra sudaste, io pensando a ciò che debbo patir per voi, sgorgo non dissomiglianti vene dagli occhi (p. 107).

La frase, in questo caso, non si struttura nell’opposizione simmetrica ma nella ripetizione degli effetti della passione: se Cristo suda stille di sangue, Alessio piange lacrime di sangue. La divina humus del dolore, il sangue come traccia tangibile di una insostenibile sofferenza, è finalmente comune ad entrambi. Anzi, la consapevolezza di un martirio non spettacolare, volutamente avvilito dalla rinunzia, in quella chiusa quotidianità tormentata dagli scherzi volgari dei servi cui Alessio non reagisce mai, ha come un’improvvisa impennata d’orgoglio e per un attimo sembra rovesciarsi:

Non chiedo però a voi, come voi al vostro padre chiedeste, che da me questo calice passi […] ciò che a voi furono i Pilati, gli Erodi, i Giudei, a me saranno la sposa e i genitori (p. 106).

Se Cristo chiede il perché delle sue sofferenze e ne vorrebbe la cessazione, Alessio pretende che esse permangano quasi in una gara di sopportazione in cui è l’uomo ad essere vincente non invocando l’allontanamento della pena. Se Cristo ha avuto i suoi persecutori, anche Alessio li avrà, tanto più spietati in coloro che più lo amano (la parola della moglie e della madre abbandonate è legata soprattutto allo statuto del lamento, genere di grande attualità in quegli anni, ed il pensiero corre alla più famosa delle abbandonate, l’Arianna monteverdiana).
La sposa e la madre sono i nuovi Pilati, i nuovi Giudei: coloro che più amano Alessio sono coloro che organizzano la sua sofferenza. Infatti ad Alessio che, ospite dalla sconosciuta identità, cerca di consolare la sposa per 1a perdita dell’amato, suggerendole che il peggior male per lo sposo scomparso è poterla immaginare nel dolore, essa afferma:

Di troppo forte scudo egli, col dimenticarmi interamente, si è provveduto e questo per me forse fora il meglio? Che se egli di me pensasse, ma non di me così afflitta, mostrerebbe di conoscer poco il mio amore, nel conoscer poco ciò, che io per la sua lontananza patisco: ed io mi stimo più offesa, se egli di me, come di poco amante, si ricorda, che se intieramente di me si scorda. Ma per l’altra parte, se dalla sua memoria i miei tormenti rappresentati quali sono, gli fossero, come non torna? Se perché non cura il mio dolore, benché lo apprende, è per troppa angoscia che io, sua sì leale amatrice, contro ogni ragione sia vilipesa; se perché resiste al duolo, che egli sente pel mio dolore, è purtroppo mio martire che, per mia cagion, egli, da me cotanto amato, viva dolente (pp. 44-45).

Il registro religioso di Alessio si muta in una dichiarazione di sofferenza dalla elegiaca malinconia, tutta concentrata su una nuova, del tutto laica opposizione, quella della memoria-oblio, organizzata nel reticolo psicologico di quei condizionanti “se” che alternativamente si aprono alla differenza delle possibili soluzioni. Ma all’ipotassi quasi stordita dal giuoco combinatorio della parola si oppone un lucidissimo percorso mentale: la poca memoria addolora più del totale oblio, la manifestazione del dolore provocato è più forte in chi lo determina che in colui che ne è vittima. In effetti, memoria e oblio sono volti alla sofferenza, così come, indifferentemente, i due sposi.
La frontalità tra l’uomo e Dio si apre, però, a suggestioni molto più estreme; quando Giovanni Pozzi indica, per il linguaggio dei mistici, una monovalenza semantica del codice teologico in cui si rileva un’equivalenza del contraddittorio (antitesi-ossimoro) e una non equivalenza dell’identico (tautologia-endiadi),[33] interpreta anche quella tensione verbale voluta dal Brignole per il suo romanzo: non amore ed odio ma odioamore (l’oblio-memoria per la sposa e per la madre?); ed ancora, per un dissolvimento dell’endiadi, non l’uomo e Dio ma l’uomo che si “india” e Dio che si umanizza: la notte dell’Orto degli Olivi si apre per entrambi al mistero della sofferenza e l’ossimoro non è più una figura retorica [34] ma una soluzione drammatica ed estrema, alludendo a una trasmigrazione dell’identità, a una coincidenza di opposti che non è annullamento di una qualità nell’ altra o viceversa, ma di una natura nell’altra.
In effetti questo sistema di identificazione finisce per inserirsi direttamente nella strategia suasoria di S. Ignazio; la compositio loci degli Esercizi ignaziani ha proprio come suo scopo la vittoria sulla soggettività, l’imitazione di Cristo; l’identificazione, in questo caso, è ottenuta attraverso la sistematizzazione oratoria della parola che assume una valenza non più solo narrativa ma drammatica e teatrale; anzi, potremmo pensare ad una paideia cristiana che riunisca in sé la religione, l’oratoria e la rappresentazione drammatica.[35]
Ma anche di altri occhi, occhi dipinti, si parla nel romanzo, nella descrizione di una Pietà che Alessio venera ad Edessa: questa volta non sono l’uomo e Dio che si confrontano ma madre e figlio. Ed anche in questo caso ritroviamo la metamorfosi delle lacrime che diventano sangue:

