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Manlio Calegari, Cara Marietta - Caro Professore: Premessa, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17
Mercoledì, 3 giugno 1987
Ieri l'altro ho telefonato a Marietta per dirle che avevo ricevuto le sue risposte e che le ero sempre più grato per aver affrontato quella fatica. Mi ha interrotto annunciando che non avrebbe più scritto. Alcune domande richiedevano infatti risposte troppo lunghe e altre non le risultavano chiare come invece le era parso all'inizio. Le ho chiesto se aveva voglia di parlare di una questione che univa la sua alla mia ricerca: le donne in montagna, le donne nel partito, le donne dopo la Liberazione, le donne che lei aveva conosciuto. Se preferiva potevamo anche non metterci a parlare di lei. Mi ha detto che era contenta perché era proprio uno degli argomenti su cui aveva maturato più idee, tante, e non sapeva da dove cominciare.
Era proprio vero perché il dialogo si è quasi risolto in un monologo e, poiché le mie sollecitazioni sono state contenute, lo trascrivo qui come un documento compatto, eliminando i miei rari interventi peraltro intuibili dalle sue risposte.
- Posso intitolarlo "Marietta e le donne"? - le ho chiesto alla fine.
- Sì, - mi ha risposto, - basta che non risulti che anche tu mi consideri diversa dalle altre.-
Marietta e le donne
Durante il fascismo si era perduta perfino coscienza dell'oppressione operaia e specialmente femminile. Dico perduta perché prima del fascismo non è che la donna fosse emancipata ma c'era l'idea che anche per la donna ci fosse da raggiungere una meta, una condizione diversa nella famiglia, nella società. Col fascismo invece questa idea lentamente si è perduta; è finita la convinzione, perfino il desiderio del cambiamento. A volte, d'istinto, le operaie si ribellavano ma non c'era una coscienza specifica dell'oppressione. La donna doveva solo lavorare e ubbidire al marito. Ancora poco prima della guerra tante amiche mi dicevano: ma tuo marito ti lascia fare questo?
Ho sentito parlare di emancipazione della donna da bambina; non molto ma c'erano donne che già si facevano rispettare e parlavano chiaro. Erano anche un po' temute. Ma la mentalità diffusa era che l'emancipazione, l'eguaglianza erano una conseguenza del socialismo e poi del comunismo; venivano dopo e non prima. Infatti per il socialismo e il comunismo si immaginavano dei gradi, dei passaggi, per l'emancipazione no. Come se arrivasse per legge.
Se mai avevo creduto il contrario, forse non ci avevo pensato molto dato che i "Gruppi di difesa della donna" che abbiamo iniziato alla fine del '43 riguardavano la donna come madre, casalinga, che doveva fare le spesa ecc., da quando è cominciata la cospirazione ho sentito che l'emancipazione era un percorso lungo e toccava alle donne. Tra i compagni c'era l'idea che ci sarebbe stata l'eguaglianza donne uomini quando le donna fossero riuscite a somigliare a loro. Dovevi riuscire ad assomigliare a un uomo, l'uomo che dicevano di essere, anche se poi non lo erano, cioè forte, autosufficiente, severo con sé più che con gli altri. Ma se gli assomigliavi troppo, e io ne avevo la tendenza, avevano paura. Non volevano che tu portassi i calzoni; piuttosto la sottana lunga. Non per loro ma per la moralità collettiva, ti dicevano. E poi erano loro i primi o forse i soli a cercare di farsi sotto. Perché il sesso in cospirazione e in montagna c'era, anche se piuttosto tra quelli più grandi. Magari ti dicevano che erano stati in carcere, che avevano sofferto, che sentivano la nostalgia della moglie…, ma guai a parlargli di libertà sessuale come magari ingenuamente una volta ha fatto una ragazza che faceva la corriera. La disprezzavano, ti consideravano una mondana.
