Elisabetta Graziosi, Cesura per il Secolo dei Genovesi: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.





2b. Le ragioni di una capitale barocca

Ricordati questi che mi paiono fenomeni di lunga durata nella cultura genovese, e che permangono per lo meno fino all’unificazione del mercato letterario compiuta nel secolo seguente dall’Arcadia, c’è da dire che, anche se non vi fu letterariamente un secolo dei Genovesi, Genova fu nel Seicento una delle capitali barocche in cui si elaborò e si diffuse il nuovo gusto letterario.[1] Fu un lungo momento iniziato nell’ultimo decennio del secolo XVI, in cui i radicati e ineludibili handicap, combinandosi a imprevedibili casualità, giocarono nella città un ruolo positivo. E in primo luogo si può considerare il tradizionale internazionalismo genovese e più latamente ligure alimentato da una diaspora d’élite dovuta a ragioni di commercio, di finanza o di ordine religioso dove però non andavano persi i rapporti interfamigliari, mentre l’esperienza di uomini e di idee giungeva speditamente attraverso la lettera, viaggiava con un mezzo più libero e più veloce del mercato librario. Una posta che a Genova ebbe una organizzazione precoce, tale da consentire un sistema informativo efficace necessario ai traffici di una città che per di più giocava un ruolo di crocevia nelle comunicazioni internazionali.[2]
L’epistolario di Angelo Grillo, importante per numero di realizzazioni editoriali, nato certamente al di fuori della testimonianza monumentale e della volontà di proporsi come modello letterario, documenta una fitta rete di relazioni attraverso cui si orienta il gusto degli interlocutori nell’età del trapasso fra Tasso e Marino. [3] Molte delle lettere dell’abate benedettino sono da Genova e per Genova, per i gruppi parentali Grillo, Doria, Spinola, Imperiale, collegati da alleanze matrimoniali, ma molte altre seguono le piste dei rapporti di religione, confondono e miscelano le acque fra una cultura laica legata al prestigio e una ecclesiastica connessa alla devozione e alla pietà, fra il nuovo che si presenta nei salotti aristocratici e l’antico legato alla pur fortissima e vischiosissima tradizione eccelsiastica.[4] Nella raccolta di Lettere del 1604, dedicate da Ottavio Meninni a Giovan Vincenzo Imperiale, si trova un giudizio sul Marino stupefacente per acume e preveggenza, consegnato a una lettera in risposta a Giannettino Spinola che ne chiedeva notizia, con una sintesi degli elementi che ne avevano determinato (a due anni di distanza dalle Rime del 1602) il contrastato protagonismo letterario: « Quelle poesie, che non han lettione, quelle non han detrattione, quelle non han contradditione ».[5] Ma altrettanto stupefacente è ritrovare nelle sue lettere il moderno criterio del successo di pubblico per giudicare il valore della poesia, in una lettera (al padre Matteo Baccellini) di cui il Marino ha certamente fatto tesoro per allestire le sue polemiche.[6] Si tratta insomma di un intermediario d’eccezione, sensibile alle novità del mercato letterario, cui i mutamenti di residenza consentono un aggiornamento tempestivo del trascorrere delle novità, e un veloce radicamento in ragione della famiglia naturale e di quella religiosa attraverso la cooptazione all’interno di numerose accademie.[7] In una città come Genova, ancora priva di istituzioni educative, il ruolo del benedettino Angelo Grillo, presente con decine di lettere famigliari, è quello di un precettore prestigioso per cultura e posizione sociale, interno alle reti parentali ma privo di uno stato professionale subalterno: è del resto un compito di direzione degli studi per via epistolare che il gesuita Possevino considerava nella Bibliotheca selecta e che non poteva non far proseliti negli altri Ordini religiosi.[8] Oltre a mettere in rapporto i diversi interlocutori, contribuendo a diffondere dei modelli che indirizzano il gusto dei suoi corrispondenti, Angelo Grillo diffonde in proprio (con tre edizioni delle lettere in anni cruciali fra il 1602 e il 1616) uno stile di scrittura intensamente nuovo, ricco di acutezze artificiose, che il benedettino considera non opposte ma come proprie dello stile epistolare e della conversazione, in cui sono consentiti anche i toni più disinvolti e famigliari.[9] Una segnalazione di gusto su cui non mancava di insistere, nell’edizione del 1608, anche il raccoglitore Pietro Petracci che, per accreditare le scelte ingegnose del Grillo, chiamava in causa Plinio « al quale nelle vivezze e acutezze molto s’accosta », mentre ricorreva a Demetrio Falereo per giustificarne la patina di ricercatezza epistolare: « Ma ricordinsi que’ tali che Demetrio Falareo vuole che la lettera sia più elegante del dialogo, perché nel dialogo si parla all’improvviso e la lettera si scrive pensatamente ».[10] È una spiegazione rigorosamente retorica delle vivezze ingegnose, fondata su una teoria dell’imitazione innestata sugli atti di parola, che accentua rispetto agli esiti tassiani la valorizzazione dell’“ingegno” e dell’“artificio”.[11] Ed è anche un gusto dell’ibridato e dell’inclusivo, del mescolato e del complesso che mi sembra poi tratto caratteristico della cultura genovese, e più ampiamente della cultura barocca che qui, in questo epistolario, mostra esemplarmente le sue radici in un policentrismo non solo geografico, attento al nuovo ma anche curioso di quanto è tanto arretrato da sembrare all’avanguardia.[12]
