Giannettino Giustiniani, 1a, 1b, 1c, 1d, 1e, 1f, 1g, 1h, 1i, 1j, 1k, 1l, 1m

L’ingratitudine di Mazzarino





« È stato supposto », scriveva Giannettino nel gennaio del 1656 a Mazzarino, « non essere io in gratia di Vostra Eminenza e che perciò non mi ha mai fatto dare cos’alcuna dalla Corona, che se mi havessero veduto gratificato non haverebbero ardito mortificarmi: Giannettino Doria per haver operato contro la Republica ne fu bandito, ma il Re Cattolico suo padrone volle che subito fosse liberato, come seguì, e lo fece generale in vita delle galere di Sicilia. Dio mi guardi che volessi mai remuneratione da Sua Maestà, né da Vostra Eminenza, per operare contro la mia patria, mentre non ho testimoni più autorevoli et irrefragabili d’havere sempre procurato li suoi vantaggi, con il reggio servitio unito, di loro, il che desidererò sempre che si sappia. Mi spiace ben sì non essere più in stato di ricevere pregiuditii come Vostra Eminenza m’accenna, essendo spedita per me, perchè doppo d’avere consumato quanto havevo, mortificato, perdo anche la riputatione per non pottere più aspettare le benignissime promesse di Vostra Eminenza, forzato di rettirarmi per non pottere più sussistere, perciò le dimando humilissimamente licenza, come la supplico farmela dare da Sua Maestà, e provedere che qui sia servita da altri, costretto di levare casa et andarmene a piangere la mia disgratia alla campagna, dove viverò come piacerà a Dio, con una consolatione, però, la quale non mi pottrà mai essere tolta neanche da miei nemici (per quanto possino haver a trionfare della mia rovina) che Vostra Eminenza non è stata, né potteva essere, meglio né più fedelmente servita di quello lo è stata da me ». [1]

Già nell’ottobre del ‘52 Giannettino era stato costretto, non so se a titolo dimostrativo o per effettiva mancanza di quattrini, a lasciare l’abitazione di Genova e a trasfersi in campagna, nella sua casa di Santa Margherita Ligure, con grande pregiudizio, diceva, per la sua reputazione.[2] Come se ciò non bastasse qualche mese più tardi, nel marzo 1653, Ondedei chiese a Ugo Fieschi, uno degli esponenti del partito francese in Genova, verso il quale Giannettino nutriva un’antica gelosia, di far luce sui suoi conti.[3] Giannettino si offese terribilmente: « Non so chi potteva essere trattato peggio, senz’avertirmi di nulla, essere scritto a chi è venuto cento volte a pregarmi perchè lo raccomandi a Vostra Eminenza che venghi a trattare meco de conti! ».[4] Ed ancora:

« Aggiongo d’havere ricevuto in questo punto l’acchiuso biglietto del signor Ugo Fieschi che mi ha accorato, non parendomi che il modo di trattare del signor abbate Ondedei corresponda né alle promesse che ultimamente mi ha fatte Vostra Eminenza, né a quello mi scrive il signor cardinale Antonio, né alle prove della mia fedele servitù di tant’anni, non conoscendo persona al mondo dalla quale Vostra Eminenza possa confidare più di me. Al signor Ugo Fieschi, rittrovandomi a letto, farò dire non sapere ciò che si vogli dire il signor abbate, non havendo lettere di Corte, volendo la mia riputatione per me, doppo di haver perduto il tutto, né io ho da aggiustare conti con alcuno che con la Corona ».[5]

Nel novembre del ‘55 passò da Genova, alla volta di Parigi, il cardinale Antonio,

« il quale, presa un’intrinseca cognitione delle mie incredibili angustie, non ha havuta difficoltà in esaudire le mie preghiere, e condurre a presentare alli piedi di Vostra Eminenza mio figlio, perchè dalla sua voce viva si mova ad effettuare ciò che non ho mai pottuto conseguire con tante suppliche della mia penna, violentato di repplicare riverentemente a Vostra Eminenza che se dentro quest’anno che va a spirare non vengo o rimunerato, o sodisfatto, o almeno assistito. mi converrà abbandonare il tutto, e retirarmi da Genova ».[6]

L’andata di Giuseppe Domenico a Corte servì, se non altro, a risparmiargli l’esperienza della peste di Genova alla quale anche Giannettino scampò, per ritrovarsi però più solo e più povero di prima.[7] Su Mazzarino faceva ormai poco affidamento:

« De’ miei interessi non so che mi dire », scriveva nel novembre ‘57 al cardinale Antonio, « [...], se ne disperassi offenderei l’autorità e protettione di Vostra Eminenza, sotto della quale mi glorio d’havere a morire, perciò a lei humilissimamente gli raccomando, mentre per li danni sofferti nella mia casa di Genova, nella quale per essere morti tutti quelli vi habitavano mi hanno abbrugiato il meglio de miei mobili, per il contagio sono divenuto più bisognoso e resto sempre più mortificato delle forme con la quale mi scrive il signor cardinale Mazarini, che ultimamente in una sua d’ottobre mi prega di credere (sue precise parole) che “non ho amico, né servitore più interessato di lui in tutto quello che mi riguarda”, et che sapendo le mie angustie, sempre di più mi differisce gli effetti delle sue promesse, le quali sono pur’anche state fatte a Vostra Eminenza, che confido non sii per abbandonarmi ».[8]

Di Giuseppe Domenico, che Giannettino contava potesse sostenere i suoi interessi presso la Corte, non sapeva più nulla. A Mazzarino scriveva nel febbraio del 1658:

« Finalmente sono costretto di chiedere humilissimamente una gratia a Vostra Eminenza, mentre il padre Diaceti [9] non mi responde, et veggo mio figlio non trattato come di padre sì gran servitore di Vostra Eminenza, et di tutti quelli che gli appartengono, ma come del più straniero italiano, del quale non sii mai stata alcuna notitia in casa dell’eminentissimo Mazzarini: sono più e più mesi che desidero venghi mio figlio dal colleggio di Chermont a fargli riverenza, et non è mai stato possibile che ottenghi questa consolatatione, perchè lui esponga le mie pene et angustie a Vostra Eminenza. La supplico humilissimamente di farlo chiamare, et far apparire che è figlio di servitore suo, che stima et ama nella forma che mi ha scritto di suo pugno, che deve sempre servire il Re, et nello stesso tempo far provare a lui, et a me, gli effetti delle sue promesse, perchè, padrone eminentissimo, le giuro di non pottere più reggere, et di vivere afflittissimo, né le mie angustie possono correspondere alle dilatione longhissime con le quali vado scordato d’anno in anno, nonchè di mese in mese, addoloratissimo poi di pensare che alla cognitione degli italiani che sono in Parigi, et de genovesi singolarmente, sia che mai una volta in 28 mesi che il figlio del marchese Giustiniani, il maggior idolatra che habbi il signor cardinale Mazzarini in questo mondo, et che ha havuto l’honore di alloggiare tutto il suo sangue, sii stato chiamato dal colleggio a desinare seco. Vostra Eminenza mi compattischi, sono angoscie di servitore innamorato che non respira d’altr’aura che da quella de suoi favori ».[10]

Mazzarino, come sempre, fu rassicurante: « Il figlio di Vostra Signoria è stato sempre qua sotto la protettione del signor Cardinale Antonio, ond’io ne meno sapevo che fosse in Parigi, credendo che Sua Eminenza l’havesse condotto seco, ma hora m’informarò di lui e me ne pigliarò pensiero ».[11] Non pare proprio però che se ne sia occupato. Fu l’indignazione a suggerire a Giannettino, al di là delle consuete querimonie, parole robuste:

« Il disprezzo con il quale ha trattato meco Vostra Eminenza in tutto il tempo del suo ministero, come che non si sarebbe usato con il più infimo degli huomini, non che con una persona della mia nascita e conditione, così doppo infiniti anni ha pottuto superare ogni dissimulatione, ogni tolleranza, e quasi che mi dissi la stessa riverenza. Tralascio il non essere mai stato nel tempo sudetto del suo ministero né sodisfatto delle mie mercedi, né rimunerato de miei servitii, ma ciò che mi [ha] abbattuto e disperato più d’ogni altro strapazzo, si è stato che scrivendogli continuamente de’ miei interessii al che m’obligavano le mie angustie e m’affidava la mia giustitia, o non mai mi ha risposto, o se talvolta per miracolo voleva darmi ad intendere di ricordarsene era con parole promittenti meraviglie, senza che mai n’habbi veduto alcuna minima effettuatione, e così vane mi sono riuscite sinhora e le promesse del feudo nella mia persona, e dell’abbadia in mio figlio. Povero figlio, haverebbe havuto miglior sorte se lo fosse stato d’un guidone, e non d’un gentilhuomo di sopra 45 anni di servitù con il signor cardinale Mazzarini, che se non l’ha cercato in due anni, almeno l’havesse veduto doppo d’essersi dichiarato di volerne havere pensiero ».

