Elisabetta Graziosi, Cesura per il Secolo dei Genovesi: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.





Peregrini a Genova, Mascardi a Roma

Che pensare di un contrasto che opponeva l’ex gesuita, ex segretario, ex Addormentato al rampollo rampante di una delle famiglie su cui si costruivano le glorie genovesi? il nuovo principe degli Addormentati attorno a cui andava riorganizzandosi l’Accademia rappresentativa della cultura genovese? figlio di un doge in carica e in predicato per essere lui stesso doge a tempo debito? Io credo che il peso in termini di potere politico fosse sbilanciato a favore di Anton Giulio e che proprio a questo contrasto si debba collegare l’improvvisa chiamata di Matteo Peregrini a Genova dove il Bolognese giunse per lo meno alla fine del 1636 (quando Giovan Francesco Brignole era in carica già da più di un anno) visto che il suo nome compare fra quelli degli inquisitori che approvarono la prima edizione della Maria Maddalena del Brignole Sale.[1] E penso anche che al Bolognese fu delegato in parte l’incarico, certo non formalizzato, di coprire il fianco all’attacco fornendo gli argomenti alla letteraria difesa del partito dei “giovani”. Matteo Peregrini giungeva infatti dalla Roma barberiniana e filofrancese con cui non soltanto Anton Francesco Brignole, ma in generale tutto il partito dei giovani repubblichisti (non ultimo Giovan Battista Raggio maritato ad Aurelia Brignole) aveva ottimi rapporti. Viceversa il passaggio del cardinal Maurizio di Savoia al servizio della Spagna aveva messo il suo protetto Agostino Mascardi nella difficile condizione di un nuovo voltafaccia politico. Era un momento di crisi politica e non solo letteraria, e Matteo Peregrini adempì eccellentemente al suo ruolo, in maniera così oculata e soft che tuttora si stenta a vedere la trama e gli obiettivi della polemica.[2] Genova ne era l’epicentro, mentre Roma e Bologna rappresentavano due diverse tavole di valori fra loro concorrenziali. I Genovesi interrogavano, chiedevano, proponevano la questione nell’àmbito empirico del gusto, mentre la risposta veniva data magistralmente da due diverse cattedre. È una coralità di interventi insieme concertati che mi pare sia finora sfuggita alla critica e di cui è poco dire (come si usa) che non si è ancora fatta la storia, se non si aggiunge che sarebbe importante pur farla. L’intervento del Mascardi, realizzato a caldo in una digressione dell’Arte istorica lunga quanto un trattato, era stato provocato da una lettera dell’Assarino. Al trattato Delle acutezze del Peregrini porse occasione ufficiale una lettera dello scienziato e monaco olivetano Vincenzo Renieri, un altro nome genovese poco noto alle storie letterarie ma che pure riporta all’interno dello stesso gruppo aristocratico radunato attorno al Brignole.[3] Nella lettera, pubblicata in apertura delle Acutezze, il Renieri, reduce da lunghe permanenze in Roma e in Toscana, e quindi (tatticamente) estraneo al nuovo gusto cittadino, rilevava una molteplicità di abusi nella scrittura e chiedeva al Peregrini un giudizio sul moderno uso delle acutezze. Citerò la lettera per intero perché quel che qui interessa non sono le soluzioni, che poi vennero, ma il gioco di interazione fra i diversi interventi:

Ma tralasciata per ora la moltitudine degli accennati abusi, che pare a V.S. delle tante acutezze, o spiriti nello scrivere d’alcuni moderni, e particolarmente romanzatori, largamente introdotte? Io per me, qualunque volta per mia disgrazia inciampo in così fatte composizioni, e veggio che, posto da parte ogni studio della più soda eloquenza, al solo brillar di questi spiriti sono rivolti, non mi risolvo se ingegni spiritosi li chiami o spiritati, e parmi a punto che e’ loro autori abbiano sortita la semplicità di que’ fanciulli che, tutto che ‘l cielo arda di così vaghi lumi nel tempo della sera, non alzano ad ogni modo pur uno sguardo ver quella parte, intenti solo a correr forsennatamente dietro allo sfavillar delle lucciole. Desidero pertanto, prima d’ogni altra cosa, che se in ciò pare a lei ch’io vada ingannato, resti servita di levarmi dagli occhi queste traveggole, ed ispiegando che cosa siano questi spiriti o vivezze, m’accenni se crede che con tanta frequenza debbano ammettersi nelle buone scritture, con tutto quello che di più le parerà opportuno soggiugnere in questa materia, etc. [4]