Il secondo dei tradizionali limiti della società genovese che qui ricordo è la scarsa omogeneità e lo spirito di fazione della classe di governo. Ora è certo che l’opera di compattamento aristocratico che si realizza nel corso del Seicento trova alcuni personaggi a tutto tondo che si servono della funzione socializzante della letteratura, rendendo funzionale il prestigio letterario per l’istituzione dei contatti e la formazione del consenso. Mi sembra che sia questo il caso di Giovan Vincenzo Imperiale, la cui carriera di scrittore non pare disgiunta dal cursus honorum e dalle scelte politiche del padre, che diviene doge nel 1617 (dopo un tentativo fallito nel 1613) a ridosso di tre edizioni dello Stato rustico pubblicato nel 1607, nel 1611, nel 1613: un vero monumento cartaceo nella città della circolazione manoscritta che nella terza (e ultima) edizione raccoglieva anche le Lodi per lo Stato rustico del Sig. Gio. Vincenzo Imperiale. A lui da’ megliori dedicate. Vi partecipava non solo uno stato maggiore letterario ma un buon numero di rimatori dilettanti genovesi la cui presenza serviva a dare un idea plebiscitaria del consenso, funzionale al compattamento della Repubblica intorno alla famiglia.[13] Quattro anni più tardi, l’incoronazione di Gian Giacomo Imperiale fu una cerimonia pubblica sconcertante. Defezionarono infatti fra il pubblico gli aristocratici stranamente trattenuti in villa, ma non mancarono invece le lodi degli oratori e dei poeti di circostanza che colsero l’occasione per lodare il padre doge e il figlio poeta con una pubblicazione prestigiosa, in cui avrebbe voluto entrare anche un Genovese di fuorivia come il Mascardi, e non mancò un Bolognese di punta come l’Achillini.[14] Il protagonismo culturale dell’Imperiale, di sostegno alla scalata al potere del padre, appare in versione soft rispetto all’agitata vita civile della Repubblica, concepito non per proporre programmi politici ma per manifestare (o meglio per provocare) un’emergenza, un’eminenza fra eguali radunando il consenso interno ed esterno alla Repubblica.
Il Chiabrera non può non essere il terzo di questi esempi in cui il costume ligure seppe giocare in una congiuntura positiva degli elementi strutturali deboli. È la mancanza di un’istituzione educativa cittadina che fa approdare il Savonese al Collegio Romano, e poi ancora la mancanza congenita in patria di una carriera di intellettuale che non sia quella del precettore privato che lo conduce a Mantova, a Torino, a Firenze, a Roma: poeta cortigiano ma senza alcun obbligo di residenza, bensì al centro di una vasta trama di contatti, che gli concede anche di coltivare l’isolamento in Savona. Il che significa non solo che Genova è una capitale che non ha una definita tradizione letteraria da difendere come Firenze o Roma, ma anche che nella città ligure il nuovo riesce ad acclimatarsi senza fratture, polemiche, scomuniche. Un centro in cui le mode letterarie si velocizzano e vengono importate ed esportate con più facilità. È la scoperta del nuovo attraverso il viaggio di cui il Chiabrera si fa promotore, riciclando in territorio letterario l’immagine del genovese Cristoforo Colombo fino a dire « ch’egli voleva trovar nuovo mondo o affogare ».[15] Può darsi che il mito Colombo abbia in Liguria, fra Genova e Savona, un’ovvietà di paradigma che ne fa un gettone spendibile per ogni occasione celebrativa, ma non bisogna sottovalutarne la portata innovativa, decisamente modernizzante in territorio poetico e retorico, dove tradizionalmente l’inventio tende a restringersi nel campo della topica, mentre invece l’avventura colombiana sfora al di là del già noto, è risolutamente scoperta/invenzione di ciò che non esisteva nemmeno come idea.[16] A Colombo il Chiabrera dedicò una canzone pubblicata nel 1591 e quasi quarant’anni più tardi ne rievocò la figura in un’occasione pubblica come l’orazione per l’incoronazione di Andrea Spinola, dopo il trauma della guerra del 1625.[17] L’elogio del ligure non guerriero, ma vittorioso sugli elementi, era una linea ufficiale gradita certo in quel momento alla Repubblica in cui però anche il poeta poteva in certo modo identificarsi ad onore delle dominante. E del resto spetta al Chiabrera la più ampia concertazione del nuovo, della molteplicità dei generi e degli stili, superiore anche al Marino nell’età del Marino.[18]





