Manlio Calegari, Cara Marietta - Caro Professore: Premessa, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17

Martedì 16 giugno 1987





Ho finito la stesura provvisoria della relazione Storia di un comando partigiano. La Sesta zona operativa. La presenterò il 23 agosto a Cabella Ligure, in piazza, nell'incontro organizzato dall'ANPI della Val Borbera. Nelle intenzioni dei promotori dovrebbe essere un confronto tra protagonisti e studiosi. Ho il compito di introdurre anche se, in verità, sino ad oggi mi sono occupato di storie ben lontane da quella della Resistenza. Ho scritto circa 100 cartelle e dovrò trasformarle in un testo che non prenda più di una ventina di minuti. Molte questioni sorte durante la ricerca restano aperte. Per ricostruire la storia del partigianato sono le storie individuali ad essere importanti. Diversamente fatti, decisioni, gli stessi eventi militari risultano poco comprensibili. Con Marietta dovrò parlare ancora. Ama le affermazioni perentorie ma, come pochi altri, accetta di metterle in discussione.
Le ho telefonato ieri, 15 giugno, e abbiamo deciso di vederci oggi. Le ho promesso che appena avrò finito le manderò il mio lavoro.
- Proviamo a rovesciare le parti, - le dico, - parlami di un fatto che ti piacerebbe raccontare.
- Ne ho così tante di cose… Potrei enumerarti una per una le pietre di quel sentiero dal Becco verso Laccio che ho fatto il 26 luglio del '44 dopo che finalmente ero venuta via da Genova. Arrivare in vista di Laccio e vedere la guerra, come al cinematografo. Un gruppetto armato che si muove attorno al ponte e poi se ne va. Dopo un po' il ponte che crolla, che va giù al rallentatore. E dall'altra parte arrivano i tedeschi, una colonna con dei mezzi, che si fermano, guardano un po' e poi tornano indietro. Quando tutto è finito andiamo avanti noi ed è stato come entrare nel film: i partigiani erano lì davanti a me. Non erano estranei: parlavano il dialetto; due erano addirittura di Cornigliano. In un giorno ero passata da un mondo ad un altro e tutti e due erano miei. Era una sensazione strana ed è durata per qualche ora. Poi finalmente ho capito che Genova era alle spalle e ho pianto, ma da sola. Non era solo il peso della guerra, della cospirazione. C'erano gli anni precedenti, le parole sussurrate, la paura di non vedere la fine del fascismo, di non vivere la gioia per la tua bandiera. A Laccio, quel giorno, ho avuto tutto e di colpo. Come si fa a spiegare quello che si prova! Quei fazzoletti rossi, quegli stracci rossi al collo erano l'inizio della libertà, di una gioia che non sarebbe più finita. Il resto, la guerra, le morti potevano durare ancora, poco o tanto non lo sapevo, ma la libertà era cominciata e non sarebbe finita più. Ne ero sicura. Dopo ho capito meglio che l'idea della libertà me la davano loro, i ragazzi che erano lì. Erano nuovi, freschi come se non avessero vissuto il fascismo. Non è facile dire come erano: io ero più vecchia e loro mi sembravano ragazzotti e se andavano a far qualcosa mi mettevo in ansia. Erano onesti, capaci di maturare, di crearsi un'autodisciplina. Anche il loro rispetto verso la gente, no, non si può spiegare. Io l'ho visto perché ero lì, con loro. A volte mi raccontavano dei loro problemi, della fidanzata, della madre. Qualcuno aveva il problema dell'acne, cose da ragazzi. No, non erano dei soldati, o non lo erano ancora, anche se qualcuno di loro ci teneva a farlo credere. Ma erano seri, consapevoli, disposti verso gli altri. Il dolore di quando cadeva uno di loro era una cosa diversa, viscerale. È una cosa che non è stata scritta e forse non lo sarà mai. Forse la sa solo chi l'ha vissuta o forse ci vorrebbe un poeta. Dico la verità è la cosa più preziosa che ho.-