Giannettino rinfacciava a Mazzarino i meriti che aveva acquisito nei suoi confronti nel ‘40, quando aveva sventato il tentativo di Paolo Fieschi di scavalcarlo nella corsa alla porpora e quelli, ancor più grandi, che si era guadagnati nei confronti della Francia quando aveva suggerito la fortunata impresa di Piombino.

« E pure », proseguiva, « questa prerogative, che sono nulla in comparatione de’ meriti de miei servitii, non hanno pottuto ottenermi nel corso di quattordeci o quindeci anni da Vostra Eminenza alcuna minima ricognitione. Io non la posso con Vostra Eminenza né quando ce la pottessi vorrei, la mia lingua e la mia penna non si dimostreranno mai differenti di quello ch’hanno con ammiratione del mondo tutto sempre professato. Ho servito bene, utile e fedelmente al Re e non meno a Vostra Eminenza, dimando le mie mercedi, protestando a Dio di non doverle mai rimettere né a Sua Maestà, né a Vostra Eminenza, ch’è assoluto direttore di tutti i tesori della Corona, e la quale per la grande altezza di Stato nella quale è stata sublimata in virtù delle gloriose fatiche essercitate a benefitio della Francia, ha maggiore obligatione d’alcun altro di fare che sii sodisfatto chi serve. Tutto ciò m’ha obligato di scriverle per ultimo l’humanissima sua in data de 3 aprile, con la quale attendendo gl’effetti delle sue promesse e qualche sussidio delle mie sodisfattioni, ne pure sillaba n’esprime de miei interessi. Mi rissolvo di morire per sempre, e non ciascheduna settimana come ho fatto da dodeci anni in qua: essendo Vostra Eminenza in Colonia, deplorava di non haver fatto gran cose a mio benefitio, et in più lettere (che tutte sono appo di me) mi promesse che se mai rittornava alla direttione del commando del Regno haverebbe compensato con altre tante maggiori retributioni il mancamento passato. Io non servirò, né scriverò più: Vostra Eminenza provegga alla carrica, e si ricordi che fra l’altre promesse mi ha fatto, una fra l’altre più volte repplicata si è stata di non dovere mai sostituire altri in mio luogo, ch’io non fossi pienamente sodisfatto, e gli faccio humilissima riverenza ».[12]

Nonostante tutto Giannettino continuò a lavorare per la Francia: « Se bene mi querulo », scriveva, « le mie doglianze però non hanno mai raffredato in me né il mio zelo, né la continua sollecita applicatione al servitio del Re, et di Vostra Eminenza ».[13] Riprendeva insomma il tira-e-molla di sempre, nella speranza che almeno a suo figlio fossero concessi quei riconoscimenti che a lui erano sempre stati negati. Ma come Giannettino non era mai riuscito a farsi ammettere a Corte dopo il 1640, così anche a suo figlio risultò impossibile farsi ricevere da Mazzarino.[14] E l’ultima lettera di Giannettino a Mazzarino, del 15 novembre 1660, riprendeva punto per punto quella del maggio di due anni prima:

« Il mondo per me è finito, padrone eminentissimo, e restano in me secche tutte le vene di più pregarla. Cedo alla mia mala sorte, e mi retiro dal servitio di Sua Maestà, amando più presto di languire il resto che mi avanza di vita, che tutto giorno importunarla perchè mi facci somministrare il dovuto sostentamento. Ma tutto che non possa competere, né pottendo volessi, con la sua onnipotenza, due cose non voglio tacere di dirle con ogni più riverente schiettezza. La prima di dovermi dolere tutta la vita sino all’ultimo spirito che Vostra Eminenza non habbi corresposto al servitio che gli resi con il fu signor cardinale di Riccilieu del 40, quando essendo essa anche prelato, et in Piemonte a negotiare con quei principi, monsignor Paolo Fieschi procurava in Roma di scavalcarla dalla nomina reggia cardinalitia [...]. La seconda che havendo io ben servito cottesta Corona, come è noto a tutto il mondo, non solo non m’habbi fatto remunerare, com’essa stessa si doleva in tante sue lettere, quali tutte conservo, et in specie di Colonia, ma non m’habbi mai fatto sodisfare delle mie mercedi, né delle mie pensioni, con havere permesso che consumi tutto il proprio, et mi riduchi all’estremità. Il che prottesto a Dio di non dovere mai rimettere né al Re mio signore, né a Vostra Eminenza, dalla quale tutto dipende, perchè sono quei frutti delle mie virtuose fatiche, con i quali (non havendo altro) devo dare [?] a due figlie nubili che mi restano. Da questo piccolo rimorso, non sodisfacendomi, non pottrà mai liberarsi Vostra Eminenza se divenisse monarca dell’universo, et io conserverò nella mia infelicità la gloria d’havere ben servito a due Re di Francia per venticinque anni, et d’essere stato per cinquanta di Vostra Eminenza humilissimo, divotissimo et [...] [15] servitore ».[16]




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[1] AAE, CP, Gênes 9, cc. 475-476, 5 gennaio 1656.