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[1] Franco Croce, Genova e il Barocco letterario, in Genova nell’Età Barocca, cit., pp. 509-15.

[2] Onorato Pastine, Un aspetto dell’influenza spagnola in Genova: la posta di Spagna, estr. da “Rivista storica italiana”, a. LXX, 1958, fasc. IV, pp. 553-584 ; Idem, L’organizzazione postale della Repubblica di Genova, estr. di “Atti della Società Ligure di Storia patria”, vol. LIII, 1926, pp. 1-197; e più recentemente, vd. Giorgio Doria, Conoscenza del mercato e sistema informativo: il know-how dei mercanti-finanzieri genovesi nei secoli XVI e XVII, in La repubblica internazionale del denaro tra XV e XVII secolo, a cura di Aldo De Maddalena e Hermann Kellenbenz, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 57-122 (ora in Giorgio Doria, Nobiltà e investimenti a Genova in Età moderna, Genova, Istituto di Storia economica, 1995). Sull’ostacolo dello spazio e il “caso privilegiato” delle lettere, veicolo per “la notizia, merce di lusso”, vd. Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo, cit., vol. I, pp. 387-97. E vd. anche Marco Bologna, Per un modello generale degli archivi di famiglia, in Studi e documenti di storia ligure in onore di don Luigi Alfonso per il suo 85° genetliaco, numero monografico degli “Atti della società ligure di storia patria”, n.s., vol. XXXVI, fasc. II, 1996, pp. 577-78.

[3] Vd. Jeannine Basso, Le genre epistolaire en langue italienne (1538-1662). Répertoire chronologique et analytique, Roma, Bulzoni-Presses Universitaires de Nancy, 1990, vol. II, pp. 386-93; Maria Cristina Farro, Un “libro di lettere” da riscoprire. Angelo Grillo e il suo epistolario, in “Esperienze letterarie”, a. XVIII, 1993, n. 3, pp. 69-81; Marco Corradini, Cultura e letteratura nell’epistolario di Angelo Grillo, in Idem, Genova e il Barocco, cit., pp. 35-121.

[4] Vd. Giulia Raboni, Il madrigalista genovese Livio Celiano e il benedettino Angelo Grillo, in “Studi Secenteschi”, vol. XXXII, 1991, pp. 137-88.

