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Racconto di M.
Il primo giorno di lezione notai che stava seduta con
accanto la madre, una cinquantenne dall'aria mite e silenziosa. Lei, invece,
era un fascio di nervi, con un viso da roditore, magro e pallido, gli occhi
blu spalancati dall'agitazione, i capelli acciaccati come dopo un temporale.
"Io non ho mai studiato italiano prima" balbettò nell'unico
momento in cui le rivolsi la parola.
Alla fine della lezione, nella confusione allegra del primo
giorno, venne a parlarmi - la madre sempre alle spalle come un'ombra -
chiedendomi se il corso d'italiano sarebbe stato duro. Se ce l'avrebbe
fatta. - Ma certo che ce la farai - la rassicurai, pensando di avere a
che fare con una iperansiosa.
Il giorno dopo, nel dipartimento, mi ferma la segretaria,
dicendomi che aveva telefonato il tutor di una mia studentessa, una certa
M. Era importante che lei continuasse a venire - mi spiegò - che
non mollasse. M. era una matricola di 24 anni che riprendeva gli studi
dopo una lunga storia di problemi e abusi famigliari. Era importante che
stesse nel campus e non a casa.
Così dicendo, la segretaria mi aveva mollato un numero di telefono:
dovevo chiamarla e convincerla a venire.
Feci il numero con lo stesso sentimento di quando si aiuta una vecchietta
ad attraversare la strada, anche se con un vago, subconscio sospetto di
stare imbarcandomi in una situazione non setacciata dai vari corsi di orientamento
e formazione dell'università di Pittsburgh.
Dal giorno seguente M. venne senza la madre, sola con lo zaino che sulle
sue gracili spalle s'ingigantiva, ed il passo lento e insicuro.
Sedeva in prima fila e riempiva freneticamente di note una serie di taccuini
gialli. Anche il libro di testo andava riempiendosi, di sottolineature strisce
d'evidenziatore foglietti adesivi appunti a margine.
I primi giorni mi aspettava a fine lezione, mi chiedeva di procurarle esercizi
extra e altri libri. Avevo notato che in effetti seguiva con difficoltà
quello che dicevo in classe, e spesso si estraniava e con la penna rossa
incideva isolotti tropicali sul legno ruvido del banco. Faceva lo stesso
rumore di un topo che stia rodendo i fili della luce. Tuttavia, quello che
più mi preoccupava, era il fatto che fosse completamente sorda alle
mie rassicurazioni e ai miei suggerimenti. Ripeteva ogni volta le stesse
domande, con la stessa espressione di cane bastonato che s'illuminava di
speranza quando m'impegnavo a sfornare sorrisi, sismografando sul suo viso
pallido e scavato ogni mia minima variazione di tono, una modulazione della
voce, una piega della bocca.
In una manciata di giorni M. aveva creato, col solo fatto di aspettarmi
a fine lezione, e poi di venire anche prima nel mio ufficio, un rapporto
che non era più insegnante-di-lingua-straniera/studente.
Alternava fasi di autovittimizzazione a scatti di aggressività, spesso
si faceva paranoica per delle sciocchezze o individuava segrete, oscure
connessioni nella trama del reale.
- Hai mai pensato di andare a parlare con qualcuno all'ufficio di counseling
dell'università ? - le avevo detto un pomeriggio in cui lei era comparsa
nel mio ufficio un'ora prima della lezione, e dalle domande ansiose sull'italiano
era passata a parlare, sempre in modo vago e confuso, dei suoi problemi,
di un certo tipo che la importunava, del detective assunto dalla madre,
dell'odio per il patrigno.
- Cosa? - era saltata lei sbiancando - Hai parlato con la tipa che sta nella
camera accanto alla mia? -
Io la guardai come se mi stesse parlando arabo.
- La tipa della stanza accanto? -
- Si, anche lei mi ha detto la stessa cosa, di andare al counseling. Vi
siete parlate, vero? Pensi che sia pazza, vero? -
È stato forse in quel momento che accanto alla disponibilità
iniziale si è insinuato in me un conato di fuga, e al sentimento
d'inadeguatezza si è legato un senso d'oppressione, una mancanza
d'aria.