Difilavansi una dietro l’altra impazientemente frettolose dalle amorosissime pupille lacrime tormentose che su le ferite (opra de’ chiodi e de’ flagelli) piombando, accrescevano il morto sangue col sangue vivo. Pareva che la santa Madre sopra quelle del costato segnalatamente inchiodasse gli occhi, e suggeale così ingordamente con essi, che aspettavi ad ogni istante di veder le labra invidiose inchinarsi anch’esse, per accompagnar a’ sguardi di pietà baci di fuoco (pp. 37-38).

È dunque il sangue morto delle lacrime che diventa tutt’uno col sangue vivo delle ferite. Il pensiero va ad Angelo Grillo ed al topos delle lacrime, del sangue, di ferite gemmanti, a quelle Esequie di Gesù Cristo celebrate col pianto di M. Vergine per cui Cristo diventa « Specchio, ov’il mio sembiante/ Con le lagrime mie turbo, e confondo/ Addolorato amante/ Mentre di pianto inondo ».[36]
Nel Brignole non vi è rispecchiamento ma nuovamente metamorfosi; la frontalità degli occhi lacrimosi e delle piaghe aperte trasforma lo sguardo e quindi gli occhi in labbra: gli occhi non guardano, non piangono più quanto « suggono ingordamente » tanto che le labbra, quelle vere, diventano « invidiose ». Se il tema amoroso ma antierotico del romanzo è dominato dall’ossessione della verginità e della rinuncia totale, una nuova sensualità ritorna qui non più all’interno del conte ma come descrizione di un quadro che della vicenda non fa parte, non riguarda più la parola suasoria di Alessio diventando immagine ritagliata, isolata, prezioso medaglione della breve galleria del Brignole; vi è un altro dipinto appeso a una parete del sontuoso palazzo di Eufemiano, ma è solo un tracciato di viaggi, una carta geografica sulla quale la sposa immagina i possibili spostamenti di Alessio. Su una seconda parete, il quadro di Santa Cecilia e Valeriano: « Pur serbaste, o gloriosa coppia, intatto il vostro fiore virginale… » (p. 52).
L’ultimo libro del romanzo, quello che prepara alla lenta agnizione post-mortem, ritorna alla tecnica espositiva dell’esordio e delle prime pagine. Alessio, in entrambi i casi, segue uno dei sistemi della persuasione retorica più propri della teologia classica, quello della proairesis che consiste nel disporre, all’interno di un progetto di comportamento, dei punti di biforcazione e nell’esaminare le due prospettive per poi sceglierne una rifiutando l’altra (tecnica propria degli Esercizi ignaziani). Alessio, nel primo libro, vuol seguire un percorso di santità; tale percorso può attuarsi per il cristiano attraverso la via del matrimonio ed il sentiero diventa il seno stesso della sposa, cinto di rose e di viole, mentre le guance del giovane rammentano le « fresche rose » ed i « vivaci gelsomini […] che per mano dell’alba colti in Paradiso pareano »; (e Cicerone, nelle Tusculanae (V,26.73): Etiamne in crociatu atque tormentis? An tu me in viola putabas aut in rosa dicere?, mentre in Orazio la viola è il colore dell’amore stesso, tinctus viola pallor amantium, OD. III,10,14).[37] Ma se il percorso verso Dio può diventare un serto di fiori, esiste l’altra possibilità, l’altra strada, quella porta stretta che fa accedere al Calvario:

Siasi che l’amorosissimo Cristo mi habbia del Paradiso aperto e ispianato il sentiero, dovrò però io esser veduto caminarlo lentamente, e in un bel seno adagiato, cinto da viole e da rose, mentre di flagelli, e spine e chiodi e sangue, tutto seminato io lo veggo? […] e per amor di un Cristo sol di non far male ti basta`? […]. Per un Dio che ha fatto incomprensibili cose si devon fare da chi del tutto non è ingrato, le stravaganze (p. 14).