[2] AAE, CP, Gênes 8, cc. 285-287, 9 ottobre 1652.

[3] Ugo Fieschi era fratello di Paolo, entrambi noti esponenti del partito francese a Genova. Circa i rapporti fra Ugo Fieschi e Giannettino vedi BNP, CLAIR., 392, c. 297, e 396, c.176, Ugo Fieschi a conte di Brienne, 29 marzo 1644 e 5 dicembre 1644; AAE, CP, Gênes 4, c. 117, Ugo Fieschi a Segreteria Corte Genova, 19 maggio 1644; AAE, CP, Gênes 4, c. 523, dicembre 1645, Gênes 5, cc. 140-141 e cc.172-173, Gênes 8, cc. 21-22, Ugo Fieschi a Mazzarino, rispettivamente del 24 giugno e 29 Luglio 1646 e 16 maggio 1650. Ed ancora le lettere di Giannettino a Mazzarino: AAE, CP, Gênes 4, cc. 124-126, cc. 193-195, cc. 205-206, cc. 396-399, cc. 406-409, del 7 giugno, 21 novembre, 26 dicembre 1644, 24 luglio, e 7 agosto 1645; AAE, CP, Gênes 5, cc. 229-231, cc. 232-233, cc. 245-251, 26 marzo 1646, 2 e 22 aprile 1647; AAE, CP, Gênes 7, cc. 46-51, 19 maggio 1648; AAE, CP, Gênes 9, cc. 65-66, cc. 241-243, cc. 280-282, cc. 330-331, rispettivamente del 4 giugno 1652, 3 marzo 1653, 4 novembre 1654, 23 febbraio 1655.

[4] AAE, CP, Gênes 9, cc 67-68, 10 marzo 1653.

[5] AAE, CP, Gênes 9, cc. 65-66, 3 marzo 1653.

[6] AAE, CP, Gênes 9, cc. 457-458, 17 novembre 1655.

[7] Nel luglio dello stesso anno vi furono in città le prime avvisaglie dell’epidemia di peste che stava flagellando Roma e Napoli e che l’anno dopo avrebbe decimato anche la popolazione genovese: Giannettino non perse tempo, e dopo i primi casi di morte, lasciò, come la maggior parte dei nobili, la casa in città e prese alloggio nella sua casa in campagna, a Santa Margherita Ligure. Nonostante l’isolamento in cui Genova era caduta – come città contagiata era stata bandita dai territori confinanti, ed i corrieri non avevano libertà di movimento – egli seguitava a tenere regolare corrispondenza con Parigi, Modena, Roma. Durante l’inverno l’epidemia perse forza ed il numero delle morti diminuì. Il 10 marzo 1657 la Repubblica fece levare i rastelli ed aprire nuovamente la città al libero commercio, ma solo un mese dopo la peste si ripresentò a Genova più forte che mai. « Non mi resta hormai che partecipare a Vostra Eminenza », scriveva Giannettino a Mazzarino il 7 luglio, « avisi sempre più funestissimi per la strage crudele che continua di fare il contagio nella città di Genova, la quale precipita a rimanere affatto spopolata e deserta: la settimana che non ne muoiono se non quattromila è favorevole, essendosi in alcuna passati li cinque o seimila. Vanno cadendo colla plebe anche molti dell’ordine nobile, e sta morendo il senatore presidente del magistrato della sanità, et altri senatori sono parimente feriti, è cresciuto il disordine, sono morti tutti gli officiali e ministri della posta, e si travaglia a dar ricapito alle lettere. Insomma il tutto è funestissimo, e lagrimevole, et io sempre più devo ringratiare Iddio che m’habbi fatto ritrovare lontano da essa in luogo d’aria perfettissima, et d’intera generalissima salute » (AAE, CP, Gênes 10, cc. 56-57, 7 luglio 1657). Sul finire dell’estate la città tornò lentamente a vivere. « Le cose del contaggio vanno da noi prendendo buona piega », scriveva il 17 agosto, « non morendo nella città quasi più alcuno, e de feriti quasi tutti risanando. La strage però è stata grandissima, passando il numero de morti nella città sola settantamila, e Genova, durerà fatica a rimettersi nella floridezza di due anni fa. Un miracolo si osserva palpabile grandissimo, che in una spopolatione sì inaudita le galere si siino conservate intatte. Si va rintroducendo il buon ordine, si rifrequenta il Palazzo, e dalla posta si faranno le solite speditioni, intermessese per qualche tempo stante la morte di tutti quelli che vi servivano. De gentilhuomini se ne saranno perduti da dugento fra quali sette eccellenze di toga senatoria, de mercanti infiniti, della plebe le tre quarte parti, de preti e regolari quasi tutti indistintamente d’ogni religione, et la robba che si è bruggiata sormonta un millione e mezzo di scudi, senza gl’ori, et gli argenti stati rubbati, come il denaro che si conservava nelle case de particolari. Dio mi ha fatto la gratia di farmi rittrovare fuori di Genova, perchè con la robba che mi hanno bruggiato vi perdevo anche la vita, essendo la mia casa (servendo al Re) di troppo continuo necessario traffico, e così le cinque persone che vi tenevo sono morte tutte » (AAE, CP, Gênes 10, cc. 64-66).