Del Brignole, che era in quel momento certo a Genova (insieme ad Assarino) il “romanzatore” più famoso, non si faceva parola. Ma pare improbabile che il Renieri con questa mossa, evidentemente concertata, volesse esporre alla pubblica censura il nome di uno degli esponenti del partito dei giovani repubblichisti in cui lui stesso militava,[5] mi sembra più probabile anzi che (vista la reazione del Mascardi) andasse a caccia di alleati per formularne la difesa. Sta di fatto che il Renieri non reputava affatto difettoso lo stile del Brignole Sale, allora alle prime prove editoriali. Ritornato nel 1634 in patria dopo una permanenza in Toscana, l’olivetano genovese aveva infatti dedicato la tragedia Adone proprio ad Anton Giulio, con alti elogi politici e poetici, che giungevano fino ad augurargli il dogato. Così e ben iperbolicamente infatti nel prologo della tragedia parlava l’Aurora, annunciando a Genova un più lungo giorno: « Sì ben riconosco / la maestà regale / del sembiante divin; Giulio tu sei, / che da le muse amiche / cinto d’eterni allori / mi rassembrasti Apollo. O fortunata / s’esser potessi ancora / del tuo splendor l’aurora ».[6] È evidente che Renieri era schierato letterariamente e politicamente con Brignole Sale, così come con Brignole Sale doveva essere schierato il filobarberiniano Matteo Peregrini, convocato a Genova durante il dogato del filobarberiniano Giovan Francesco Brignole, padre di Anton Giulio.[7] Tutto induce a credere insomma che sotto l’apparente richiesta di arbitrato proposta al “savio” bolognese, promosso nelle corti genovesi dei nuovi prìncipi di repubblica, si celasse la volontà di dare un fondamento teorico al gusto delle acutezze che ormai a Genova era di casa. Non censura quindi né contraddittoria ammirazione per le acutezze ingegnose,[8] quella del Peregrini era un’ampia opera di sistemazione teorica all’interno della tradizione retorica, che poteva competere con quella che dalla cattedra romana della Sapienza aveva dato il Mascardi. E infatti dal Mascardi (oltre che dal gesuita Caussin) partiva il Peregrini nel suo trattato rifacendosi a coloro che delle acutezze, sia pure con limitazioni e censure, nel silenzio dei retori avevano dato una trattazione teorica:

Finalmente, ragionando io talvolta con persone letterate di questa materia, e chiedendo loro se avessero notizia di scrittore antico o moderno che l’avesse trattata, alcuno mi ha risposto ch ‘l Signor Agostino Mascardi ne ha tenuto discorso nell’Arte istorica: mossi peravventura a così dire perché, dove egli fa digressione contra l’uso delle clausole brevi, entra nel ragionamento col dolersi che oggidì si rivolgono le penne degl’ingegni alle acutezze; o pure perché, dove parimenti si riscalda contra l’uso delle sentenze, reca molto spesso luoghi d’autori ne’ quali la parola sententiae non significa proposizione morale, ma, sì come generalmente l’usano Petronio, Seneca e gli altri latini, significa un senso strettamente vibrato.[9]

