Ancora giorno dopo giorno


Ogni mattina gli americani si gettano nelle loro strade ancora fumiganti di brina, sovrastate da spicchi luminosi di edifici, ed entrano nella loro parte. A volte si può anche sentire il ciack della regia. Non sto dicendo che gli americani recitino, o peggio, fingano. Semplicemente, vivono in un film.
Esistono due film principali in America: uno è quello in cui gli europei pensano di essere finiti quando atterrano con l'aereo (una specie di colossal che compendia tutta la produzione cinematografica hollywoodiana - dal cowboy agli inseguimenti autostradali, passando per il serial killer, i cocktail di nevrotici intellettuali newyorkesi, e tutta una gamma di colori: il colore viola, il colore dei soldi, ecc); l'altro è invece quello di cui fanno parte, ogni giorno, gli americani.
Non è cosa da poco essere attori di questo secondo colossal.
Prima di tutto si deve inserire la colonna sonora, infilando il walk-man alla fermata dell'autobus. Qui, questo piccolo miracolo della tecnica non subisce discriminazioni in favore della ganga adolescenziale cui noi siamo abituati. Qui c'è la signora cinquantenne che va a fare la spesa indossando le sue morbide Nike e il suo walk-man satinato, su cui scorrono le lunghe unghie cromate. Qui c'è il signore in giacca e cravatta con il walk-man che sbuca dal taschino. Qui c'è la regina di Saba, una matrona africana gloriosamente ornata di manti e di ori dal cui apparecchio filtrano armonie arabeggianti.
Una volta sintonizzati sul proprio destino, gli americani attraversano il loro set di piante plastificate e cartapesta, incontrando le tante comparse della propria vita. Quando non si incontrano le comparse si creano, perché niente è più semplice che attaccare una breve, effimera conversazione. Nell'attraversare questa loro enorme cinecittà gli americani non camminano, scorrono su dei nastri a velocità costante. Nei minimi, quotidiani cambiamenti di scena, nella variazione degli scarti minimi, ritrovano una continuità gratificante. La varietà nel sempre uguale.
Ognuno ha il suo canovaccio su cui può improvvisare, e nessuno sembra conoscere il regista, ma difficilmente c'è qualcuno che esce dal proprio percorso. Tutti sanno dove andare e ci vanno con grande determinazione e spensieratezza. Anche il nero seduto sui gradini che chiede l'elemosina allungando il bicchiere di Pepsy sembra soddisfatto del suo ruolo.
Così, seduta nella poltroncina di un café soffuso di musica e tenui colori - l'unico posto dove la musica rimane confinata in un ragionevole numero di decibel - mi aspetto sempre di vedere al tavolo accanto Magnum PI che si liscia i baffi. Non mi stupirei né potrei lasciarmi andare in rumorose esclamazioni - essendo i café dei templi dello studio in cui un italico starnazzamento sarebbe inimmaginabile - perché in fondo si tratterebbe sempre di un collega. Anch'io mi sono abituata a camminare per strada sentendo i riflettori che mi seguono; e quando in ascensore si finisce uno scambio di battute, alzando velocemente gli occhi si può ancora scorgere la giraffa ritirarsi.
A volte qualcuno si mette in proprio e fa un film come Il Truman show, che gli europei scambiano per satira. Senza capire che si tratta solo di un discorso all'ennesima potenza.


Carola Frediani

Lettere pittsburghesi

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Indice
Prefazione

1. 2. 3. 4. 5. 6.
7. 8. 9.10. 11.
12. 13. 14. 15.
16. 17. 18. 19.
20. 21. 22. 23.
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