Quella volta lasciai cadere l'argomento, pensando che avrebbe dovuto ruminarlo
per un po', e infatti già il pomeriggio successivo lei si era affacciata
sul mio ufficio, lenta e guardinga come su un campo di mine, fissandomi
con quegli occhi blu-paura che dicevano "non picchiarmi".
- Mi volevo scusare, non volevo offenderti - mi diceva quasi ogni giorno
per cose che nemmeno ricordavo. I momenti in cui si scusava erano quelli
in cui più mi dovevo controllare, perché qualcosa dentro di
me si ribellava, si scostava inorridito da scuse incomprensibili che rintoccavano
di accuse.
C'erano dei giorni che arrivavo in ufficio col terrore di vederla, e svoltavo
l'angolo con l'occhio fisso sul divano dove di solito mi attendeva, inamovibile.
Una volta sentii la sua voce che domandava di me a una collega: mi fermai
di botto e mi rinchiusi nella stanza dei computer, dovevo scrivere una email.
Il pensiero di doverla incontrare era tuttavia peggiore della realtà.
Quando non ero stressata mi faceva piacere parlare e scherzare con lei,
vedere che si rilassava, che rideva con quel suo modo buffo di coprirsi
i denti, come se tossisse.
Lei aveva aumentato le domande personali: un giorno che era passato un mio
amico a salutarmi nell'intervallo mi aveva chiesto se quello era il mio
fidanzato. Poi che cosa significava il ciondolo a mezza luna che portavo
al collo. Poi se le strisce rosse che avevo nei capelli erano naturali.
In effetti già dal primo giorno, inseguendomi mentre mi precipitavo
fuori dall'università, aveva accennato al fatto di poter restare
amiche dopo il corso, "perché lo so che durante non è
permesso". Io allora avevo distrattamente detto di sì, come
si dice di sì a qualcuno che ci saluta dicendo "ci sentiamo".
"Potremmo andare in Florida, ho un amico che lavora a Disneyland, potremmo
entrare gratis" mi aveva detto.
Io trovavo la situazione alquanto grottesca, e aspettavo che il passare
dei giorni la modificasse, che lei si tranquillizzasse, facesse amicizia
nel campus o si stufasse di venire da me.
Invece un giorno la trovo accasciata sul divano, indosso gli occhiali da
sole come gli occhi giganti di una mosca. Doveva portarmi un test che le
avevo dato da fare a casa, ma insieme a quello mi tira fuori delle fotografie,
la casa in North Carolina dove aveva vissuto, la madre, e altro che non
ricordo. Poi mi chiede se possiamo parlare in privato. Allora ci chiudiamo
dentro l'ufficio, la faccio sedere mentre io scartabello di corsa tra i libri e il materiale per la lezione.
Lei inizia a piangere, dice che la sua vita è uno schifo. Che lo
sarà sempre, che l'hanno rovinata, rovinata per sempre.
- Sono una stramba, nessuno mi vorrà più stare vicino, io
faccio ribrezzo, e se le persone mi conoscono non possono che scappare,
perché non sai quanto sono cattiva. Odio la mia famiglia, odio il
mio patrigno, che mi ha sempre picchiato, e quando due anni fa mi è
successo quella cosa ha detto che mi stava bene, che me lo meritavo. No,
non posso parlare di quello che è successo, è troppo terribile,
a nessuno è successo quello che è successo a me, quello che
mi hanno fatto è irreparabile, mi hanno rovinata, mi hanno lasciato
segni indelebili, nessuno vorrà più starmi vicino, non potrò
avere intimità con nessuno, perché sono troppo repellente;
la mia amica R., anche lei mi ha trattato di merda, io sono stata innamorata
di lei per nove anni, lei era più grande, però anche a lei
in fondo non gliene fregava niente, ed è sparita, non so neanche
più dove sia, i suoi genitori mi hanno detto che lavora per la CIA".