Punto di partenza del Peregrini erano dunque le censure del Mascardi alle acutezze contenute nell’Arte istorica, di cui si dichiarava però la non pertinenza attraverso una serie di distinzioni che miravano a minimizzarne la portata, anche se rimaneva pur sempre il fatto che il trattato delle Acutezze era in certo modo, a distanza di soli tre anni, e proprio da Genova che l’aveva provocato, una risposta all’attacco inflitto da un Ligure ormai famoso dalla cattedra romana.[10] Bolognese di provincia, educato alla scuola universitaria dell’Atene d’Italia,[11] fondatore a Bologna della modernizzante Accademia della Notte di cui facevano parte Claudio Achillini, Andrea Barbazza, Cesare Rinaldi (un campionario di seguaci e ammiratori del Marino),[12] legato di amicizia e di stima a Giovan Battista Manzini al di là della polemica sull’intellettuale cortigiano, ammiratore del Malvezzi, dottore in teologia, in filosofia e anche in giurisprudenza (secondo la tradizionale formula d’eccellenza dell’Università bolognese: utriusque iuris doctor), Matteo Peregrini era l’uomo giusto per una difesa dei moderni fatta a colpi di citazione degli antichi.[13] Mascardi accusava i modernisti di essere non più che scolaretti rivenditori di polyantee? Ecco pronto il Peregrini per fondare sulle auctoritates le acutezze mostrando nel contempo di moderarle col richiamo alla tradizione. Mascardi diffidava dell’ingegno e invocava il giudizio? Ecco il Peregrini sistematizzare la nozione d’ingegno, facendolo coincidere con l’intelletto,[14] e sottoponendolo alla normalizzazione dell’arte che implica pur sempre il giudizio. Il Mascardi vantava la sua figura di uomo prudente contro le frascherie dei “giovani”? Ed ecco il “savio in corte” in persona rispondergli mostrando di non disdegnare il discuterne. I genovesi erano stati tanto abili da cercarsi un alleato proprio all’interno del gruppo romano del Mascardi, perché un discorso del Peregrini Che ‘l dir male non è in tutto male era stato raccolto fin dal 1630 fra i Saggi accademici recitati nell’Accademia del cardinale Maurizio di Savoia.[15] L’eccellenza dell’ingegno del Peregrini vi aveva avuto così una attestazione pubblica proprio per mano del Mascardi: per questo ora la difesa delle acutezze poteva svolgersi fra pari grado. Dando il massimo del volume alla lettera del Renieri ed iperinterpretandone le cautele di moderazione (ma in quale dei barocchi più spericolatamente ingegnosi non si trova la censura degli eccessi?), del bolognese Matteo Peregrini si è forse sopravvalutato fino ad ora il ruolo di moderatore del barocco alla cui scuola si sarebbe placata la bizzarria degli Addormentati, a cominciare dal Principe dell’Accademia, su cui, a parere di qualcuno, il Bolognese esercitò un influsso decisivo fino a indurlo a una sorta di conversione etica e stilistica.[16] Si è così passato sotto silenzio il grosso impegno di sistematizzatore dell’ingegnosità, di primo teorico dell’acutezza, ancora prima di Baltasar Gracián, attraverso cui si opera il ponte di congiunzione fra l’uso moderno e quella retorica antica di cui il Bolognese continuava a proclamare l’esemplarità ma anche la frammentarietà, la casualità, il disordine riguardo a questo argomento di “moderni”.[17] Delle acutezze il Peregrini voleva essere il teorico e per questo la maggior parte delle ragioni rientrava nella ragione più generale che dell’arguzia si potessero dare norme, esempi, modelli, e che al gusto dei moderni si potessero prescrivere canoni che non fosse quel successo di pubblico cui si era richiamato il Marino e insieme a lui i marinisti della difesa dell’Adone.[18] Stabilendo dieci classi di acutezze viziose e ben venticinque cautele nell’uso delle acutezze il Peregrini intendeva dare regole selettive al gusto del pubblico e non elevarlo a canone di giudizio, richiamando l’insegnamento degli antichi nello stesso tempo in cui riconosceva insufficiente anche quello dei moderni. Era un intervento svolto soprattutto sul piano teorico, che era quanto si richiedeva a un « bolognese di Theologia, Filosofia, e dell’una e dell’altra legge, Dottore » da contrapporre a quella celebrità sulla cattedra della Sapienza che era il Mascardi.
La moderazione del moderato Peregrini non consisteva quindi in una consistente riduzione quantitativa delle acutezze, come ancora molti continuano ad interpretare, ma nel diverso peso attribuito all’esemplarità degli antichi del fondare una teoria dell’acutezza appoggiata non solo al successo dei moderni.[19] Al moderno Brignole Sale il moderno Peregrini approntava una batteria difensiva di tutto rispetto, mostrando che la teoria degli antichi non solo era lacunosa ma si poteva perfezionare, dando norme flessibili più di quanto non facesse pensare la dovizia delle citazioni latine e senza invocare a giudice unicamente il successo di pubblico: questo è il solo argomento veramente e spregiudicatamente moderno che nel Peregrini non si trova, che è anche la ragione fondamentale del suo arruolamento nella linea moderato-barocca. Per queste ragioni ideologiche e anche strategiche, ma solo per queste, un barocco moderato (come il Peregrini) poteva stare dalla stessa parte di uno spericolato sperimentatore barocco (come il Brignole Sale) che del successo di pubblico non aveva fatto un preciso obiettivo, anzi non se l’era mai posto. Seguendo strade diverse nell’accreditamento delle acutezze, Brignole e Peregrini s’incontravano poi concretamente sul terreno del gusto,[20] tanto che nelle due opere uscite a Genova contemporaneamente nel 1639, il Carnovale di Anton Giulio Brignole Sale e il trattato Delle acutezze che altrimenti spiriti, vivezze e concetti volgarmente si appellano di Matteo Peregrini, il campione del gusto moderno proposto da entrambi gli autori è lo stesso: Ottavio Grimaldi, accademico Addormentato, presente in una come autore di otto concettosissimi e arguti madrigali, e nell’altra come oratore di una acutissima orazione di riuso accademico sul caso di Federico degli Alberighi[21]. Che la scelta del Peregrini coincida con quella del Brignole Sale è tanto più stupefacente perché non sarebbe mancato a un barocco moderato un esempio di classicismo barocco da cogliere sul territorio genovese con la produzione del Chiabrera morto da appena un anno e con una messe di rime inedite rimaste in mano di amici e patroni, a disposizione degli ammiratori e del futuro pubblico d’Arcadia.[22] Bisogna ammettere così che il classicismo barocco del Chiabrera, quello che cinquant’anni più tardi sarebbe sembrato esemplare in Arcadia, al teorico bolognese del maturo Seicento non sembrava affatto degno di menzione speciale e il suo gusto si orientava invece verso le acutezze dei moderni di cui il marchese era promotore e propagandista. È questa fra Peregrini e Brignole Sale una coincidenza troppo importante ed eloquente per essere lasciata, in quella data e in quell’ambiente, alla pura casualità di una compresenza cittadina. Né si può tralasciare di dire che alla scelta di gusto in entrambe le opere si associava probabilmente una scelta politica convergente nel progetto dei “nuovi”: Ottavio Grimaldi aveva infatti pronunciato, per l’elezione dogale di Agostino Pallavicino, a favore degli “innovatori” un’orazione dai tratti fortemente ingegnosi che, pubblicata nel 1638 dal Pavoni, era sotto gli occhi di tutti.[23] C’era dunque collegamento fra il Peregrini e il Brignole Sale sul piano politico e nello stesso orientamento letterario, collegamento tanto più forte quanto meno fu esibito, tanto che ancora adesso è difficile ricostruirne la storia.
Pubblicati nello stesso 1639 il trattato Delle acutezze e il Carnovale propagandavano dunque in realtà lo stesso personaggio come incarnazione dell’acutezza cittadina e della socievolezza dei salotti della Repubblica. Ma forse nella storia di questa strana contemporaneità fra due opere che si riferiscono chiaramente a Genova e al gusto genovese dell’arguzia e che pure apparentemente e stranamente si ignorano, si può spigolare ancora qualcosa nel quadro della ristretta classe di governo della Genova primo-secentesca. Si dovrà riconoscere così che qualche riferimento esterno allora ben decifrabile e significativo rischia di sfuggire se insieme alle dediche dei libri non s’interpretano i fitti rapporti di parentela fra i personaggi. L’“illustrissimo signor” Filippo Adorno cui sono dedicate Le acutezze aveva stretti legami parentali con Anton Giulio: era infatti fratellastro di sua moglie, Paola Adorno Brignole, e fratello di Emilia Adorno Raggio, la cognata pianta nelle rime del 1634.[24] Emilia, Paola, Filippo Adorno erano dunque tutti e tre figli di Giovan Battista Adorno anche se di madri diverse e tutti erano collegati con vincoli multipli alla famiglia Brignole. Dedicando a Filippo Adorno (cognato di Anton Giulio) questo trattato tutto genovese, Matteo Peregrini ne tesseva gli elogi individuali e di stirpe: lodava la « gentilezza de’ suoi costumi » e la « sublimità del suo merito » mentre si protestava « divoto della sua persona e parziale della sua casa, a tutto il mondo e per tutti i secoli ».[25] Si trattava di una sorta di consacrazione ufficiale tanto più rilevante perché Filippo era da poco entrato nella vita pubblica da quando, nel 1638, era stato ascritto alla nobiltà insieme al fratello Michele. Sono fenomeni che possono sfuggire oggi all’occhio troppo neutro con cui leggiamo questi testi: come se fossero stati scritti per il pubblico anonimo della società di massa. Non era così nella Genova secentesca, abituata da un cinquantennio a un solo editore, alla stampa come evento cittadino per un pubblico limitato, anche se il monopolio del Pavoni era oramai giunto a scadenza. Si trattava in realtà di un trattato “in famiglia” in cui, anche se il Brignole non era citato direttamente, era presente per evocazione famigliare, per allusioni interne, per atmosfera: insomma il mondo delle acutezze era il salotto buono della società genovese fra Brignole, Adorno, Doria, Imperiale, Raggio, Lomellini che aspirava a trasformarsi in corte dandosi uno stile diverso da quello romano e il Peregrini, con la sua auctoritas accademico-universitaria, gliene offriva gli strumenti.
Ad accomunare le Acutezze e il Carnovale vi è comunque ben più che una dedica in famiglia che pure ben vale in una società di fazione come quella genovese, in cui, per dirlo con le parole del Peregrini, dedicare un libro era di per sé prendere partito in una città di fazioni, ovvero « prendere un marco pubblico e perpetuo di parziale rispetto al personaggio cui dedichi il libro, e per conseguente un farti per sempre odioso a tutti coloro che per genio, per fazione, o per altra cagione sieno al dedicatario poco amorevoli ».[26] La somiglianza fra l’opera-trattato e l’opera-carnevale è, come si è detto, anche nel modello proposto. Almeno nel 1639 e nel caso singolo ma significativo di un aristocratico come Ottavio Grimaldi, ben vivo e presente nel mondo cittadino, il giudizio del Peregrini coincideva con quello di Anton Giulio, la lode data da Anton Giulio traboccava nel testo del Peregrini e dalle pagine delle Acutezze ritornava circolarmente al Carnovale e a chi di quel testo era autore, di quell’Accademia era mecenate, di quel personaggio era famigliare ed estimatore. Una ragione in più per vedere nel trattato del Peregrini non già la censura dello stile del Brignole Sale, ma una sia pure moderata consacrazione delle arguzie comprovata da una selva di auctoritates. A quell’altezza e in quell’area geografica il trattato di Matteo Peregrini non intendeva essere una censura della nuova moda delle acutezze e del parlar spezzato ma viceversa la difesa del nuovo gusto che proprio a Genova e da un quasi genovese era stato censurato gravemente.
Si trattava insomma del tentativo di alzare di un tono l’ambiente cittadino sul palcoscenico internazionale trasformando i salotti in corti, i cavalieri in prìncipi così come dichiarava l’autore preannunciando al lettore dopo le Acutezze la Politica massima: « Se poi ti prendesse maraviglia che le mie opericiuole non come prima a’ prencipi, ma più tosto a Cavaglieri, come quella della Politica massima al Signor Giovan Battista del Signor Giovan Vincenzo Imperiale e la presente al Signor Filippo Adorno, io mi abbia donate, posso risponderti che i Cavaglieri di questa regia Repubblica Genovese debbono ancor essi prencipi appellarsi, e stimarsi ».[27] Matteo Peregrini era evidentemente un intellettuale di regime il cui compito era anche dar lustro alla nuova ideologia di una Repubblica che si era da poco attribuita il titolo regio, per questo è illusorio attribuirgli un ruolo letterario che non poteva competergli. Non come riformatore dunque, ma come fiancheggiatore il Bolognese si trovava a Genova fra gli Addormentati. Anche questa dedica lo dichiara ufficialmente. Giovan Battista Imperiale (figlio di Giovan Vincenzo e nipote di Bartolomeo, co-rifondatore degli Addormentati) e Filippo Adorno, cognato di Anton Giulio, non erano se non le controfigure dell’“ingegnosissimo” per eccellenza: Anton Giulio Brignole Sale.