- Parlami ancora della Marietta che arriva a Laccio. -
- Era una donna in guerra, ecco chi era. Una donna dominata da mesi dal desiderio inconfessato di nascondersi, di scappare. Quel 25 di luglio del '44 mentre salivo verso il Becco e scappavo - perché scappavo - dalla città mi dicevo: qui almeno scapperò da libera. E mi vedevo correre per i sentieri, per i monti, lontana dalla trappola delle strade, degli angoli ciechi, dei portoni dove ogni volta che entravi temevi che qualcuno ti stesse aspettando. Era una donna che non ne poteva più. Era una donna ingenua; non stupida, ma ingenua sì. Lei però non lo sapeva; io, oggi, sì. I ragazzi col fazzoletto rosso mi hanno emozionato ma mi sembravano ragazzi e basta. Potevano parlarmi di sé, dei loro problemi. Non pensavo che potessero dirmi qualcosa di politico. Era la loro umanità che mi prendeva, non la politica. La politica credevo di conoscerla meglio io e più di me tanti miei compagni. Era una donna felice, se la felicità esiste, della felicità che ti fa urlare. In città si taceva, si parlava solo con i pochi che si conoscevano, a volte con cautela anche con loro; si era travolti dal sospetto, dal pettegolezzo, dal "si dice". Se in una strada vicina alla tua passava uno che non conoscevi era allarme. Così per mesi; al punto di non ricordare o di non sapere come si potesse vivere diversamente. Lassù, il giorno che sono arrivata, c'era gente che cantava, camminava con la faccia alta, si chiamava; non solo partigiani ma gente comune, borghese. Guardi e non sai se piangere, ridere, dire anche tu una qualsiasi cosa solo per sentire se la tua voce risuona con le altre e anche tu fai parte del quadro. Ecco chi era quella donna: una che di colpo era uscita da una realtà che neppure sapeva quanto fosse penosa ed era entrata in un sogno che però era la vita normale. -
- Marietta, pochi giorni dopo il suo arrivo in montagna, è a Ottone a organizzare un posto tappa per i partigiani e una infermeria. Molti notano il suo arrivo e me l'hanno descritta come una donna decisa, autorevole, "che metteva a posto tutti"; una "comunista dichiarata", una "che faceva sempre propaganda". Ti riconosci in queste battute? -
- Solo in parte, ma qualcosa di vero ci dev'essere. Più che comandare mi piaceva organizzare. Sapevo come si dovevano fare le cose. Avevo una esperienza come infermiera e come massaia; un reparto ospedaliero è come una casa e so prendere i problemi per il loro verso. Nel settembre del '43 alla caserma di Savona, a incitare gli uomini a disertare e a portar via le armi, sono andata da sola, ma non alla disperata. Al contrario. Sono arrivata sul posto, ho fermato due o tre persone, mi sono organizzata, abbiamo fatto una specie di contraddittorio davanti ad altri, insomma le cose per bene. Organizzare mi piaceva perché mi sentivo capace. E poi, in quei momenti, l'azione era un valore e anche se avessi avuto dei dubbi mi sarei assolta. Nell'azione scaricavo una volontà, una vita, la mia, che sentivo repressa. Non so gli altri ma io avevo proprio la sensazione che il fascismo mi avesse preso la giovinezza. Chissà poi se era solo questione di fascismo. Comunque io nel mio organizzare lassù, più ancora che il partito, ci mettevo il mio passato di donna e di antifascista.