Mi dispiace dirlo ma molti ragionavano come i preti. Un ambiente di uomini e, in più, uomini armati, che si facevano ammirare o obbedire da uomini, che condividevano la loro vita quasi esclusivamente con uomini. Verso le armi ho un senso di ripugnanza ed è l'unico terreno su cui non ho mai sentito il bisogno di confrontarmi con l'uomo. Ero convinta che fossero necessarie ma tutto quel manovrarle, esibirle…, mi sembrava da bambini. Bambini e narcisi ma il narcisismo, si sa, va col guerriero.
Il 26 luglio del '43 davanti alle fabbriche c'erano specialmente donne; erano la maggioranza. Erano le donne che gridavano "pace, pace" e "basta con la guerra" e gli uomini, padri, fratelli, mariti, che le invitavano alla moderazione o al realismo. Qualcheduno ha anche cercato di mandare la moglie a casa e mi ricordo una vicina che m'ha detto: stasera mi sa che busco, ma ora mi prendo quello che mi hanno tolto; e non parlava solo del fascismo… Mi ricordo bene. Sì, gli uomini erano incerti e solo dopo, nei cortei lontani dalla fabbrica, hanno preso coraggio. In quei giorni le donne non sono state di contorno. Era esattamente l'opposto e tutti quelli che c'erano, se sono sinceri, possono confermarlo. Così è stato anche nella cospirazione. Non c'è un volantino, un medicinale, un giornale di quei giorni che non sia stato portato nelle nostre borse. Allora mi chiedo: da dove viene questo falsificare la realtà? Perché è una falsificazione bella e buona. L'unica spiegazione è che l'uomo abbia una idea di sé, dei fatti tale che si mette in prima fila anche se è dietro e se davanti ci sei tu non è che se ne dimentica, no, non è malizioso, non ti vede, perché è lui a essere importante. La storia c'è soltanto se c'è lui.
Ma per uno che parla troppo c'è sempre un altro che parla troppo poco. Noi donne non abbiamo saputo farci valere perché neppure noi eravamo coscienti di quello che avevamo fatto. Ragionavamo con la loro testa, la testa degli uomini. Noi abbiamo da raccontare solo piccole storie personali, quel giorno o quel fatto, gli uomini invece hanno le storie importanti, gli scioperi, gli scontri. I più generosi concedono che metà della storia tocchi alle donne ma allora bisognerebbe vederle emergere, protagoniste, queste donne e non relegate al ruolo di comparse o con funzioni di servizio: madri, crocerossine, postine. La storia della Resistenza, delle lotte dopo il 25 luglio e l'8 settembre dovrebbe essere raccontata mettendoci dentro l'infinità di donne che c'era ma non per elencarle burocraticamente ma per intrecciarle col resto, perché hanno avuto una importanza enorme… Non mi sento corporativa; lo dico perché lo so, l'ho visto; anche se ho paura che sia troppo tardi per farlo capire oggi.
Alla fine del '43 i "Gruppi di difesa della donna" ce li siamo inventati dal niente in due o tre donne e il partito si è trovato una organizzazione che neppure immaginava. Ero convinta che le manifestazioni di donne potessero quello che gli uomini non potevano perché loro erano più controllati e comunque perché non se la sentivano. Al partito erano restii, temevano che ci buttassimo troppo, che ci prendessero, che parlassimo. Sono sicura che lo facevano per proteggerci ma oggi vedo in quel comportamento qualcosa di ambiguo. Non è che ci dicessero: si tratta di una azione sbagliata, non è il momento. No. Non ci credevano. Non credevano che noi donne avremmo potuto mettere in difficoltà tedeschi e fascisti non dico per sempre, ma almeno per un bel po', fino a quando avessero capito il gioco. Per tutta la guerra la massa di donne disposta a scontrarsi è stata enorme, molto superiore a quella degli uomini. Avevamo gruppi di caseggiato, di strada: andavamo a prendere la roba nei magazzini. Abbiamo fatto cose incredibili come bloccare trasporti di viveri e ridistribuirli lì, per strada, con la milizia o la GNR che non sapeva che pesci prendere. E noi che quasi ci divertivamo. Li soffocavamo di parole: "siamo le vostre madri, le vostre sorelle, lo facciamo anche per voi, per le famiglie". La donna aveva un potere enorme: non rappresentava una parte ma il tutto; la famiglia e quindi tutti. Eppure di problemi ne avevamo: la casa, il marito, i bambini, la spesa, gli allarmi, la tessera, per non dire che a far da mangiare con niente ci si mette di più.