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[1] Quinto Marini, Anton Giulio Brignole Sale gesuita e l’oratoria sacra, in I Gesuiti fra impegno religioso e potere politico nella Repubblica di Genova, numero tematico di “Quaderni franzoniani”, a. V, n. 2, 1992, p. 147. Da una lettera di Pier Francesco Minozzi del 18 gennaio del 1637 il Peregrini risulta già a Genova, in contatto col Brignole cui risulta legato per qualche progetto: « Mi avvisi cotesto Signor Matteo Pellegrino che persona sia, di che paese, e che cosa faccia col Signor Brignole », vd. Michele De Marinis, Anton Giulio Brignole Sale e i suoi tempi, cit., p. 271. Pongono l’inizio del soggiorno del Peregrini a partire dal 1637 senza precisarne la data l’erudito bolognese Giovanni Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, vol. V, Bologna, S. Tommaso d’Aquino, 1786, pp. 331-33 e più recentemente Marina Terzoni, Per la biografia di Matteo Peregrini, in “Critica letteraria” a. XVII, fasc. II, n. 53, 1989, pp. 217-32. Il particolare non è comunque irrilevante se, come penso, proprio all’iniziativa del doge Giovan Francesco Brignole e di Anton Giulio si dovette la chiamata genovese del Peregrini.

