Bus di razza


- Allora, come ti chiami? - insiste per l'ennesima volta il nero seduto due posti più in là, rivolto a una ragazza turca.
Circa l'una di notte, il solito bus che attraversa i quartieri bianco-varichina per approdare ai suburbi neri dell'est di Pittsburgh. L'automezzo è pieno di gente e la scena si svolge verso il fondo, dove un uomo dai probabili trentacinque anni mal portati, semisdraiato su due sedili, rilascia disordinatamente parole, schizzi di saliva e zaffate di alcol. Le braccia si muovono seguendo la sincope delle parole, dei fuck e di altri strascichi inafferrabili. La ragazza turca sta impalata senza battere ciglio.
L'autobus è pieno di voci e risate, gruppi di giovani che rientrano dal centro. Il tipo continua a sproloquiare alla ricerca di interlocutori, ma conserva un'aria innocua. Dice qualcosa nella nostra direzione e non possiamo fare a meno di ridere.
- Che c'è da ridere? ridete di me? eh? che c'è di tanto divertente? - La voce s'è inasprita, il busto si sporge e si agita sul sedile. Nessuno osa guardarlo in faccia, cala il silenzio.
- Sì certo, è che sono nero eh? cazzo, è questo il problema, gli sbirri ti fermano come ti vedono, gli uomini ti evitano, le donne ti respingono, no? che cazzo, non è cosi? eh? -
- Ma di che cazzo stai parlando? -
Era da due minuti che lo osservava con un sorriso sulle labbra, e poi ammiccava complice nella nostra direzione: un giovane dai lineamenti messicani, l'aria da studente-lavoratore, la disinvolta sicurezza di chi conosce il fondo ma ne è fuori.
- Allora, si può sapere di che cazzo stai parlando? - gli mimica di nuovo con un sorriso canzonatorio e amichevole. Il nero resta interdetto per qualche secondo.
- Allora, qual'è il tuo problema, eh? -
- Tu non sai che dici - si riprende il nero, intermezzando le parole con una moltitudine di fucks - che ne sai tu... -
- Ehi, amico, io sono messicano, d'accordo? e mia nonna era nera, sì, hai sentito bene, e quindi non venirmi a parlare di discriminazione, piuttosto smettila di lagnarti -
- Ma che cazzo dici? - urla il tipo alzandosi di scatto verso il giovane.
Anche questo si alza e i due si fronteggiano mentre il bus si ferma.
Entrambi urlano velocissimi parole incomprensibili, metà del bus si vuota, anche perché la fermata è l'ultima del quartiere middle-class, la conducente nera non si muove dal sedile, solo urla anch'essa in direzione del nero dallo specchio retrovisore, il bus resta fermo per altri cinque minuti. Poi tutto svanisce in un secondo, la gente si risiede, il bus riparte e il nero si addormenta, la testa che batte contro il finestrino.  

Tre del pomeriggio, stessa linea. Un tipo sui quaranta-cinquant'anni sta seduto tra le prime file, strascicando lentamente in giro lo sguardo offuscato. Assomiglia a Eddy Murphy.
Si rivolge a una ragazza seduta vicino, ma questa risponde con un monosillabo e guarda fuori dal finestrino. Si sporge verso una donna seduta di fronte: - Scusi, scusi miss… -, ma questa assume la tipica espressione a mandibola serrata e occhio distante. Si rivolge a me: - Hai un dollaro? -
- No, mi spiace - rispondo, pensando che ne ho appena ritirati trecento dalla banca.
Frustrato, ricomincia il giro da capo, quando irrompono una decina di ragazzette in divisa da high-school, gonnelline e maglioncini, e gli si assiepano attorno, quasi intimidendolo.
Lui resta meditabondo per un po', poi apre l'impermeabile e tira fuori qualcosa. Si rivolge a una ragazza. Un nero vicino a lui, dall'aria molto per bene, che sta giovialmente parlando con un altro tipo bianco, lo vede e gli dice bruscamente di smetterla.
- Che vuoi? - risponde offeso l'altro. - Mi vuole picchiare - dice poi rivolto a un'invisibile platea. - Mi vuole picchiare - ripete, - sarà dura scendere da questo autobus senza essere picchiato, non so se ce la posso fare -, continua così, a martello.
Poi si cheta e di nuovo tira fuori qualcosa dall'impermeabile: sono due tappi di plastica, uno grande bianco, l'altro piccolo nero. Li mostra alla ragazzetta lentigginosa in piedi di fronte a lui. Mette il nero sul palmo della mano, poi lo copre con quello bianco, infine tira su il bianco, e, voilà, il nero è sparito.
- Magia - dice sorridendo alla ragazza.
 
- How are you today? -, mi dice l'autista mentre gli mostro il tesserino dell'università e i suoni striduli della macchinetta che registra gli ingressi si ripetono dietro di me in una lunga fila di studenti diretti verso casa.
Spinta dall'onda invisibile che avverto alle mie spalle mi dirigo subito verso il fondo dell'autobus, dove le due file di sedili si uniscono a formare un salottino. Oltrepasso varie persone in piedi appese ai ganci e trovo che nel cantuccio del fondo ci sono ancora dei posti vuoti.
Quello che però mi colpisce l'occhio è che, come una "corolla di tenebre", gli ultimi sedili sono occupati solo da afroamericani. Mi fermo in piedi attaccata alla sbarra, quando un giovane nero sprofondato nel torpore del suo giubbotto alza un occhio e mi chiede se voglio sedermi.
Declino gentilmente l'offerta e per togliermi dai piedi e dall'imbarazzo occupo uno dei rimanenti posti vuoti, meditando sulle due contrastanti possibilità del mio ineluttabile invecchiamento e dell'americana indisputabile opaca persistenza del segregazionismo.
Circondata da quello che un certo sub-immaginario televisivo ha reso viventi caricature, immersa nella sensazione di essere non bianca, ma invisibile, trasparente, mi soffermo con evidentemente morbosa curiosità ad osservare i miei compagni di viaggio.
Alla mia destra sta un tipo immerso in completo nike e martellato dal rap del suo walkman, sprofondato nella giacca, impermeabile a ogni sollecitazione esterna, come quelle della ragazza che gli sta a fianco e che, tuta nera e forme straripanti, lo guarda con occhio tigresco e gli rivolge domande che lui, puntualmente, non sente.
Più in là sta una donna che, con le enormi unghie vermiglie divora pollo fritto del burger king, spostando di tanto in tanto il ciuffo biondo ossigenato e congelato in una spirale di gel dal ciuffo rame bruciato, dagli orecchini-lampadario, dalla frangia calcata stile elmo di marine sulla fronte fino a sfiorare le due bande azzurre di matita che congiungono gli occhi alle tempie. Alla mia sinistra sta invece una donna nera minuta (quasi un ossimoro, data la compattezza del blocco razza-classe- educazione-peso), in tuta, berretto e occhiali proletari, rannicchiata nel mondo dei sogni.
Nel mezzo della mia osservazione arriva un'altra ragazza (bianca) e si mette in piedi dove ero io prima, di fronte al tipo mezzo addormentato: questi si risveglia un attimo dal torpore, alza gli occhi e meccanicamente le chiede: - Ti vuoi sedere? -


Carola Frediani

Lettere pittsburghesi

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Indice
Prefazione

1. 2. 3. 4. 5. 6.
7. 8. 9.10. 11.
12. 13. 14. 15.
16. 17. 18. 19.
20. 21. 22. 23.
24. 25. 26. 27.
28. 29. 30. 31.



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