E' vero: eravamo poco controllate, meno degli uomini. Rischiavamo di più per la spiata dell'amica, della vicina che dal poliziotto. Molti pericoli li sottovalutavamo. A cucire il doppio fondo di molte borse mi ha aiutato una vicina che conoscevo appena. Non aveva figli e un giorno mi ha detto: cucio volentieri, vedo che oltre che dalla famiglia sei presa da tanto lavoro, portami pure qualcosa da fare. E io una volta le ho portato con delle altre cose anche due borse di stoffa per farci quel lavoro lì. E lei lo ha fatto e dopo quella volta gliene ho portate altre, ma non mi ricordo che mi abbia mai fatto una domanda, niente.
Non penso che fossimo irresponsabili e neppure ci sentivamo eroine. Semmai il contrario. È che in molte, non parlo solo delle militanti o delle mogli dei compagni, no, in molte e senza tanto ragionamento avevamo capito che era venuto il momento di uscire. C'erano cose che potevamo e sapevamo fare solo noi e ci siamo accordate per farle. Non mi ricordo che ci dicessimo parole come emancipazione o simili. Però ci eravamo emancipate perché decidevamo per conto nostro e perché improvvisamente abbiamo visto gli uomini in un modo diverso. Forse avremmo dovuto cominciare a dire allora quello che c'era da dire. Ma in quelle condizioni chi se la sentiva?
È anche per quello che non abbiamo detto allora che, già poco dopo la Liberazione, le donne sono state richiuse o si sono rinchiuse in casa. Come se fosse naturale. L'incantesimo dei mesi insieme nella lotta si è rotto. In fondo avevano trasgredito la vocazione domestica. Non avrei mai pensato che per liberare la donna dai fornelli ha contato di più il reddito e il cambiamento del modo di mangiare che anni di lotta. Gli uomini non erano disposti a riconoscerti cariche o poteri. Magari ti davano una delega a rappresentarli in una situazione, per un certo compito ma tutto doveva dipendere da loro. Non era in nome d'una gerarchia militare che in guerra potrebbe anche avere una logica. No, era una gerarchia naturale. Dipendevi da loro e loro ti difendevano o ti attaccavano. Io invece ero convinta, e lo sono tutt'ora, di aver lottato per i diritti di tutti, non solo per le donne, perché ho lottato per il comunismo. A parole era quello che sostenevano anche loro. Dopo la Liberazione dicevano: le donne sono arrivate, hanno ottenuto il voto grazie alle nostre battaglie e alle nostre lotte. Ormai la questione femminile è risolta.
A volte mi chiedo se è stato per questo che tante donne hanno votato DC dando ragione al prete e hanno comunque lasciato la politica. Perché a far politica siamo rimaste poche, sempre meno, quelle che magari in nome delle esigenze di partito accettavano di essere ridimensionate. Ma prima, col pericolo, eravamo state di più, tante di più. C'era la guerra, ma eravamo più libere di fare a modo nostro. Quante volte dopo la Liberazione ho chiesto a dei compagni - poi ho capito che sbagliavo, che non era quella la strada - di portare le loro donne in sezione. E loro mi rispondevano: - Vuoi scherzare? - Io lo sapevo perché dicevano così: perché quelle che venivano in sezione avevano la fama di non occuparsi della casa, perdere del tempo o peggio. - E allora io? - gli domandavo. E loro, ruffiani: "Ma tu sei diversa". Non ci cascavo; sapevo che erano falsi due volte, con le loro mogli e con me.