Di fronte alla decisione non mi sono mai tirata indietro; non è questione di convinzioni politiche - quelle le avevamo tutti - piuttosto di carattere. Decidere è una virtù di pochi, pochissimi e non si apprende a tavolino. Per esempio nel partito la capacità di decisione anche allora era modesta: rinvii, verifiche, riunioni ma a saper dirigere erano in pochi. Ce n'era di più tra i partigiani. So di uomini coraggiosi, armati, che si sono trovati sul posto dell'azione col vantaggio di aver scelto il luogo e il momento, rimasti paralizzati con l'arma in mano e sono stati salvati da uno, deciso, che neppure spara, ma solo dice: - Alto le mani! - Lo ammetto: l'uomo di azione mi affascinava, aveva un qualcosa che tante volte ho cercato di capire. Perché gli uomini d'azione sono molto diversi tra loro per carattere, per le azioni che scelgono, per come si muovono. Miro era un uomo d'azione come del resto lo era Bisagno. Non lo era Barontini, mentre a suo modo lo era Canevari anche se era un anziano . Attilio no. Sicuramente avrebbe voluto esserlo ma non lo era; comunque non da azioni militari e penso che lo sapesse. -
- Importante o meno, anche tu riconosci che Marietta era una donna di prima fila. Eppure una delle prime volte che ci siamo visti mi hai detto: "Io non ho fatto mai parte del partito dei delusi" cioè di quel partito che aveva pensato di aver pagato, nella lotta di liberazione un prezzo troppo alto rispetto ai risultati ottenuti. Credevo che chi come te era stato molto coinvolto dalla lotta fosse stato anche più sensibile alla delusione… -
- La lotta armata era la nostra lotta. L'avevamo pensata e voluta con forza, ma lì a combattere c'erano dei ragazzi che chissà cosa avevano pensato fino a due mesi prima mentre i compagni erano a casa, con la famiglia. Io ero tra i pochi che aveva rotto con quell'opportunismo e per me era stato sicuramente più difficile che per tanti altri. Ho sentito anch'io, in modo fisico, doloroso, la sproporzione tra il sacrificio personale - la morte, la menomazione, le difficoltà familiari che lasciano segni indelebili più delle ferite - e il risultato. "Per questo abbiamo penato tanto? Per questo ho accettato di mettere a rischio la famiglia e di vivere nel terrore?" Sono domande senza senso. Penso che se ti metti nell'idea di cambiare il corso delle cose, o anche solo di dirigerle un po', i conti personali non tornano mai e non potrebbe essere diverso. Allora, quando ero più giovane, forse non lo capivo chiaramente ma già pensavo qualcosa di simile. Poi ho capito che quel conto non si può fare o non si può fare così. La tua vita, il poter vivere con i tuoi figli, con tuo marito non ha prezzo e nessuno può chiederti di sacrificarla. Se lo fai è perché, in quel momento, quello è il modo di vivere che hai scelto, di amarli, di essere libera. Non è che decidi che una cosa conta più dell'altra, no. È che senti che quella è l'unica vita che vuoi vivere: così, senza compromessi.
Di fronte a quelli che dicono abbiamo dato molto e in cambio abbiamo avuto poco o niente io dico: abbiamo dato molto e abbiamo avuto molto. Forse non abbiamo saputo spenderlo bene. Ma è una questione diversa. Lo so che molti dei giovani, non quelli della mia età, non hanno trovato dopo la Liberazione quello che avevano sognato in montagna. Ma erano veramente sogni. Come si poteva chiedere che si avverassero? Ma si può raccontare la storia come una delusione amorosa? No, non mi sembra che si faccia una bella figura a fare i delusi. A me il deluso, a meno che non lo facesse per suoi interessi, è apparso sempre uno poco intelligente. Puoi passare una vita a dire che cosa ti sarebbe piaciuto, ma se sei lì devi darti da fare per realizzare e non per rimpiangere. La delusione è una cosa che serve a giustificare solo chi chiude bottega o peggio va dall'altra parte. No, non mi piace.