[2] Sulla contraddizione, irrisolta nell’opera del Peregrini, fra sdegno per le eccessive acutezze e scrupolosa descrizione delle tecniche della pointe, di cui i critici si sono rifiutati di trarre le conseguenze, vd. le giuste considerazioni di Mercedes Blanco, Matteo Peregrini: la mauvaise conscience du conceptisme, in Les Rhétoriques de la Pointe. Baltasar Gracián et le Conceptisme en Europe, Genève, Slatkine, 1992, p. 229. Credo che questa ricostruzione dei fatti che portarono il savio bolognese alla composizione genovese delle Acutezze, possa fornire la chiave storica e interpretativa del problema.

[3] Sul Renieri vd. Antonio Favaro, Amici e corrispondenti di Galileo, a c. e con nota introduttiva di Paolo Galluzzi, Firenze, Libreria editrice Salimbeni, 1983, vol. I, pp. 471-522.

[4] Matteo Peregrini, Delle acutezze che altrimenti spiriti, vivezze e concetti volgarmente si appellano, trattato del sig. Matteo Peregrini bolognese di teologia, filosofia e dell’una e l’altra legge dottore, in Genova e in Bologna, presso Clemente Ferroni, 1639 (ma citerò qui e altrove dall’edizione a cura di Erminia Ardissino, Torino, Res, 1997, dove il brano si trova alle pp. 9-10)

[5] Documenta l’impegno politico del Renieri in quegli anni, all’interno del gruppo dei giovan repubblichisti, l’Orazione di D. Vincenzo Renieri monaco olivetano, che si trova in La coronatione del serenissimo Gio. Battista Durazzo, in Genova, per Gio. Maria Farroni et Pier Francesco Barbieri [1640]; di cui vi è anche una edizione autonoma: Vincenzo Renieri, Orazione per la coronazione del Ser. mo Gio Battista Durazzo Duce dell’Ecc. Repubblica di Genova, Genova, Gio Maria Farroni, Nicolò Pesagni e Francesco Barbieri, 1640. Su Giovanni Battista Durazzo, che fu in corsa per il dogato nel 1627, nel 1631 e nel 1635 prima di essere eletto nel 1639, vd. DBI, vol.XLII, 1993 (C. Bitossi)