La verità è che l'uomo fatica ad abbandonare la sua posizione di privilegio (che allora era molto più forte di adesso) perché ha paura. E si può anche capire: la donna è stata il suo somaro per troppo tempo.
Oggi sono orgogliosa dei movimenti femministi. Noi allora non avevamo maturato il senso di autonomia che c'è nel femminismo di oggi. Per noi l'emancipazione dipendeva dal socialismo e dal comunismo e quindi dal partito. La nostra autonomia era sulla carta. Non era un difetto di coraggio o di decisione. Era proprio la visione teorica che ci limitava. Ma per altri aspetti abbiamo fatto cose di cui essere orgogliose. Molte compagne però, madri e nonne, sono restie a parlarne. Non per modestia ma perché hanno difficoltà a riconoscere quello che hanno fatto come una azione politica. E le giovani di oggi pensano che siamo vissute schiave, senza lottare. E ci guardano con compatimento. Non sanno che anche noi abbiamo avuto coraggio e abbiamo combattuto e penato.
Ora ti dirò una cosa che forse non sai. Se guardi le fotografie delle sfilate dopo la Liberazione - ne abbiamo fatte tante sfilate, anche troppe - vedrai che di donne ce ne sono pochissime, a volte nessuna. A parte che c'era un orgoglio militare che non era il mio, almeno in due o tre occasioni però avrei voluto esserci. Ma la consegna del partito, e quindi quella degli uomini, era che le donne non partecipassero. Il motivo, dicevano i dirigenti, era che il popolo, e specialmente le donne, non erano ancora maturi per vedere le donne in strada; ci avrebbero indicato come donne leggere, mondane e il partito ne avrebbe ricevuto un danno. E pensare che dopo il 25 luglio a vedere le donne per strada non si era scandalizzato nessuno! Il fatto è che poco dopo la guerra il consenso attorno al partito è cominciato a diminuire; tra i dirigenti prevaleva la preoccupazione e forse anche per questo c'era il richiamo a sfilare in quel modo militare. Quello sì deve aver fatto paura; altro che le donne!
Anche in montagna il partito, i dirigenti, pensavano a questo modo. Lassù si è parlato più dei miei calzoni che delle scarpe da città di Pieragostini . Guai a portare i calzoni! Il comando Zona aveva emesso in proposito anche un odg che mi è passato per le mani ancora poco tempo fa: solo sottane e ben lunghe, ordinava. Mi ricordo di averne discusso con qualcuno di loro ma finiva sempre che ti dicevano: - Sai, se fosse solo per te allora, ma poi ci sono le altre…- Bisagno era come loro, contrario alle donne nelle formazioni. Una volta ho saputo che ha detto: l'unica donna che potrebbe starci è Marietta. Quando l'ho saputo gliene ho chiesto ragione. Guarda, gli ho detto, che non sono lusingata da questa mezza ammissione a mio favore. Guarda che le altre che sono qui sono donne che hanno lavorato in città, e andare a cercare soldi e roba per le formazioni poteva costargli la prigione o la fucilazione per non parlare delle loro famiglie. Ma lui non si voleva convincere.