[5] Angelo Grillo, Delle lettere del molto r.p. abbate d. Angelo Grillo racolte dall’eccellentis. sig. Ottavio MENINI et da altri signori accresciute e disposte per ordine di tempo libri quattro, in Venetia, appresso Gio. Battista Ciotti, 1604, p. 575. La “genovesità” delle lettere, oltre che dal dedicatario Giovan Vincenzo Imperiale, è in questa edizione resa evidente dai destinatari (tutti genovesi) con cui si apre ciascuno dei quattro libri.

[6] Ivi, p. 275. Sull’importanza di questa lettera in àmbito genovese, vd. Franco Vazzoler, Letteratura e ideologia aristocratica a Genova nel primo Seicento, cit., p. 305. Sul problema dell’utilizzazione fatta dal Marino degli argomenti del Grillo, vd. Marco Corradini, Cultura e letteratura nell’epistolario di Angelo Grillo, cit., pp. 58-62.

[7] Per i rapporti del Grillo con i maggiori poeti del tempo e la cooptazione delle Accademie più famose, vd. Giovan Vittorio Rossi, Iani Nicii Erithraei Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii laude virorum qui auctore superstite diem suum obierunt, vol. II, Coloniae Ubiorum, apud Iodocum Kalcovium et socios, 1655, pp. 237-38.

[8] Il XVIII capitolo della Bibliotheca selecta, Romae, ex Typographia Apostolica Vaticana, 1593 ha un titolo e un frontespizio a parte, ovvero Cicero […] quo agitur De ratione conscribendi epistolas. De Arte dicendi, etiam ecclesiastica. Su cui vd. Amedeo Quondam, Dal “formulario” al “formulario”: cento anni di “libri di lettere”, in Le carte messaggiere. Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 1981, p. 63.

[9] Si veda la dedica A’benigni lettori di G.B. Ciotti in Lettere del molto rever.do padre Abbate d. Angelo Grillo monaco cassinese raccolte dall’illustr. & eccellentissimo signor Ottavio MENINI, in Vinetia, appresso Gio Battista Ciotti, 1602.

[10] Delle lettere del molto R.P. abbate d. Angelo Grillo in questa terza impressione con nuova raccolta di molt’altre fatta dal sig. Pietro PETRACCI nell’Accademia degli Sventati di Udine detto il Peregrino, in Venetia, appresso Bernardo Giunti e Gio Battista Ciotti e compagni, 1608 (p.n.n.). Sul valore autonomo di discorso-trattatello dell’intervento del Petracci, vd. Amedeo Quondam, Dal “formulario” al “formulario”: cento anni di “libri di lettere”, cit., pp. 144-46.

[11] Vd. Guido Baldassarri, “Lettere familiari” nel Tasso, in La lettera familiare, numero monografico di “Quaderni di retorica e di poetica”, 1, 1985, pp. 114-15.

[12] È il caso del Tansillo i cui testi circolarono a Genova proprio anche per iniziativa del Grillo (vd. Elisabetta Graziosi, Genova 1570: il prezzo di un marito, in Studi di Filologia e Letteratura offerti a Franco Croce, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 99).

[13] Genova, Pavoni, 1607; Genova, Pavoni, 1611; Venezia, Deuchino, 1613. Sulle tre diverse redazioni, vd. Giovanni Sopranzi, Le tre redazioni dello “Stato rustico” di Giovanni Vincenzo Imperiali, in Renato Reichlin, Giovanni Sopranzi, Pastori barocchi fra Marino e Imperiale, Freiburg, 1988, pp. 75-140 (ma s’intende che, a mio parere, è proprio la giunta di « lodi a lui da’migliori dedicate » a costituire la novità rilevante di questa edizione, rivelandone il progetto politico soverchiante quello d’autore).