[6] Vincenzo Renieri, L’Adone favola tragica boschereccia, in Genova, Pietro Giovanni Calenzano, [imprimatur giugno 1635], pp. 10-11, su cui vd. Franco Vazzoler, Letteratura e ideologia aristocratica a Genova nel primo Seicento, cit., pp. 243-44. Segnalo però che lo Spotorno, non so su quali fondamenti, pone la tragedia nel 1637, vd. Giovan Battista Spotorno, Storia letteraria della Liguria, cit., vol. V, p. 96 (ma, per l’interpretazione della lettera al Peregrini, la questione è irrilevante).

[7] Sull’atteggiamento filofrancese del Peregrini a Genova, conforme alla politica barberiniana (e all’atteggiamento del doge Giovan Francesco Brignole), vd. la lettera del 1642 citata da Marina Terzoni, Per la biografia di Matteo Peregrini, cit., p. 221. I buoni rapporti del Peregrini col cardinale Antonio proseguirono nel tempo anche dopo la morte di Urbano VIII, come appare in una lettera del 1644 citata in Claudio Costantini, Fazione Urbana. Sbandamento e ricomposizione di una grande clientela a metà Seicento, in “Quaderni di Storia e Letteratura. Studi, testi e documenti”, n. 4, 1998, p. 97.

[8] Così come scrive ad esempio ancora Andrea Battistini, La cultura del Barocco, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, vol. V, La fine del Cinquecento e il Seicento, Roma, Salerno, 1997, pp. 502-3, secondo la linea interpretativa di Ezio Raimondi, di cui vd. per lo meno Trattatisti e narratori del Seicento, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969, pp. XI, 109-11; Idem, La metafora ingegnosa. Letteratura a Bologna nell’età di Guido Reni, in Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 21-53.

[9] Matteo Peregrini, Delle acutezze, ed. cit., pp. 22-23).

[10] Ma probabilmente il tono smussato del Peregrini dipendeva anche dalle mutate condizioni del Mascardi, che nel 1639 era oramai travolto dalle difficoltà delle sue scelte politiche e da malanni di salute (scrivendone all’Aprosio il medico Nicolò Schiattino nel luglio del 1639 lo definiva in condizioni disperate). Nuovamente accolto dall’Accademia degli Addormentati, il Mascardi pronunciò quell’anno stesso un orazione dal titolo Agevole e dilettevole è la strada della virtù, in cui gli elogi di circostanza al partito dei giovani e ai genovesi Addormentati (fra cui il Brignole Sale era evidentemente compreso, anzi era l’anno del maggior impegno rappresentato dal Carnovale) autori di « dotti e acuti discorsi, non a bastanza dalle lodi, benché grandi di questa serenissima patria ricompensati », suonano di contrizione e di ammenda di chi si professava ora « abbandonato dall’arte, abbattuto dalla fortuna, consumato dall’infermità e rifiutato fin dalla morte ». L’orazione si legge in Agostino Mascardi, Discorsi accademici, cit., pp. 204-41 (e su tutta la vicenda vd. Francesco Luigi Mannucci, La vita e le opere di Agostino Mascardi, cit., pp.216-17).

[11] l mito universitario dell’Alma mater in quel torno d’anni è ben esplicito in Martino Bisanzinetto, Athenae italicae sive oratio in laudem Bononiae, Mediolani, Ex Typographia Marci Tullij Paganelli, 1634 (su cui vd. Leonardo Quaquarelli, Lodi di Bologna in tipografia, in Libri, tipografi, Biblioteche. Ricerche storiche dedicate a Luigi Balsamo, a cura dell’Istituto di Biblioteconomia e Paleografia. Università degli Studi, Parma, Firenze, Olschki, 1997, vol. II, pp. 382-83).

[12] Per il carattere modernizzante dell’Accademia della Notte si vedano le giuste osservazioni di Edoardo Taddeo, L’ “ingegnosissimo nipote”, ovvero Lodovico Malvezzi, in “Studi secenteschi”, vol. XXXVII, 1996, p. 6 (un’accentuazione classicistica dell’ambiente si trova invece in Denise Aricò, Matteo Peregrini: l’ethos del savio, in “Studi e memorie per la storia dell’Università di Bologna”, n.s., vol. III, 1983, pp. 244-45).

