Dentisticherie


Mi sveglio una mattina e il fastidio alla gengiva è diventato dolore. È lo stesso dente su cui mi è stata fatta un'otturazione tre mesi fa. Evidentemente la carie era troppo profonda ed è necessaria una devitalizzazione, quella che qui, con una parola dalla risonanza un po' inquietante, chiamano root-canal.
Telefono all'ufficio dentistico della mia assicurazione, quella specifica per denti e occhi, per la quale sborso direttamente dalla paga circa venti dollari al mese (gli altri ce li mette il mio datore di lavoro, l'università). Preciso che siccome sono un'ottimista la telefonata non la faccio subito, ma dopo qualche giorno, quando il dolore, invece di attenuarsi con gli sciacqui dell'ultimo portentoso disinfetta-e-distruggi-colgate, è andato aumentando.
Mi danno appuntamento dopo nove giorni.
- Nove giorni? - le faccio tra l'incredulo e il sofferente. - Mi fa male. È da due notti che prendo medicine per dormire. Come faccio a resistere nove giorni? -
- Quel giorno è l'unico che ho disponibile - mi fa glaciale la signorina riagganciando.
Mi accascio sulla sedia. Il dolore al dente sembra all'improvviso ringalluzzito dal solo fatto di averne parlato. Nove giorni. Prefiguro notti insonni e pulsanti, sudata nel letto mentre l'infezione avanza insieme alla febbre. Penso sempre che potrei volare in Italia e andare dritta dalla mia cara dentista di fiducia, una figura a metà tra dio e la mamma. Poi penso che sono ipocondriaca e che se durante il giorno posso vivere normalmente la situazione non è così grave.
E dunque arriva la notte. Prendo gli antinfiammatori ma il dolore è lì, in agguato, nascosto sotto la lapide del mio dente moribondo che dà gli ultimi sussulti disperati di vita.
Alle sette del mattino mi alzo incazzata come una biscia. Riprovo a telefonare e la signorina mi liquida ancora più velocemente di prima. Allora decido di andare di persona, almeno non potrà chiudermi il telefono in faccia. In fondo l'assicurazione la pago, diobono.
E cosi adotto la tattica all'italiana. Vado, simulo un dolore spropositato (dicesi di dolore che porta a far commettere spropositi) e soprattutto non mi schiodo dalla vista delle tre segretarie che sono chiaramente seccate ma non possono mandarmi via. Alla fine, dopo avermi chiesto il mio tipo di assicurazione, mi fanno visitare da un medico giovane giovane, probabilmente della scuola dentistica. Lui è molto gentile e mi offre due possibilità: che lui inizi la devitalizzazione, e poi il medico in carica la finisca; oppure che lui mi prescriva degli antibiotici e antinfiammatori in modo da resistere fino alla settimana dopo. Io, naturalmente, sarei per, come dire, togliermi il dente subito, ma cerco di capire cosa veramente vorrebbe il tipo.
- Ma se faccio la devitalizzazione la prossima settimana sarà tutto in una volta? Come mai? Di solito non ci vogliono due sedute?-
- Sì, ma questo dente non è difficile, e in più il Dottor Wallace ha un'esperienza trentennale - mi fa con una genuflessione rispettosa della voce nel pronunciare il nome del Dottore.
L'impressione è che lui preferisca somministrarmi le medicine, non so se perché intimidito dal mio premolare o piuttosto dal professorone, a cui, immagino, non vuole sottrarre l'osso succulento dei soldi dell'assicurazione. Insomma, accetto a malincuore le prescrizioni e me ne vado, riponendo le mie speranze nei trent'anni d'esperienza e bla bla bla (non sarà mica un vecchio dalla mano tremolante? mi sovviene a un tratto nell'uscire dall'edificio).
Dopo essermi imbottita d'antibiotici e consimili arriva infine il benedetto giorno. L'assistente mi accompagna in uno dei molti scompartimenti da cui traspare con più evidenza la taylorizzazione della medicina. Mi sdraio e attendo. C'è la radio accesa. Doctor Wallace arriva. Ha circa cinquant'anni e l'aria da super-giovane. È tutto frizzi e lazzi. Devo fermarlo prima che inizi perché vorrei mi spiegasse che cosa sta per fare. Di certo non si dilunga. Gli dico che voglio il rivestimento bianco e non scuro come mi è stato fatto nell'otturazione. Ovviamente, ridacchia lui, implicando che non siamo mica in Italia, dove ancora si fanno le otturazioni girigie.

- Veramente me l'hanno fatto qui - gli dico il più gentilmente possibile.
Poi lui mi chiede, in quanto italiana presumo, cosa ne penso del Papa. Risatina. Sua. Non me ne frega un c..., mi verrebbe da rispondergli. Ma il trapano che pende dietro la mia testa come un segreto auricolare mi suggerisce un calmo, similfaceto: - Non ci penso granché al Papa -.
Lui continua a ridacchiare. Poi inizia. Tra le altre cose mi mette in bocca un fazzoletto di gomma che me la tiene aperta, bloccata e al riparo da eventuali frammenti. Doctor Wallace fa tutto senza smettere di chiacchierare e fare (stupide) battute con la sua assistente (nera), frasi del tipo: "Tutta Portorico si è trasferita a New York, Cuba a Miami, e l'Italia a Pittsburgh", ecc ecc, seguite da commenti quali: "Silenziosa la nostra paziente, vero?" e conclusi immancabilmente dalla risatina.
Alla fine la tortura è finita. Mi viene detto che il dente è stato riempito con materiale provvisorio, che devo prendere un appuntamento per quello definitivo. La segretaria mi spara una data dopo quindici giorni. - Sarò in Italia - rispondo con la freddezza della rassegnazione.
La segretaria fa finta di provare a cercarmi un altro angolino e chiede al Dottor Wallace, il quale sta passando in quel momento e senza neanche fermarsi, leggiadro e giulivo, risponde che non ha spazio.
Grazie al cielo, mi dico. - Mi dia l'appuntamento a fine agosto, - dico alla segretaria.
Poi esco e me ne vado. A comprare un set di spazzolini e dentifrici.


Carola Frediani

Lettere pittsburghesi

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Indice
Prefazione

1. 2. 3. 4. 5. 6.
7. 8. 9.10. 11.
12. 13. 14. 15.
16. 17. 18. 19.
20. 21. 22. 23.
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