Poverini, non avevano il coraggio delle loro decisioni e cercavano di portarmi dalla loro in quel modo lì. Erano terrorizzati dalla moralità, sostenevano che il popolo non era maturo. Io invece sentivo che il mondo era cambiato, stava cambiando e in quel modo lo riportavamo indietro. Noi donne avevamo portato la propaganda e i messaggi del partito col rischio della vita, avevamo fatto la spesa e da mangiare per i clandestini, avevamo affittato le case coperte, avevamo sorvegliato o indagato sul vicinato, avevamo sopportato spiegazioni, racconti e confidenze che duravano ore - per non parlare di proposte più imbarazzanti - e ti venivano a dire che la gente non avrebbe capito. Non erano maturi, erano bigotti, lo sentivo chiaramente ma devo confessare che - forse era la fedeltà di partito - non credevo che le conseguenze sarebbero state così gravi come mi è apparso in seguito. Non era in causa, come credevo allora, solo l'emancipazione delle donne, che pure ce ne sarebbe stato d'avanzo, ma tutta la battaglia per il progresso civile. Non vedevano - posso dire non vedevamo - che il cambiamento doveva coinvolgerci tutti, subito, a cominciare dalle nostre famiglie, mariti, figli. Non si trattava di far propaganda per la libertà sessuale ma per la libertà. Avevano paura dei preti e dopo il '48 molti mi dicevano: - Hai visto, te l'avevo detto, questo è un paese arretrato, ci vorranno anni…- Forse avevano qualche ragione, ma il torto grave era quello di pensare di far concorrenza ai preti sul loro terreno. I preti potevano dare l'assoluzione, noi no.
Così siamo tornate le compagne fedeli e silenziose con le loro attività: "Noi donne", l'Udi, l'8 marzo, le elezioni e le attività domestiche. Lo so che la storia non si fa coi "se" e che tu vuoi solo capire come sono andate le cose. Sono andate così: nel partito l'emancipazione femminile non era una parola, un programma per vincere una battaglia politica. Era l'opposto: qualcosa che poteva farti perdere le elezioni, i voti. Perciò era meglio pensare che sarebbe arrivata, piovuta dal cielo con l'arrivo del socialismo, come un evento naturale, e non parlarne troppo. Io e con me tante altre che pure non eravamo d'accordo abbiamo subìto per fedeltà o forse, ed è ancora peggio, perché anche noi, chiuse all'angolo, abbiamo cominciato a dubitare. Non discutevamo; eravamo compatte, fedeli ed orgogliose di esserlo, al punto di non capire perché le donne piano piano ci abbandonavano. Parlo anche di quelle che ci erano amiche, che ci stimavano. Forse le avevamo tradite.
Non erano solo problemi di generazione. Chi era vissuto sotto il fascismo aveva una mentalità diversa dal dirigente che era vissuto all'estero o in carcere. Esperienze che non collimavano. Io ad esempio avevo conosciuto il fascismo e la Resistenza, i preti, le suore, il lavoro in comune tra uomini e donne mentre i vecchi compagni erano cauti, diffidenti. Una volta, attorno al Cinquanta, era venuta la Ravera a parlare da noi, in sezione, dei tempi dell' "Ordine Nuovo". Così ho saputo che a Gramsci piaceva molto Ibsen e già a quei tempi loro facevano le conferenze sull'igiene sessuale. E da noi pensavano che la donna che andava in sezione era una poco di buono!
Sì, era una donna anche la Rosi, una ragazza, bella, che faceva la spia, e che poi hanno fucilato. A Brugneto, nel rastrellamento d'agosto, era con noi nel bosco, con i prigionieri, ma non mi piace parlare di casi singoli. Non ho paura a parlarne, ma non aiuta a capire cos'era la guerra. Rispondere alle armi con le armi era necessario. Avevamo la speranza che servisse, ma non è che fossimo entusiasti, come spirito. La Rosi l'avevo interrogata anch'io. Era stata l'amante d'un tedesco che l'aveva convinta a farsi lanciare col paracadute oltre la linea gotica per fare spionaggio ma era risultata inidonea fisicamente. Era molto minuta. Allora l'avevano portata in una casa vicino a De Ferrari dove era stata assassinata una donna, una mondana, che tra l'altro da ragazza aveva vissuto a Cornigliano, e sui giornali era uscito che l'assassinio era dovuto al suo mestiere. La Rosi mi aveva raccontato che le avevano proposto di prendere il posto di quella donna perché in realtà non era una mondana - o forse non era solo quello - ma un agente in contatto con gli Alleati e loro si preparavano a occupare la casa in modo da catturare chiunque, a conoscenza del recapito ma non della morte, andasse a trovarla. L'avevano portata lì, col letto ancora sporco di sangue, ma la Rosi gli aveva detto "non me la sento" e aveva scelto di andare col "Peter" la banda pseudopartigiana che girava nella nostra zona . Lei era stata presa per prima, gli altri poco dopo. Era così carina che tutti si erano innamorati. Dopo un po' qualcuno impietosito voleva scambiarla, faceva pena. È stato allora che io ho scritto a Scappini a Genova: - Qui la vogliono cambiare ma questa ci ha visto tutti: Rossi, Pieragostini e tutti gli altri saliti da Genova. Dovete farci un pensiero perché rappresenta un pericolo, sappiatevi regolare. - Se tornava a Genova, dove volevi che andasse; sarebbe tornata dai suoi.