Dio si può raggiungere nel matrimonio « lentamente », come dice il Brignole, ma anche attraverso le « stravaganze » di una rinuncia totale.
Nell’ultimo libro la biforcazione si struttura nella possibilità o nella negazione del rivelarsi alla sposa che, nel lamento, dichiara il suo fermo proposito di andare in cerca di Alessio perduto. La donna chiede a lui, il mendicante beneficiato da Eufemiano, di accompagnarla in un viaggio pieno di incognite e di insidie. Alessio dovrà dunque, non riconosciuto, partire alla ricerca di se stesso oppure si rivelerà per interrompere il tormento della donna? L’amore di Dio trasforma Alessio in un « ingegnoso artefice di dolori »; la sua è una crudeltà « magnanima e celeste », abile nell’individuare quelle « arti più difficili e più dolorose » necessarie a trattenere la sposa; è certo che il suo silenzio la ucciderà ed egli, per alleviare le sue sofferenze, finisce per illuderla brevemente per poi dichiarare che si tratta di un inganno. La doppia via della proairesis sembra alla fine risolversi in una soluzione inaspettata: Alessio rivelerà la propria identità ma solo dopo la morte, attraverso una lettera, e non sarà la parola, suasoria o interrogante a intervenire ma la scrittura, di ordine assertivo, questa volta. L’ultimo messaggio, rivolto alla sposa, rivela non solo il mistero dell’identità del pellegrino ma il sistema della sua sofferenza, la precisa tecnica della sua perpretata mortificazione:

Havea ben’io sofferto l’ire più spietate de’ fervori e de’ ghiacci, pellegrinando, ma nulla se n’eran risentite mie membra, al paragone del mirar la fiorita dolcezza del vostro volto sotto l’acerbità della mia imaginata lontananza svanire (p. 263).

Ai modi del patire, agli ormai letterariamente esautorati « fervori » e « ghiacci » subentra un diverso dolore; Tu eres, tiempo, el que te quedas / y yo soy el que me voy (Tu sei, tempo, quello che resti: ed io sono quello che me ne vado), afferma Gòngora. E’ lo « svanire » lento della bellezza e della vita, la visione di un implacabile dissolvimento forse ben più tragico della morte « divota » di Alessio.




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[1] B. de Gaiffier, Intactam sponsam reliquens. À propos de la vie de S. Alexis, in “Analecta Bollandiana”, 65, 1947, pp. 157-195.

[2] La devozione a questi due Santi doveva essere molto forte a Roma se Guido Reni dedica loro uno dei suoi quadri più belli del suo esordio romano,l’Incoronazione dei Santi Cecilia e Valeriano in Santa Cecilia in Trastevere, « improntato a una sorta di primo preraffaellismo devoto più che a un paleocristianesimo necessariamente erudito », come ci suggerisce Marc Fumaroli nel suo bellissimo studio sul Reni; cfr. M. Fumaroli, La scuola del silenzio.Il senso delle immagini nel XVII secolo, Milano, Adelphi, 1995, p. 340 (I ed. Flammarion, 1994).

[3] Fondamentale, per la leggenda del S. Alessio, lo studio di V. Bertolucci Pizzorusso, Le versioni otrantine nelle leggende di S. Alessio, in “Studi mediolatini e volgari”, VI-VII, 1959, pp. 9-24. La studiosa lamenta la mancanza di un lavoro esauriente sulla leggenda del Santo, molto popolare in Italia. Da consultare, comunque, P. Toschi, La poesia popolare religiosa in Italia, Firenze, Olschki, 1935; F. Babudri, La leggenda di S. Alessio "omo de Dio" in un manoscritto settecentesco istriano di Parenzo, in “Archivium Romanicum”, XXIV, 1940, pp. 238-284. Ed inoltre, E. Lommatzsch, Beiträge zur älteren italienischen Volksdichtung, Berlin, 1951, I, p. 2; M. Rösler, Die Fassungen der Alexius Legende, in “Wiener Beiträge zur Englischen Philologie”, Wien, 1905, pp. 156-189. Per il Ritmo marchigiano, vedi V. De Bartholomaeis, Rime giullaresche e popolari d’Italia, Bologna, 1928, pp. 6-9. Per la Leggenda aurea, da consultare il volgarizzamento toscano del Trecento edito a cura di A. Levasti, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1952. Il testo di Bonvesin della Riva si trova nelle Opere volgari a cura di G. Contini, Roma, Società filologica romana, 1941, p. 290 e sgg.