[8] BAV, Barb. Lat. 9827, cc. 135-136, Giannettino al Cardinale Antonio, 24 novembre 1657. Cfr. la lettera di Mazzarino a Giannettino del 25 settembre 1657 in AAE, MD, France 273, cc. 435-436, trascritta qui in appendice.

[9] Il Padre Diaceti ebbe a occuparsi delle presunte origini genovesi della famiglia Mazzarino. Vedi in appendice le lettere di Mazzarino dell’11 settembre e del 13 novembre 1654 e del 19 febbraio 1655.

[10] AAE, CP, Gênes 10, cc. 106-108, 14 febbraio 1658.

[11] Ricci, pp. 195-197, 15 febbraio 1658; la lettera originale, dalla quale trascrivo, è in ASC, ms 049, doc. n.138. Già due anni prima Mazzarino aveva promesso alla moglie di Giannettino di occuparsene: « Non deve Vostra Signoria dubitare della memoria che conservo di quelle cortesie che hanno da lei ricevute le mie sorelle e nepoti nel loro passaggio per Genova quando vennero in Francia, e così deve tenere per fermo ch’io le corrisponderò quando veda il tempo di poter servire bene il signor marchese suo consorte. Egli ha veramente molto ben servito il Re e se gli deve una giusta ricompensa, ma con l’esempio degl’altri sarà facile il conoscere che ancora non si può fare tutto quello si vorrebbe. Vostra Signoria ha qua un figlio: in lui caderanno le gratie di Sua Maestà, et io ne havrò cura particolarmente benchè sia sotto quella del signor cardinale Antonio, né mancherò di procurare ancora di sovenire in altro modo al loro bisogno, et auguro per fine a Vostra Signoria tutte le felicità immaginabili » (AAE, MD, France 273, c. 53, Parigi, 25 febbraio 1656).

[12] AAE, CP, Gênes 10, cc. 140-143, 3 maggio 1658.

[13] AAE, CP, Gênes 10, cc. 173-174, 27 agosto 1658.

[14] « Con non poca meraviglia ho letto nelle lettere che egli [il figlio di Giannettino] mi scrive che stava dalle cinque hore della mattina sino alle 12 alla porta non di Vostra Eminenza, che sarebbe honore, ma di monsignor Vescovo di Fregius, senza potter havere audienza, e pure credevo ch’un mio figlio, doppo d’essere di sì longo tempo servitore di Vostra Eminenza sì benemerito di cottesta Corona, doppo le benignissime promesse fattemi di suo proprio moto da Vostra Eminenza dovesse essere considerato diversamente » (AAE, CP, Gênes 10, cc. 362-363, 31 agosto 1660).

[15] Parola illeggibile.

[16] AAE, CP, Gênes 10, cc. 378-379, 15 novembre 1660.




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Barbara Marinelli

Un corrispondente genovese di Mazzarino


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Indice
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Indice dei nomi
Opere citate
Genealogia


Giannettino Giustiniani
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1j 1k 1l 1m

APPENDICI

2. Il Ristretto

3 Le lettere
3a. Introduzione
3b. 1647-1654
3c. 1655-1656
3d. 1657-1660


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