Il rimpianto è una cosa diversa dalla delusione e poi non è lo stesso per tutti. Ci sono stati giovani che hanno sofferto molto per essere sopravvissuti ai loro amici. Uno che ho conosciuto bene è stato preso da una specie di esaurimento nervoso: rimpiangeva di non essere morto lassù. A volte dietro questi pensieri ce ne sono altri più oscuri. In montagna l'esperienza della morte non era quotidiana, ma un po' tutti l'hanno vissuta. Una volta avevamo un siciliano ridotto malissimo che sembrava che non volesse più morire. A un certo punto, agonizzava già da ore, ha detto che voleva cantare e ci siamo messi a cantare. Poi s'è messo a chiamare sua madre in dialetto. Mi chiedeva di tenerlo stretto. Stringi, stringi mentre il tempo non passa mai. È morto così mentre lo abbracciavo e gli altri attorno, impietriti. Sono esperienze che non ti lasciano più. Sì, proprio come il viso di quel ragazzino delle scarpe e di sua madre povera lei.
Io comunque il senso del cambiamento tra il prima e il dopo l'ho avuto. Credo che dipendesse dai dieci anni di differenza che c'erano tra me e la maggior parte di quelli che stavano lassù; una differenza enorme. Poter andare dove volevi, portare in tasca la tua stampa davanti a tutti, votare, parlare chiaro mi sembravano cose così belle che non ho mai dubitato che fosse l'inizio non dico d'una marcia trionfale, ma d'una marcia inarrestabile sì. Un ritorno alla vita. Non si può capire cosa significa non poter parlare, mai. Per i giovani cresciuti sotto il fascismo le cose erano diverse. Loro parlavano di più, erano più sfrontati e il regime li accettava, ma non sapevano quello che avevano perso solo perché non lo avevano mai posseduto. Invece essere privati della parola è terribile. Piano piano perdi anche il pensiero: se non parli, e non sei un intellettuale che magari scrive di nascosto, finisce che neppure pensi. Tacere era anche una necessità. Se volevi vivere senza angosce di certe cose non se ne doveva parlare in nessuna occasione, mai, neppure in famiglia; i figli non dovevano sapere. Pochi anni di censura, non solo quella dei giornali ma anche quella volontaria di chi sapeva, e il passato era scomparso. Restavano delle voci, qua e là, ma i primi a temerle erano i loro amici. No, non potevo proprio essere una delusa.
Avevo vissuto fin da giovanissima con la sensazione dolorosa che il fascismo mi stesse, ci stesse rubando la vita. Ecco perché la cospirazione mi ha trovato così predisposta, pronta. Si vede che quel poco passato che avevo vissuto era stato sufficiente a farmi sentire sacrificata. Ero certa che la mia generazione aveva avuto uno sviluppo infelice e sentivo di dover recuperare. Si può capire perché dopo - non subito perché è vero che per un po' si è pensato alla rivoluzione - ho sentito che era finalmente arrivato il momento, l'epoca del costruire. Era venuto il nostro momento. Avevamo solo subito un ritardo: in compenso c'era chi aveva già fatto esperienza e ci avrebbe messo sulla strada giusta. Eravamo nello stesso tempo l'inizio di una storia e il suo seguito; i russi l'avevano iniziata, noi continuavamo.
Quando è stato lanciato lo sputnik di Gagarin, ho provato come tanti altri un sentimento di gioia profonda. Era la prova che aspettavamo. Senza dircelo apertamente, ne eravamo in cerca. Progresso tecnico, partito, il sorriso da contadino di Gagarin e noi tutti lassù, con lui. Ce l'avevamo fatta. Cos'erano l'Ungheria, Potsdam e il resto? I sacrifici erano stati terribili ma c'era la prova che erano serviti. Quella sfera per aria ci ha esaltato tanto che non ci chiedevamo neppure a che cosa servisse. Per noi era evidente che era per la pace, per legare le mani all'imperialismo che voleva la guerra. Il centro del mondo abitato si era spostato lassù e al centro di quel centro c'era un russo. Noi stavamo arrivando. Altro che delusione! -
- Dalla cospirazione in città alla montagna coi partigiani: cambia il tuo comunismo? -
- La mia vita di partigiana in montagna è stata molto più facile della vita in cospirazione. In città eravamo circondati da spie. In ogni scala c'era un responsabile di scala, quello degli allarmi, che denunciava chi non andava al rifugio e poi in ogni palazzo c'era un informatore della questura. Noi, in via Pertinace, in una delle nostre residenze "coperte", siano stati segnalati perché eravamo una famiglia "che non corrispondeva all'ambiente", cioè una famiglia di operai in una casa di piccoli borghesi. Uno dei colpi più gravi lo abbiamo ricevuto così, per uno che ha detto: lì c'è gente che non appartiene a questo ambiente. Lì è partita l'inchiesta che hanno preso Villa, Bianchi e per pochissimo non sono arrivati a Scappini.