[4] La leggenda del Santo, pochi anni prima del romanzo del Brignole, era stata tema di un famoso melodramma di Giulio Rospigliosi, il futuro Clemente IX. Il rnelodramma, messo in musica da Stefano Landi, era stato rappresentato per la prima volta il 21 febbraio 1632 nel teatro privato delle Quattro Fontane che i Barberini avevano commissionato prima a Carlo Maderna, poi a Lorenzo Bernini. Restò memorabile soprattutto la replica che si tenne per il carnevale del 1634 in onore di Alessandro Carlo di Polonia in visita a Roma. Danilo Romei (Il Papa comico. Sui melodrammi di Giulio Rospigliosi-Clemente IX, in “Paragone-Letteratura”, XLI, 20, Aprile 1990, pp. 43-62), ci dà notizia di due serie di incisioni in rame tratte da disegni di scena. Del melodramma ci è pervenuto sia l’argomento, cioè « il quadernetto che veniva distribuito agli spettatori per facilitare la comprensione del dramma », edito a Roma presso la Stamperia Apostolica nel 1634, sia, naturalmente, la partitura, musicata dal Landi e pubblicata nello stesso anno da Paolo Masotti. L’edizione moderna è stata curata da A. Della Corte, Drammi per musica da Rinuccini allo Zeno, Torino, Utet, 1958 (rist. 1966 e 1978), vol. I, pp. 195-265.

[5] A.Mancini (“Studi Secenteschi”, XI, 1970, p. 234) indica le quattro edizioni del romanzo: due del 1648 (Genova, Peri; Milano, Ghisolfi), poi la veneziana Conzatti del 1663 e l’ultima, lucchese, del 1698 (presso Gregori). La vita di S. Alessio descritta ed arricchita con divoti episodi viene tradotta in francese col titolo L’Epoux fugitif ou l’histoire de la vie admirable de Saint Alexis da un anonimo che si definisce un « Curieux de la langue Italienne » (ma che ritengo sia G. De Golefer) ed edita a Parigi nel ‘59 (chez la Veuve, et Denis Thierry). Ed ancora nel ‘67, a Parigi, con la traduzione, questa volta dichiarata, di G. De Golefer, presso I. Henault; nel ‘77, ancora a Parigi, da R. Guignard (stessa edizione della precedente). Vi è poi un’edizione del ‘74, tradotta da P. de S. André (Aix, E. Roize) in cui il titolo cambia: Le Saint-Alexis. Il « libricciuolo » (come lo definisce il Brignole) può vantare dunque in Francia ben due traduzioni e varie ristampe. Vedi Il romanzo barocco tra Italia e Francia a cura di M. Colesanti, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 28-30. Le edizioni da me consultate per questo lavoro sono quella milanese del 1648 e la lucchese del ‘98 che non presentano varianti di rilievo. Le citazioni sono tratte dalla edizione del ‘98. Gentilmente Clizia Carminati mi indica una lettera del Brignole allo Sforza Pallavicino (la lettera è spedita da Genova ed è datata 10 ottobre 1648) in cui lo scrivente, che ha inviato al Cardinale il suo S. Alessio, ringrazia il grande gesuita per le lodi che rivolge al suo romanzo: « Io sommamente mi confondo di tanto eccesso, non sapendo onde avere mai meritato che un libricciuolo d’uno infelicissimo ingegno, da me fatto solamente per le mani delle donnicciuole, abbia avuta la ventura di capitar tra quelle della Fenice de’ nostri giorni, e di essere anche commendato dalla sua penna ».

[6] Per le leggende, vedi alla voce Alessio lo studio di E. Josi in Bibliotheca Sanctorum, Roma, Società grafica romana, 1961, vol. I, pp. 814-823. Ma anche L. Vazquez De Parga, Bibliotheca hagiographica latina antiquae et mediae aetatis, Bruxelles, 1898-1901, vol. I, p. 48; ed ancora, del Poncelet, La légende de St. Alexis, “La Science catholique”, IV, 1890, pp. 269-271; pp. 632-645.