[14] Per la defezione aristocratica alla cerimonia dell’incoronazione, vd. Luigi Maria Levati, Dogi biennali di Genova dal 1528 al 1699, Genova, Tip. Marchese e Campora, 1930, vol. I, p. 382. Le rime e le orazioni sono raccolte in Incoronatione del Sereniss. Gio. Giacomo Imperiale Duce di Genova (antiporta incisa), in Venetia, per il Pinelli, 1618.

[15] Vita scritta da lui medesimo, in Opere di Gabriello Chiabrera e lirici del classicismo barocco, a cura di Marcello Turchi, Torino, UTET, 1974, p. 521 e, per il trasferimento in àmbito poetico e retorico del tema di Colombo (unito a Galileo), Il Geri. Dialogo della tessitura delle canzoni, ivi, pp. 579-80. Sull’argomento valgono ancora le osservazioni di Giovanni Getto, Gabriello Chiabrera poeta barocco, in Id., Barocco in prosa e in poesia, Milano, Rizzoli, 1969, pp. 128-29, 133-37. E vd. inoltre Franco Croce, L’intellettuale Chiabrera, in La scelta della misura. Gabriello Chiabrera: l’altro fuoco del barocco italiano, Atti del Convegno di Studi su Gabriello Chiabrera nel 350° anniversario della morte (Savona, 3-6 novembre 1988), a cura di Fulvio Bianchi e Paolo Russo Genova, Costa & Nolan, 1993, pp. 23-25. Riduttiva invece l’opinione di M. Pieri che riconduce il valore ideologico della figura di Colombo a una pura (e deludente) questione di gusto: Colombo in mare baroco, una metafora abortita, in “Columbeis I”, Genova, Istituto di Filologia Classica e Medievale, 1986, pp. 27-52.

[16] Sul valore ideologico forte di questa scoperta/invenzione assimilabile a una creazione, vd. Giovan Battista Ramusio, Navigazioni e viaggi, a cura di Marica Milanesi, Torino, Einaudi, 1985, vol. V, pp. 12-13 (a p. 15 la gloria di Genova, madre di Colombo « il quale ha fatto nascer al mondo un altro mondo ») e, più in generale, sono a proposito le pagine di Andrea Battistini, “Cedat Columbus” e “Vicisti, Galilaee”: due esploratori a confronto nell’immaginario barocco, in “Annali d’Italianistica”, X, 1991, pp. 115-32.

[17] Gabriello Chiabrera, Oratione nella incoronatione del serenissimo Andrea Spinola duce della Republica di Genova fatta e recitata nel Palazzo Ducale dal Signor Gabriel Chiabrera, in Nella incoronatione del serenissimo Andrea Spinola duce della Republica di Genova, in Genova, per Giuseppe Pavoni, 1630. Su cui vd. Francesco Luigi Mannucci, La canzone di Gabriello Chiabrera per Cristoforo Colombo, in Studi colombiani, Genova, 1951, vol. III, pp. 161-69 e Stefano Zanovello, Brevi considerazioni sulla fortuna di Cristoforo Colombo nella cultura italiana del Seicento, in Atti del II Convegno Internazionale di Studi Colombiani. Genova 6-7 ottobre 1975, Genova, Civico Istituto Colombiano, 1977, pp. 398-99. È comunque da notare la rilevanza del mito colombiano anche all’interno della gerarchia dei valori civici riconosciuti: la dignità del casato, negli anni che qui interessano, viene riconosciuta (da Giulio Pallavicino) al merito di Colombo « per esser stato inventore di un altro mondo nuovo », risultando così equiparata alla presenza di papi e cardinali nell’albero genealogico, vd. Edoardo Grendi, Profilo storico degli alberghi genovesi, in Idem, La repubblica aristocratica dei Genovesi, cit., p. 50

[18] Ma il ricorrere del tema colombiano nella retorica celebrativa delle elezioni dogali meriterebbe, per la persistenza del topos specificamente legato al territorio, maggiore spazio. Molti spunti in Mario Damonte, L’America e Cristoforo Colombo nell’opera di Francisco de Quevedo y Villegas, in Idem, Tra Spagna e Liguria, Genova, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 1996, pp. 126-41.




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Anton Giulio Brignole Sale.
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