In cospirazione sei solo, sempre; lassù eravamo tanti, sicuri di vincere; lottavamo contro un nemico visibile, concreto, in una guerra vera. Puoi camminare per ore nella neve, affamata, con i piedi gelati ma è bello perché sei già proiettata nel futuro, nel mondo della giustizia, dove tutti sono fratelli. C'era un desiderio di futuro perché tutti, i ragazzi più degli altri, conoscevano la miseria dello loro famiglie. Parlo di quella morale. Lassù erano trattati da adulti, comandavano, vivevano, assaporavano la libertà. A casa invece…
Ancora stamattina, mentre aspettavo di vederti, mi chiedevo perché col passare degli anni, specie gli ultimi, mi sono gradualmente convinta che la mia storia giri attorno a quei pochi mesi in montagna. In quei mesi è finita una Marietta e ne è cominciata un'altra. Prima invece vedevo le cose un po' diversamente. Lassù ho provato grandissime sofferenze e grandissime gioie. Chissà com'è possibile il convivere di certi sentimenti; perché realmente convivevano. I dolori non erano quotidiani ma quasi e per me c'era stabile quello della mancanza dei figli, ma quotidiana era anche la gioia che veniva dalla libertà di essere lassù.
La vita, nelle condizioni normali, è fatta di tanti piccoli gesti quotidiani e di sentimenti contrastanti. In cospirazione invece la vita sta solo in un gesto, nell' attimo che si rinnova di continuo e che, almeno in me, aveva solo il segno della paura. Sapevo vincerla, ero in gamba, ma non riuscivo a cancellarla. Un passo, un tram sbagliati e la vita se ne andava. La montagna era diversa: c'era dolore, sofferenza ma anche gioia. Come nei romanzi dove non puoi separare il bello dal brutto, le lacrime dal riso. Sentimenti contrastanti ma sempre decisivi: il segreto della vita è farli vibrare tutti insieme, come corde, contemporaneamente. Ecco perché lassù in così poco tempo ho avuto tutto. E perché sarei felice se potessi restituire o dare almeno qualcosa di quello che ho ricevuto allora.
Poi, si capisce, c'è la giovinezza che fa la differenza. Se sei giovane hai più voglia di ridere o può capitare, come è successo a me, che sotto un bombardamento ti fermi a fare un mazzolino di viole. O se sei a piedi su una strada, magari con un messaggio nella borsa, chiedi un passaggio a un camion tedesco. L'ho fatto anch'io una volta e poi ho tremato quando ho saputo da Batista che quelli della Balilla assaltavano spesso i camion che si muovevano da soli e non facevano prigionieri, neanche se erano civili.
Ormai conosci la mia vita dall'infanzia ma la donna che sono oggi è nata lassù, in pochi mesi. In condizioni così speciali, così impreparati come eravamo, ho scoperto che nell'uomo, in noi, esiste quello che ci fa sperare. Ma ci ho messo ad accorgermene! Forse perché noi comunisti avevamo un rapporto strumentale col movimento partigiano; molto strumentale. Anche in seguito c'è stata molta retorica. I vecchi, gli antifascisti che durante il fascismo avevano tenuto la testa alta sono stati un seme importante della Resistenza, ci hanno ricordato il valore delle parole. È un merito che non gli va tolto. Ma a Genova come altrove non è stato dato il giusto valore a questi giovani che pur provenendo dal mondo informe e corrotto del fascismo sono stati capaci di interpretare ideali così nuovi, alti, belli. Il partito comunista non è riuscito a capire a fondo o forse ha temuto di perdere delle posizioni di fronte a chi in montagna aveva superato prove difficili con sacrifici d'ogni genere.