[13] Sulla polemica fra Giovan Battista Manzini e Matteo Peregrini, vd. Denise Aricò, Anatomie della “dissimulazione” barocca (in margine all’ “Elogio della dissimulazione” di Rosario Villari), in “Intersezioni”, a. VII, dicembre 1988, n. 3, pp. 565-576; Gian Luigi Betti, Il “Savio in corte”, in “Studi secenteschi”, vol. XXXV, 1994, pp. 169-86. Per il rapporto Peregrini-Malvezzi vd. Idem, Botero e la Ragion di stato in autori bolognesi del Seicento, in Botero e la “Ragion di stato”. Atti del convegno in memoria di Luigi Firpo (Torino 8-10 marzo 1990), a c. di A. Enzo Baldini, Firenze, Olschki, 1992, pp. 303-7.

[14] Per l’argomento mi permetto di rimandare a Elisabetta Graziosi, Spirito, ingegno, intelletto, ragione: nozioni a confronto in un dibattito del primo Settecento, in c.d.s. in Ingenium propria natura hominis. Atti del Convegno.

[15] Matteo Peregrini, Che ‘l dir male non è in tutto male, in Saggi accademici dati in Roma nell’Accademia del sereniss. prencipe Cardinal di Savoia da nobilissimi ingegni raccolti e pubblicati da monsig. Agostino Mascardi, in Venetia, per Bartolomeo Fontana, 1630, pp. 144-54.

[16] Il primo a fare il nome di Matteo Peregrini per questa supposta conversione letteraria mi pare sia stato Michele De Marinis, Anton Giulio Brignole Sale e i suoi tempi, cit., pp. 270-72. Ne hanno seguìto l’indicazione Ezio Raimondi, Trattatisti e narratori del Seicento, cit., p. 110 e, più recentemente, Quinto Marini, Anton Giulio Brignole Sale, in Letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova, Costa & Nolan, 1992, vol. I, pp. 372-73; Idem, Anton Giulio Brignole Sale gesuita e l’oratoria sacra, in I Gesuiti fra impegno religioso e potere politico nella Repubblica di Genova, cit., pp. 147-48; Marco Corradini, La parabola letteraria di Anton Giulio Brignole Sale, in Idem, Genova e il Barocco, cit., pp. 30, 289-308. Aveva invece, a ragione, distinto tra la regolarizzante posizione teorica del Peregrini e le “invenzioni ghiribizzose” del Brignole Franco Croce, Tre momenti del barocco letterario, Firenze, Sansoni, 1966, pp. 147-48 (da segnalare comunque che di questo influsso del Peregrini sul Brignole Sale, nulla risultava al settecentesco, informatissimo, biografo del Bolognese, vd. Giovanni Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, Bologna, S. Tommaso d’Aquino, 1786, vol. V, pp. 331-33). A mio parere, come ho già avuto modo di dire, non ci fu nessuna conversione del Brignole Sale a forme stilistiche di barocco moderato, e la sperimentazione rimase sempre la sua fisionomia fondamentale, per quanto può risultare da ciò che è edito (al riguardo, vd. Elisabetta Graziosi, Due conversioni per Anton Giulio Brignole Sale in Da una riva e dall’altra. Studi in onore di Antonio D’Andrea, a cura di Dante Della Terza, Firenze, Edizioni Cadmo, 1995, pp. 257-77).

[17] Il punto sul problema in Mercedes Blanco, Matteo Peregrini: la mauvaise conscience du conceptisme, cit., pp. 227-43 (che ha il merito di riconoscere con chiarezza che il Peregrini è « un partisan décidé de l’objet sur le quel il a entrepris d’écrire », p. 228).

[18] Per questo, a mio parere, va conservata (pena una perdita totale delle categorie storico letterarie) l’attribuzione del Peregrini all’area del barocco moderato, vd. Franco Croce, La critica dei barocchi moderati, in Tre momenti del barocco letterario italiano, cit., pp. 139-60 (che del resto giustamente avvertiva che « Molti sono i passi dove la sua adesione al barocco ortodosso sembra completa », p. 141). Troppo recisa l’opinione di Mercedes Blanco, secondo la quale il Peregrini è « parfaitement baroque (et non pas comme on le dit généralement, baroque moderé) », vd. Matteo Peregrini: la mauvaise conscience du conceptisme, cit., p. 235. Un riconoscimento delle Acutezze come prima indagine intorno al concettismo anche in Ezio Raimondi, La metafora ingegnosa. Letteratura a Bologna nell’età di Guido Reni, in Il colore eloquente. Letteratura e arte barocca, Bologna, il Mulino, 1995 pp. 35-36, che però attribuisce al Peregrini « un’ipotesi pugnace di classicimo barocco » che i modelli citati contraddicono di fatto.

[19] Per una valutazione quantitativa del moderatismo del Peregrini vd. Sergio Bozzola, La retorica dell’eccesso. Il “Tribunale della critica” di Francesco Fulvio Frugoni, Padova, Antenore, 1996, pp. 266-67, 268. Forse in ragione di questo Bozzola enfatizza una presunta discrasia fra la supposta posizione moderata del Frugoni (di appoggio al Peregrini) e gli esiti dirompenti della scrittura arguta fino all’eccesso (fondata sul maestro Tesauro).