Tutti i compagni erano innamorati di lei. Era davvero bella, fine. Aveva una carnagione delicata e un sorriso malizioso, disarmante. Un comandante voleva sposarla; per redimerla, diceva. Un altro, che aveva combattuto in Spagna, sosteneva che lui ne avrebbe fatto una "pasionaria". Almeno a lui la guerra di Spagna aveva fatto male. Un altro comandante aveva fatto capire che la considerava sotto la sua protezione. E lei sorrideva lusingata, gentile, sempre pronta a dare una mano, anche a me, in qualche lavoro da donna. Era intelligente, osservatrice. Di noi sapeva tutto e quello che non gli dicevamo noi lo chiedeva in giro facendo finta di niente. Il nostro controllo sui prigionieri era ridicolo. Durante la ritirata, alla fine d'agosto, mentre le colonne nemiche ci passavano a pochi metri, due se ne erano andati a dormire in un posto più comodo e dovevamo al loro sonno la nostra salvezza.
Quegli uomini, i miei compagni, mi facevano un po' pena. Tante parole e poi bastava una sottana a metterli nel sacco. No, io non avevo dubbi. Forse al contrario di loro cercavo di non vedere la sua bellezza e la sua giovinezza. In coscienza, dopo che tu già una volta me ne hai parlato, mi sono chiesta se non ci fossero alla base della mia ostinazione sentimenti più oscuri. Mi sono risposta di no. Eravamo tutti alla sua mercé. Io ne avevo paura. Non invidiavo nessuna delle sue qualità che tanto colpivano gli uomini. Per me era già morta. Aveva spiato, tradito la buona fede. Povera ragazza che era già morta dentro. La sfortuna l'aveva fatta arrivare lì ma era così sicura di sé che pensava che ci avrebbe preso in giro ancora una volta. Non me. Mi sentivo più forte di lei e anche di quegli uomini.
Era desiderio di vendetta? Era perché lei era bella e io no? Se non sapessi con che spirito mi viene fatta, la tua domanda potrebbe sembrarmi offensiva. La mia risposta è no ma, in coscienza, cosa vale il mio no? So solo che odiavo le armi e odiavo la morte. Ma combattevo per un mondo dove la vita fosse un valore. Lei era bella ma era per la morte.
Le riflessioni dedicate alla vicenda de "la Rosi" hanno molto stancato Marietta e decidiamo di concludere.
- Ho iniziato la stesura finale della relazione dedicata alla Sesta zona che presenterò in agosto a Cabella Ligure. Ci sarà anche Davidson, l'ufficiale inglese che anche tu hai conosciuto. Magari la prossima volta mi parli un po' delle Missioni alleate lanciate in Zona nel gennaio '45. -
- Io sono qui, se mi telefoni mi trovi, sempre. -
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Manlio Calegari
Cara Marietta, Caro Professore
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Indice
Premessa
4 marzo 1987
12 marzo 1987
20 marzo 1987
Il partigiano Fran
Caro Piero
4 maggio 1987
5 maggio 1987
Pro-memoria
Sestri 8 maggio
13 maggio 1987
Sestri 12 maggio
Sestri 26 maggio
3 giugno 1987
16 giugno 1987
17 giugno 1987
25 agosto 1987
10 ottobre 1987
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