Eserciti della salvezza


Passo il Birmingham Bridge, un ponte in arcate metalliche verderame, e arrivo nel South-Side, che è appunto il meridione cittadino, una striscia esclusa dal triangolo vitale, tutto specchi e grattacieli, formato dall'incrocio dei due fiumi di Pittsburgh, ma adagiata tra il versante sud del Monongahela e le colline. Popolazione: uno strano mix di studenti, yuppies e pittsburghesi che non hanno mai messo naso fuori da uno dei pub del quartiere. La strada in cui mi trovo è una lunga sfilza di locali e ristoranti, è la parte più lasvegasiana della città, ma a una delle sue estremità si fa improvvisamente desolata. Da un lato, a fianco del fiume, spazi vuoti su cui le ruspe cominceranno a costruire nuovi ristoranti e megasupermercati. Dall'altro, sotto la collina, edifici grandi e scialbi in mattoni sbiaditi.
Mi fermo in una coffee house dall'estesa vetrata: i tavolini rossi ordinatamente ricoperti da tovagliette a fiori plastificate, le tazzine, la decorazione floreale ripresa in una cornice tra parete e soffitto, il cartello in legno "benvenuti amici", il frigo Pepsi in pendant con l'orologio Pepsi, e il banco che si apre a vista sulla cucina di metallo, tutto mostra le tracce del locale che è veramente "locale", la parte verace e kitsch della provincia americana. Dentro, nessuno, a parte i due gestori cinquantenni. È il café ideale, in armonia perfetta con la strada e la giornata piovigginosa. E con la musichetta pop-country in sottofondo. Entra un avventore, un amico dei gestori, aria e accento working-class, cantilenante e a scatti insieme, camicia a quadri, jeans e barba. Parlano i due uomini, mentre la donna mi viene a versare un lungo bollente imbevibile caffè.
Passa ancora qualche minuto e anche se sono in anticipo decido di mettere fine a una lieve sensazione di disagio e agli sguardi discreti dei proprietari, ed esco.
Sono ormai a destinazione. Un grande edificio a otto piani e un cartello: The Good Will. Industries of Pittsburgh. Mi si spalanca la porta automatica, ed entro in un androne in moquette e luci soffuse. Ci sono persone su carrozzine che attendono e guardano fuori dalla vetrata, mentre la receptionist mi dà un cartellino e mi indica l'ascensore. Arrivo al sesto piano: nuova receptionist, corridoi, uffici, moquette, poster e targhe di merito. Una di queste è da parte della contea e menziona un programma di alfabetizzazione. Accanto, una scritta sulla forza e il potere del lavoro. Ed è proprio questa la filosofia del Good Will, la buona volontà, come dice il suo nome, volontà che è diventata multinazionale della carità, sparsa in tutto il paese e all'estero, una società non-profit, privata e aconfessionale, finanziata da una miriade di rivoli - donazioni private, fondazioni, fondi statali ecc. - e impegnata in ogni settore della sfortuna sociale: disabili, homeless, poveri, disoccupati cronici, analfabeti, carcerati, drogati. A volte tutte queste categorie ne formano una sola, a cui va sovrapposta anche quella di nero o di "ispanico" o di qualche altra minoranza.
Assisto a una lezione per disabili mentali. Sembra un asilo dell'Emilia, colori, materiali e computer abbondano. Ci sono due insegnanti per una classe di otto persone; l'ambiente è rilassato. Una donna in tuta rosa mi viene a mostrare il suo quaderno. Gli altri sono impegnati a fabbricare cartoline per San Valentino.
Il giro del Good Will prosegue poi con una visita alla mensa, un immenso salone dal pavimento a scacchiera e cuori rossi che pendono dal soffitto (altro tributo a Valentino), e ai magazzini, dove si effettua la produzione, dove cioè le persone dentro ai vari programmi dell'agenzia fanno lavori vari (e retribuiti), quali infilare depliant in sacchetti o impacchettare oggetti. Un tipo sui cinquant'anni dall'aria professionale ed energica mi spiega il loro recente programma con gli homeless: prima l'aggancio tramite l'Esercito della Salvezza, e le scremature; poi la disintossicazione da sostanze d'abuso; poi il lavoro al Good Will; e poi il sostegno per iniziare a vivere da soli. Purtroppo mi sa parlare solo dell'efficacia del loro programma, ma non mi sa dire né quanti sono gli homeless in città, né come sono. Non c'è una particolare coloritura razziale, mi assicura, le donne sono di meno ma in crescita, l'identikit è doppia diagnosi: vale a dire problemi psichici e di dipendenza da sostanze.
Non sa dirmi come gli homeless sono visti in generale dalla popolazione, né se ci siano stati episodi di violenza, né se ci sia un programma statale o municipale o distrettuale che si occupi specificamente di loro. In compenso ne manda a chiamare uno che sta lavorando lì. Arriva una tipa afroamericana, tuta e sguardo imbronciato, un po' autistico. L'idea di dover affrontare lo slang incazzato di una senza tetto americana mi inquieta un po', e soprattutto non ho la più pallida idea di cosa chiedere. Ma il tipo del Good Will mi toglie dall'imbarazzo, e conduce lui l'intervistina direttamente: come ti trovi qui da noi? ti sembra che il nostro programma ti dia una struttura? La donna è impaziente di andarsene, risponde a monosillabi e non tiene lo sguardo fisso su un punto per più di tre secondi.
"Non immagineresti mai quanto siano più vicini a noi che distanti", mi dice sorridendo il tipo dopo che l'intervistata se n'è andata.
L'ispezione è quindi proseguita nel supermercato del Good Will, dove si vendono soprattutto vestiti usati, ma anche computer e mobili. L'amica che mi sta conducendo mi fa sgattaiolare nel retro vietato ai clienti. Qui si selezionano i vestiti donati e quelli infimi sono compressi in balle di stracci che verranno rivenduti. La supervisora del magazzino ci sorprende tuttavia con aria inquisitoria e solo dopo aver ricevuto abbondanti spiegazioni, ci guida piuttosto freddamente per il resto del negozio.
- Lavori anche tu al Good Will? - mi domanda
- No, sono solo interessata, perché esistono simili agenzie nel mio paese, l'Italia… -
- L'Italia? È anche il mio paese! - si illumina la prima arcigna capoccia, mostrando la dentatura da working-class.
- Sono di Campobasso, sono venuta a Pittsburgh venticinque anni fa - Mi dice inoltre che torna in Italia ogni estate a trovare la madre e che stanno per aprire un Good Will anche a Roma.
A Roma?
Sì, mi assicura, lo stesso sindaco di Roma è venuto a visitare il Good Will (il negozio dove stavamo in quel momento)! Credo fideisticamente a quello che mi dice, e la saluto con la promessa di tornare a trovarla in negozio.
- Un Good Will a Roma? - commenta la segretaria del mio dipartimento la mattina dopo - Per amore del cielo! Ma d'altronde, come si aprono i Mac Donald's...


Carola Frediani

Lettere pittsburghesi

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Indice
Prefazione

1. 2. 3. 4. 5. 6.
7. 8. 9.10. 11.
12. 13. 14. 15.
16. 17. 18. 19.
20. 21. 22. 23.
24. 25. 26. 27.
28. 29. 30. 31.



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