- Questa però, Marietta, si chiama delusione. Allora il partito ti ha deluso? Non ha capito i partigiani? -
- Per me il partito era l'approdo della ribellione e del mio bisogno di organizzazione. Era quello che volevo. Il partito ha trasformato il quotidiano, spesso misero, di persone come me in una realtà straordinaria, in una infinità di azioni importanti. Poteva essere la diffusione del giornale, la sottoscrizione, l'affissione, le scritte, le riunioni, la biblioteca, la festa, i dibattiti. C'era il miraggio della vittoria finale, ma anche un quotidiano politico ricco. Non è che stessimo lì sulla riva del fiume ad aspettare il passaggio del cadavere del nemico. Ogni giorno vivevamo piccole o grandi battaglie con sconfitte e vittorie. Era quello che ti permetteva di sopportare l'attesa o di giustificarla. Almeno per vent'anni abbiamo dato la nostra vita, tutta, e guardavamo con sufficienza, anche con sospetto, chi si tirava indietro o metteva la sua vita privata, anche solo per poco, davanti al partito. Chi non reggeva, si allontanava o ricorreva a delle scuse era guardato con compatimento: poverino, si diceva, non ce la fa. Eravamo fatti così, penetrati dal senso del dovere anche se ci sfiniva. Sbagliavamo ma capisco che era difficile essere diversi.
No, il partito non ha accolto bene i partigiani. Quelli di noi che nella lotta, in montagna avevano acquistato un certo prestigio e quindi potevamo dar fastidio sono stati emarginati a vantaggio dei vecchi che sentivano minacciata la loro posizione. Erano stupidi perché né io né Attilio, tanto per fare dei nomi, l'avevamo né mai l'avremmo messa in discussione, ma loro non hanno capito o non hanno voluto capire. Così è stato con molti altri uomini di valore. Finita la guerra nel partito è cominciata la resistenza alla Resistenza e piano piano ci hanno messo fuori tutti. Avevamo un grande ascendente sulla gente, eravamo noi il partito nuovo, ma ci hanno messo fuori.
Io sono stata addirittura eletta alla Costituente. Avevo preso una quantità di voti che neppure sognavo. Tantissimi sulla scheda avevano scritto "Marietta" e la legge già allora prevedeva che la preferenza fosse convalidata quando non c'erano dubbi sulla volontà espressa dall'elettore. A casa mia è venuto perfino un rappresentante della Prefettura - la Prefettura ci teneva perché avrebbe avuto un rappresentante in più nella sua circoscrizione - a dirmi che io ero stata eletta, che avevo un gran numero di preferenze e di farle valere. Ma ho avuto contro gli stessi rappresentanti di lista del partito. Io ne ho parlato ad Attilio e lui mi ha detto: - Lo so, ho anche litigato per questo. - Poi per tenermi buona mi hanno mandato Barontini perché eravamo amici, partigiani insieme, lassù. Mi ha detto che se fossi stata eletta io, Spezia non avrebbe avuto rappresentanti, mentre c'era una che volevano far eleggere. Certo che potevo fare ricorso, ma non mi ritenevo così importante e neppure una donna da Costituente. Conoscevo bene i miei limiti. So che Attilio aveva protestato. Non era giusto, aveva detto, andare contro l'elettorato. Ma era già tutto deciso. Pessi mi ha mandato a dirigere una cosa che si chiamava "Salviamo i bimbi d'Italia", che non aveva nessun senso se non per darmi uno stipendio e tenermi buona ma non ci sono stata e mi sono cercata un altro lavoro. So che il natale del 1950 eravamo quattro in casa, tutti disoccupati e sul tavolo avevamo solo polenta. Ma non ero pentita.