[7] Per Alfonso de Villegas ho consultato Flos sanctorum y historia general de la vida y hechos de Iesu Christo, Saragozza, P. Cabarte, 1621. Di Pietro Ribadeneira, Flos sanctorum cioè vite dei Santi, tradotti da Gratiamaria Gratii (Venezia, Ciotti, 1621); edito però, per la prima volta a Madrid, 1599-1601.

[8] G. P. Pigna, I Romanzi, Venezia, Valgrisi, 1554; G. B. Giraldi Cinzio, Discorsi, Venezia, Giolito de’ Ferrari, 1554.

[9] Tacito abburattato. Discorsi politici e morali, Genova, Calenzani, 1543, p. 142.

[10] Il rapporto tra realtà ed invenzione si apre alla riflessione della possibile superiorità del poeta sullo storico: « Il poeta in ciò s’avanza sullo storico, che le cose ch’egli ha per suo proprio oggetto sono quali dovrieno essere per esser perfettissime nel loro genere, e insomma idee. Al1’incontro questi tal le tratta, quali sono, cioè a dire, per lo più congionte a quella imperfettione, che con seco porta, quasi per necessità, il non essere disunite dalla materia: onde fia ventura somma dello storico qualora il fatto stesso gli presenta alcun soggetto, che abbia nel suo genere quella eccellenza della verità reale, che a gran pena nel Poema sa alle azioni sue l’artefice prestar fingendo coll’intelletto », pp. 134-135. La perfezione e dunque il bello non fanno parte, per il Brignole, della realtà e della storia, sempre unite alla pesante densità dell’accaduto, non scelte mai perché imposte dalla perentorietà di ciò che è stato. Soltanto per « ventura somma » lo storico può imbattersi nell’avvenimento prezioso e raro che riscatta il vero dalle scorie della vita, dalla « materia » che getta ombra.

[11] Le instabilità dell’Ingegno divise in otto giornate, Bologna, Monti, 1635. Elisabetta Graziosi, a proposito di un possibile, tardo rifiuto di una prima “scrittura” chiaramente allineata con gli artifici più tradizionali di un significante tutto barocco, afferma: « Di un consapevole abbandono dell’artificio barocco Brignole Sale non parlò mai », giustamente sottolineando nell’autore, dalle lnstabilità ai Panegirici, non un mutamento ma un incessante sperimentalismo stilistico; « Si muove per frattura, rispetto al precedente immediato, senza evolvere, bensì moltiplicando l’immagine di sé che l’autore riflette nel testo, con un andirivieni continuo di generi letterari, di temi, di modelli stilistici » (Due conversioni per Anton Giulio Brignole Sale, in Da una riva e dall’altra. Studi in onore di Dante Della Terza, Milano, Cadmo, 1995, p. 261). E sulla “scrittura” delle Instabilità si sofferma con pertinenti considerazioni Marco Corradini: « Se per il genovese l’essenza della poetica si identifica con l’ornatus, come appare dalla sua idea “accademica” della letteratura ed ancor più dalla lettura integrale delle Instabilità, vero libro manifesto (si ricordino i casi di riscrittura concettista di pagine boccacciane, petrarchesche, ariostesche), poetica e retorica vengono a coincidere, perfettamente sovrapposte l’una all’altra » (Genova e il Barocco. Studi su Angelo Grillo, Ansaldo Cebà, Anton Giulio Brignole Sale, Milano, Vita e Pensiero, 1994, p. 285).

[12] Cfr. M. Muscariello, La società del romanzo. Il romanzo spirituale barocco, Palermo, Sellerio, 1979, pp. 33-34; ed anche E. De Troja, Per una rilettura del romanzo barocco: La vita di S. Alessio descritta ed arricchita con divoti episodi, in La maraviglia de la santità. Significati e strutture del romanzo religioso barocco, Padova, Liviana, 1980, pp. 29-58.

[13] G. Almansi, Estetica dell’osceno, Torino, Einaudi, 1974, pp. 143-157.

[14] Devo questa riflessione ad un saggio di Mino Bergamo, La passione della perdita in La scienza dei santi. Studi sul misticismo secentesco, Firenze, Sansoni, 1992, pp. 16 e sgg. (I ed. 1983). Per una presentazione completa delle opere di Surin, vedi lo studio di Michel de Certeau, Les oeuvres de Surin, in “Revue d’Ascétique et de Mystique”, nn. 40-41, 1964-1965.