- Per la CIA? - le domando.
La mia mente era un foglio bianco che trascriveva le sue parole senza tentare
di giudicare, potevano essere tutte vere o tutte false. O potevano essere
miste, e questa era l'ipotesi che più mi disturbava.
- Ma chi è che ti ha fatto violenza due anni fa? Erano ragazzi che
conoscevi? -
- Poliziotti - dice lei - Non sai quanto la polizia può essere corrotta
in questo paese. -
Io lo sapevo, ma di fronte alla violenza assurda della sua descrizione mi
veniva da dubitarne. Infierire così su quello scricciolo che dimostrava
12 anni, e per quale motivo poi? No, neanche nell'immaginario più
antiamericano riuscivo a inserire quel fotogramma.
D'altra parte era chiaro che un trauma terribile, e come diceva lei, indelebile,
l'aveva schiacciata ad un certo punto della sua vita, comprimendola, cristallizzandola
per sempre nell'espressione della bambina spaventata.
- A momenti penso che non ha senso andare avanti. Tanto non ho futuro. Meglio
finirla. -
Era la prima volta che qualcuno mi parlava così direttamente di suicidio.
Ebbi l'incongruo pensiero che fosse troppo debole, troppo infantile e gracile
per commettere un'azione grandiosa come quella. Pure, razionalmente, mi
resi conto della gravità di quello a cui stavo assistendo. O così
almeno credevo.
- Senti, è importante che tu ne parli con qualcuno, qualcuno di esperto,
capisci? Non sei l'unica ad aver vissuto esperienze così terribili,
ci sono persone che ci sono passate, che queste esperienze le conoscono,
che possono aiutarti. Se ti va possiamo andare insieme domani, magari ci
incontriamo al caffè prima. -
Disse di sì. Poi siamo andate in classe e ho iniziato la lezione
come se nulla fosse.
La mattina dopo è entrata nel caffè con gli occhiali da sole
e i capelli bagnati di doccia. Le ho offerto un'aranciata e le ho presentato
il barista, un mio amico. Poi siamo uscite nel sole, io cercavo di intrattenerla
con argomenti futili. Temevo cambiasse idea.
- Quel ragazzo è il tuo fidanzato? - mi fa appena fuori dal caffè.
Entriamo nell'ufficio del counseling ed ho una fitta allo stomaco. Accanto
alla segretaria lavora una mia studentessa, una compagna di classe di M.
Tuttavia le due ragazze s'ignorano, mentre io m'impappino cercando di spiegare
alla segretaria la situazione.
- Vorrei parlare con uno psicologo. -
- Sei una studentessa? -
- No...cioè, sì, anche". -
- Per quale motivo ci vuoi parlare? -
- Veramente non ci devo parlare io... -
Sguardo interrogativo e ostile.
- È per me - interviene M.
- Ok - riprende la quarantenne occhialuta - Ma dovete prendere appuntamento.
-
- Non si può fare oggi? - dico io
- Solo per le emergenze.-
- E cos'è un'emergenza? - rispondiamo in coro io e M. Quasi mi veniva
da ridere.
- Un caso di vita o di morte. -
- A volte la penso in questi termini - fa M.
Negli occhiali della donna si riflesse un lampo di dolcezza.
- Allora è giusto che ne parli subito con qualcuno. -
La lasciai nelle mani di un dottore dall'aria grave e uscii. Mi sentivo
bene. Tutto sarebbe stato in discesa.
E infatti il giorno dopo lei si presentò nel mio ufficio sorridente.
Mi ringraziò. Mi disse che ce l'avrebbe fatta e tirò fuori
un libricino. Era al quinto stadio del percorso degli alcolisti anonimi.
Doveva essere qualcosa che risaliva ad anni addietro, quando mi aveva detto
di essere stata "in cura" per un certo periodo, e che poi l'avevano
punita costringendola a lavorare. Quel libro non c'entrava niente con il
counseling, ma mi disse che aveva un colloquio fissato per l'indomani. A
quel colloquio non andò mai.