Più comunista o più partigiana? Ho pensato per anni in coscienza che erano tutt'uno. Il comunismo era il punto di arrivo del mio antifascismo e contiene tutto il mio passato. Ma essere stata partigiana ha significato cambiare dentro. Dico la verità: la mia vita è una povera vita, come quella di tanti altri, però non c'è una cosa della quale io sono fiera come di essere stata partigiana. Se dio c'è quando mi presenterò a lui dirò, come Cirano che si era presentato col suo naso, il suo pennacchio: - Ecco, io sono stata partigiana! -
La citazione da Rostand è arrivata a sorpresa in un crescendo teatrale. C'è un momento di silenzio. Marietta è commossa e lo sono anch'io. Poi riprendiamo.
- In più occasioni sei andata a parlare nelle scuole. Sei stata costretta a specchiarti negli occhi dei ragazzini o nelle parole dei loro insegnanti. Cosa hai visto? -
- Si, ne ho fatti molti di incontri. Andavo con entusiasmo. Ci so fare abbastanza e sono stati quasi sempre un successo. Non li ho annoiati; mi hanno sempre fatto molte domande e chiesto di ritornare. Da una volta all'altra ho cercato anche di aggiustare il tiro, di migliorarmi. Ma se devo dare un giudizio di insieme credo che a loro sia andata meglio che a me. Uscivo e mi domandavo se avevamo vissuto nello stesso paese. Ci sono momenti della tua vita che ti sembrano così importanti che neppure immagini che si possa vivere senza conoscerli o ricordarli. Invece è normale. In fondo, ai miei tempi, cosa sapevo io delle trincee dove erano morti i soldati a centinaia di migliaia? O di cosa avevano raccontato quelli di loro che erano tornati a casa? Niente. Ci riempivano di militi ignoti e basta. Ne so certamente più oggi. Ma qui Resistenza voleva dire lotta al fascismo, libertà di parola, di riunione, democrazia, Costituzione, la vita normale di ogni giorno, la loro stessa vita scolastica; normale, ma conquistata con le armi. Perché prima non c'era, anzi c'era il contrario, e la Resistenza era stata la lotta per tornare a vivere in democrazia. Idee elementari che nelle scuole dove mi chiamavano, salvo rarissimi casi, erano sconosciute. Non dico tra i ragazzi ma tra i loro insegnanti; anche se facevano di tutto per farmi capire che loro sapevano. Io potevo anche raccontare cosa avevo visto o fatto, ma quella non era storia; era una testimonianza, importante finché vuoi, ma non storia. La storia toccava a loro, ai professori. Ti sembrerò immodesta, ma nelle loro parole non ho sentito quasi mai il senso semplice e importante della guerra di liberazione. Più di una volta sulla via del ritorno, pensando a quelle professoresse e a quei ragazzi, ho sentito di essere stata più fortunata di loro, di aver goduto di un privilegio. Anche a loro, come a tutti, il mondo offre delle prove ma forse devono impegnarsi a cercarle. Chissà che per me non sia stato più facile. Io avevo visto una strada e ci avevo camminato. La mia strada, il mio sogno era stata la libertà; è stato il sogno di sempre. Anche di oggi credo. Ma per loro, che strada c'è? -




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Manlio Calegari

Cara Marietta, Caro Professore

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Indice
Premessa
4 marzo 1987
12 marzo 1987
20 marzo 1987
Il partigiano Fran
Caro Piero
4 maggio 1987
5 maggio 1987
Pro-memoria
Sestri 8 maggio
13 maggio 1987
Sestri 12 maggio
Sestri 26 maggio
3 giugno 1987
16 giugno 1987
17 giugno 1987
25 agosto 1987
10 ottobre 1987


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