[15] M. de Certeau, La fable mistique, 1. XVl-XVII siècle, Paris, Gallimard, 1982, pp. 107-208.

[16] Fondamentale per questo aspetto del Brignole lo studio di Quinto Marini, Anton Giulio BrignoIe Sale gesuita e l’oratoria sacra, contenuto negli Atti del Convegno I Gesuiti fra impegno religioso e potere politico nella Repubblica di Genova (Genova, 2-4 dicembre 1991) a cura di C. Paolocci, numero monografico di “Quaderni Franzoniani”, V, 1992, n. 2, pp. 127-150.

[17] C. Soarez, De arte rhetorica libri tres ex Aristotele, Cicerone et Quinctiliano praecipue deprompti, Venetiis, apud Lucium Spinedam, 1605, p. 23a.

[18] Per Soarez, il cui lavoro era apparso per la prima volta nel 1562, a Coimbra, sede di uno dei primi collegi gesuitici, cfr. Andrea Battistini, I manuali di retorica dei Gesuiti (in La “Ratio Studiorum”. Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, Roma, Bulzoni, 1981, pp. 77-120). Battistini sottolinea come in Soarez, ma in genere in tutta la retorica gesuitica, il tema dell’elogio sia molto presente; nel caso del Soarez, evidenziato da un ricorso continuo a temi virgiliani ed ovidiani che finiscono per provare lo stretto contatto tra retorica e poesia

[19] Afferma Roland Barthes a proposito dell’Inventio in Aristotele e nei suoi commentatori: « Dall’Inventio partono due grandi vie, una logica, l’altra psicologica: convincere e commuovere. Convincere (fidem facere) richiede un apparato logico o pseudo-logico che, all’incirca, viene chiamato Probatio (campo delle “prove”): attraverso il ragionamento, si tratta di fare una giusta violenza allo spirito dell’ascoltatore, il cui carattere e disposizioni psicologiche non entrano ancora in conto: le prove hanno una loro forza propria. Commuovere (animos impellere) consiste, al contrario, nel pensare il messaggio probatorio, non in sé ma secondo la sua destinazione, l’umore di chi deve riceverlo, nel mobilitare le prove soggettive, morali » (La retorica antica, Milano, Bompiani, 1972, p. 60). Ma sull’aspetto più propriamente emotivo dell’Elocutio legato al genere epidittico proprio dell’educazione gesuitica vedi ora, di M. Fumaroli, Eroi e oratori.Retorica e drammaturgia secentesche, Bologna, Il Mulino, 1990 ed anche, dello stesso autore, L’âge de l’éloquence. Rhétorique et “res literaria” de la Renaissance au seuil de l’époque classique, Genève, Droz, 1980.

[20] È un articolo di Mario Martelli sul Segneri (La prosa di Paolo Segneri, in “La Rassegna della Letteratura Italiana”, sett.-dic. 1995, n. 3, pp. 1-15) a suggerirmi, anche per questo romanzo del Brignole, l’uso dell’expolitio esaminata, dallo studioso, per la Predica XII del Quaresimale. Ma vedi anche H. Lausberg, Elementi di Retorica, Bologna, Il Mulino, 1969, p. 195.

[21] Per l’ampio uso della simmetria nel Brignole, vedi A. I. Ricci, Tendenze sintattico-stilistiche nella prosa di Anton Giulio Brignole Sale, in “Italianistica”, 8, 1979, pp. 293-305.

[22] Vedi Gli istituti del testo letterario in Adone di G. B. Marino, a cura di G. Pozzi, Milano, Mondadori, 1976, vol. I, p. 42.

[23] Per questo aspetto in Gide è da consultare, di L. Dällenbach, Il racconto speculare. Saggio sulla “mise en abyme”, Parma, Pratiche, 1944, pp. 11-71 (I ed. Seuil 1977).

[24] Per la definizione, vedi A. de Foras, Le Blason. Dictionnaire et remarques, Grenoble, 1883, p. 6.

[25] J. Lacan, Scritti a cura di G. Contri, Torino, Einaudi, 1974, vol. I, p. 291.

[26] M. De Marinis, Anton Giulio Brignole Sale e i suoi tempi, Genova, Libreria editrice Apuana, 1914, p. 171.