Quando mi rivelò di non essere andata sentii salirmi una vampata
agli occhi.
- E perché? -
- Non lo so. Non me la sento di parlare. Non mi crederebbero. Non serve
a niente. -
Era di nuovo pallida, di nuovo quell'espressione sofferente e difensiva.
Pensai che la sera prima doveva aver bevuto. Lei stessa mi aveva confessato
di bere spesso. La sera non riusciva a dormire, e allora beveva e usciva,
vagava per downtown. La immaginavo con molto sforzo in mezzo ai grattacieli
deserti del centro, nelle strade percorse solo da qualche taxi e dai barboni.
Cercai di convincerla ad andare a un nuovo appuntamento e troncai la conversazione
ogni volta che lei svicolava su altri argomenti. Cominciavo ad attendere
con ansia la fine imminente del corso.
E la fine arrivò. Era l'ultimo giorno, stavo preparando l'esame finale,
annaspavo tra una miriade di fotocopie che dovevo dividere in mazzetti e
pinzare. La fotocopiatrice faceva le bizze, io le rovistavo nello stomaco
con le mani nere di toner e un occhio all'orologio. Quando vedo M. la faccio
sedere al tavolo, mentre io continuo a lavorare frenetica. Lei mi fa una
serie di domande disconnesse.
- Dopo lezione esci sempre? No, perché sei sempre vestita bene. Mi
piace la tua camicia. -
Io minimizzavo.
- Scusa non dovrei farti queste domande. -
- No, non ti preoccupare - le rispondo meccanica. Avrei concordato su tutto
quello che diceva. Bastava che mi lasciasse lavorare in quegli ultimi minuti
che mi scivolavano dalle mani.
E infatti, mentre tento di rispondere all'ennesima delle sue interrogazioni,
un pacco di copie mi scappa dalle dita disfacendosi a terra.
- Merda - tuono tra i denti in italiano.
M. si alza e se ne va.
- Ci vediamo in classe - le dico mentre si dilegua.
La ribeccai invece poco prima di entrare nell'aula. Mi diede un pacco di
cioccolatini e una cartolina in una busta. Mi disse che voleva che restassimo
amiche. Io le dissi di sì e mi precipitai dentro. Era tardi. Consegnai
i test e subito accadde quello che avevo temuto. Alcuni studenti lamentavano
di non avere tutte le pagine. La faccia mi bruciava, avrei voluto fulminare
sia M. sia gli studenti che si lamentavano. Poi ovviai in extremis al problema
con altre copie.
Mi sedetti ed aspettai. Ero sfinita.
Dopo due ore sono rimasti in cinque. Un ragazzo mi consegna l'esame e mi
saluta dicendomi che m'avrebbe visto al party. Infatti il giorno prima lui
aveva invitato tutta la classe a una festa. Caso e disdetta avevano congiurato
e fatto sì che M. fosse arrivata un minuto dopo.
- Fa piacere saper di essere tagliata fuori dalla classe - urla lei tra
i denti. Provo a dare una spiegazione, invano.
- Non importa - continua piegandosi sul test. Poi me lo consegna quasi sbattendolo.
- È bello essere odiati da tutti - dice andandosene.
Io non dico niente. Non mi alzo a rincorrerla. Non mi muovo dalla sedia.
Non fiato.
Più tardi nel corso della giornata ho aperto la busta. Era una di
quelle carte d'auguri prestampate:
"Le persone che sanno prendersi a cuore gli altri
hanno un modo fantastico di rendere la vita diversa in coloro che toccano".
Ho mollato la cartolina in un angolo della casa; non mi va né di
tenerla né di buttarla. Poi ho pensato alle parole che lei mi aveva
detto un giorno:
- Non sarà che tu mi stai ad ascoltare perché vuoi scriverci
sopra una storia, vero? -
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Carola Frediani
Lettere pittsburghesi
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Indice
Prefazione
1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31.
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