[20] Sull’orizzonte mondano e salottiero del Peregrini teorico dell’acutezza si vedano le giuste osservazioni di Stefano Gensini, L’ingegno e le metafore: alle radici della creatività linguistica fra Cinque e Seicento, in Genio, ingegno, numero tematico di “Studi di estetica”, III serie, a. XXV, 1997, p. 145.

[21] Vd. Matteo Peregrini, Delle acutezze, ed. cit., pp. 145-48; Anton Giulio Brignole Sale, Il Carnovale di Gotilvannio Salliebregno, in Venetia, appresso Gio. Pietro Pinelli, 1639, pp. 79-110. Ottavio Grimaldi risulta fra i dedicatari, insieme ad Anton Giulio, di una delle Ode toscane di Pier Giuseppe Giustiniani, complessivamente dedicate nel 1628 agli Addormentati (La danza. Ode XVIII), e compare anche nelle Odi encomiastiche e morali dello stesso (fra cui sono anche lo stesso Brignole Sale, Agostino Pinelli, Bartolomeo Imperiale: l’ala politicamente impegnata degli Addormentati). Doveva trattarsi di persona congiunta al Brignole da motivi di clan come risulta dall’elogio che riservò nel 1638 a Giovan Francesco Brignole pronunciando l’orazione per il doge Agostino Pallavicino di cui alla nota seguente (su cui vd. Michele De Marinis, Anton Giulio Brignole Sale e i suoi tempi, cit., p. 6).

[22] All’amico Pier Giuseppe Giustiniani il Chiabrera aveva lasciato il manoscritto che costituisce l’ultimo progetto di edizione delle sue rime (vd. Gabriello Chiabrera, Maniere, Scherzi e Canzonette morali, a cura di Giulia Raboni, cit., p. XXXVIII) e col Giustiniani il Peregrini ebbe per 12 anni una frequentazione quotidiana nella villa di Fassolo (vd. Matteo Peregrini, lettera del 16 giugno 1651, in Michele Giustiniani, Lettere memorabili dell’abbate Michele Giustiniani patrizio genovese de’ Signori di Scio e d’altri. Parte terza, in Roma per il Tinassi, 1675, pp. 153-62).

[23]Orazione nell’incoronazione del serenissimo Agostino Pallavicino duce della Repubblica di Genova fatta dal sig. Ottavio Grimaldo, in Applausi della Liguria nella reale incoronatione del serenissimo Agostino Pallavicino duce della Republica di Genova, in Genova, per Giuseppe Pavoni, 1638: il successo dell’oratore (come a suo tempo quello del Brignole) doveva essere stato notevole e il suo nome era stato così anagrammato: « TU MUSA GLORIA DUCIS ». Nella stessa occasione anche l’olivetano Vincenzo Renieri aveva composto un Carmen panegyricum. Sull’orazione del Grimaldi e sul dogato di Agostino Pallavicino, vd. Claudio Costantini, La Repubblica di Genova nell’età moderna, cit., pp. 278-82

[24] Più esattamente: Paola Adorno era figlia di primo letto di Giovan Battista (e di Paola Spinola) mentre Filippo ed Emilia Adorno erano figli di secondo letto, nati dal matrimonio con Violante Giustiniani. Vd. Natale Battilana, Genealogie delle famiglie nobili di Genova, Genova, Tipografia fratelli Pagano, 1825 [rist. anast. Bologna, Forni], vol. I, Famiglia Adorno, tav. 5; Pompeo Litta, Famiglie celebri italiane, Adorno, tav. III; Elena Chiavari Cattaneo Della Volta, Adorno. Adornes, Genova, Associazione nobiliare della Liguria, 1997.

[25] Matteo Peregrini, All’illustrissimo Signore e Padron Colendissimo il signor Filippo Adorno, in Delle acutezze, ed. cit., p. 5.

[26] Matteo Peregrini, Delle acutezze, ed. cit., p. 9.

[27]Matteo Peregrini, Delle acutezze, ed. cit., pp. 8-9: con evidente inversione rispetto al pamphlet tardocinquecentesco di Bartolomeo Paschetti riportato da Rodolfo Savelli, Genova nell’età di Van Dyck. Sette quadri con un epilogo, in Van Dyck a Genova, cit., pp. 21-22.

Anton Giulio Brignole Sale.
Un ritratto letterario

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Indice
Indice dei nomi
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Premessa
Graziosi
Cesura per il Secolo dei Genovesi
Malfatto
La biblioteca di Anton Giulio
Corradini
Il teatro comico
Moretti
Poeta per musica
De Troia
L'ossimoro crudele
Eusebio
Maddalena-naviglio
Conrieri
La traduzione portoghese della Maria Maddalena
Rodler
Anton Giulio nel ricordo di Francesco Fulvio Frugoni
Carminati
Tre lettere inedite


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