[27] Il Santissimo Rosario meditato, Genova, Calenzani, 1636. Cito dal Secondo Rosario del Sabbato. Oratione di Cristo nell’orto, p. 189.

[28] G. Pozzi, Saggio sullo stile dell’oratoria sacra esemplificata sul P. Emanuele Orchi, Roma, 1954, p. 65.

[29] P. Bigongiari, La luce spaziale in Cecco Bravo in Il Seicento fiorentino tra Galileo e il "recitar cantando”, Firenze, Sansoni, 1982, pp. 99-103.

[30] Il tema degli occhi trova una riflessione del tutto mondana in alcune carte del manoscritto del Brignole ritrovato da Laura Malfatto presso il fondo Brignole Sale-De Ferrari della Biblioteca Berio di Genova (cfr. L’inventario della biblioteca di Anton Giulio Brignole Sale, in “La Berio”, 28, (1988), 1, pp. 5-34; 1a descrizione del manoscritto, con la segnatura B.S.104.E.3., ci è data nelle linee essenziali ma diventa utilissima e sistematica guida per tutti coloro che ne affrontano la lettura). Alla C.156v. trovo: « Amore naviga in quegli occhi e si può dire che vi peschi i cuori ». Alla C.14r. : « Già gli occhi di ciascuno riluceano per il raggio […], e velati dal vino come dal fiato un diamante ». Molte le annotazioni su questo tema relative al Tasso, tra cui, alla C.156v. : « Motivi d’occhi simili a diva che nuota. Descritti dal Tasso nelle Rime ».

[31] V. Bodini, Le lacrime barocche, in “Il Verri”, 3, dic. 1959, pp. 26-44. Per Bodini il riferimento non alla similitudine ma alla metamorfosi ha una chiara matrice ovidiana: « Ovidio sta dietro a tutto il barocco europeo: solo che dalla favolosa eccezionalità dei suoi casi limite siamo passati ad una coscienza dell’ambiguità totale del cosmo ».

[32] L’edizione del romanzo da me esaminata è quella genovese del 1636 (Calenzani). Vedi ora l’ottima edizione curata da Delia Eusebio (Parma, Guanda, Fondazione Pietro Bembo, 1994) e, per questo tema, alle pp. LVI-LVIIl.

[33] G. Pozzi, Le parole dell’estasi. Maria Maddalena de’ Pazzi, Milano, Adelphi, 1984, p. 30.

[34]Afferma M. De Certeau a proposito dell’uso dell’ossimoro nel linguaggio dei mistici barocchi: « Proche de l’antiphrase et du paradoxe, l’oxymoron “viole le code” d’une facon particulière. Certes la contradiction qu’il pose, n’est pas “tragiquement proclamée” comme dans l’antithèse, mais “paradisiaquement assumée”; elle a valeur de plénitude, alors que, dans l’antithèse, elle est tension insurmontable […]. C’est un lapsus de la similitude. Il mélange les genres et il trouble les ordres » (La fable mystique, cit., p. 198). Anche nel testo del Brignole l’ossimoro assume il compito di un’infrazione totale per mostrarci ciò che non dice in vista di un assoluto che fa suo anche il contraddittorio.

[35] Per M. Fumaroli: « L’éducation oratoire, chez les gésuites, entre dans un ensemble intégré dont fait parti le jeu scénique, dramatique et choréographique […] le théâtre dans leurs collèges devient une dépendence de la pédagogie oratoire et de son orientation à la fois civile et religieuse » (Les jesuites et la pedagogie de la parole, A.A.V.V. I Gesuiti ed i primordi del teatro barocco in Europa, XVlII Convegno internazionale (ottobre 1994), Roma, Torre d’Orfeo editore, 1995, pp. 39-56.

[36] La strofa fa parte della Canzone II della Raccolta pubblicata a Venezia, presso Ciotti, nel 1607. La composizione è preceduta, come del resto le altre, da una “rubrica” che ne evidenzia il contenuto ed, in questo caso, la scelta retorica: « Essagera la dolente Vergine le sue querele mentre teneva Christo morto in braccio, facendo particolar ragionamento col pietoso sangue di lui (p. 8).

[37] In D. De Robertis, Le violette sul seno della fanciulla, in Forme e vicende. Per Giovanni Pozzi, (Medioevo e Umanesimo.72), Padova, Antenore, 1989, pp. 75-99.




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Anton Giulio Brignole Sale.
Un ritratto letterario

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