Fondi di caffé


Passa ogni giorno alle tre. Attraversa il rettangolo di vetro e gira l'angolo dove finiscono i tavolini all'aperto recintati di girasoli. Lì la strada s'impenna, ma lui la risale senza rallentare, con la stessa falcata ritmata dallo stereo che stringe teneramente nell'incavo dell'avambraccio, appoggiato sul cuore, come un bambino.
Cammina eretto, con un filo teso lungo la spina dorsale che sembra sospenderlo sulle gambe molli e che ne stanca le spalle aggravitandole verso l'asfalto. I jeans risvoltati rilevano le calze rosse in pendant col berretto, che sembra impossibile levare senza scoperchiare la fronte nera lucida di sole. Nel breve tragitto intorno al caffè stipato di voci la sua apparizione scivola inosservata, non fosse per quell'alone di musica che lo avvolge e che si lascia dietro un retro-senso di colore, un quasi-rosso.
Passa ogni giorno, sempre alla stessa ora, sempre attorno allo stesso angolo, una radio-fantasma che scorre davanti la vetrata, su cui poi tornano a incidersi le macchine, i bus, i passanti con le mani in tasca, gli zaini in spalla e gli walk-man nascosti nelle giacche, solo le cuffie sulle orecchie, anch'essi immersi in una simile aura repulsiva che però nessuno nota, nessuno ascolta.
 
Entro nel caffé di corsa, soprapensiero, guardandomi distrattamente attorno nel caso che qualche faccia nota mi colpisca, quando mi arriva una voce.
- Caroline! -
Guardo in giù. Seduta a un tavolo sta una donna bassa, grassottella, intorno ai quarant'anni, in canotta e pantaloncini rosa, capelli ricciuti e spettinati.
- Sei Caroline, no? - mi dice con enfasi e un abbozzo di sorriso.
- Ssss-ì - balbetto incerta cercando di arpionare nella memoria qualcosa che mi ricordi dove potevo aver incontrato quella donna.
- Sono Gina -.
Un frammento mi attraversa a razzo la mente, lei che mi ferma in mezzo alla strada chiedendomi di dove fossi, ché "anche" lei era italiana, cioè, di origini italiane ecc.
- Ah, come va? - faccio io innescando il pilota automatico, come s'impara a fare presto in questo paese. Mi divincolo dalla conversazione a stento rifugiandomi all'esterno del café, in mezzo ad alcuni amici seduti. Imperturbabile, lei mi raggiunge. Mi sventola sotto il naso (che invano avevo ficcato tra le pagine di un giornale) un mazzo di foto: questo era mio padre da giovane, vedi, aveva la divisa dell'esercito, mi dice indicando una foto in bianco-e-nero stinto, e questa è mia nipote, fa mostrando una bambina di due anni seduta fra i giocattoli nell'interno di una casa; poi altre foto con lei, la bambina e un'altra donna, sempre nella stessa stanza, dove si distinguono un tappeto, delle foto incorniciate sui mobili, dei centrini. Non posso fare a meno di registrare una sensazione di squallore.
Mi mostra le foto sporgendo con tutto il busto e le braccia verso di me, a causa delle altre sedie che fanno da barriera, e parla frenetica, come se stesse chiedendo la grazia a un vescovo.
Impartisco sorrisi benedicenti, finché alla fine lei raccoglie le sue borse che aveva mollato sgraziatamente a terra e salutando effusamente se ne va, il sederone rosa che sventola a destra e a sinistra.
Gli altri mi guardano interrogativi. Io mi stringo nelle spalle protestando invano la mia innocenza.
 
Ha una di quelle camminate che ad ogni passo buttano avanti le spalle lampadate, esposte nelle loro curve anaboliche dalla canotta bianca. Seguono i pantaloncini sportivi in pendant con le nike, che molleggiano le falcate spavalde. I capelli sono letteralmente tirati a lucido in una coda. Il viso è squadrato e duro, lontanamente latino. Superfluo menzionare la catenina d'oro.
Siede al café nei tavolini all'aperto con la sigaretta in una mano e il cellulare nell'altra, dopo aver perlustrato tutte le donne presenti. Si vocifera che sia avvocato specializzato in divorzi: non si stenta a crederlo, probabilmente ne ha pure parte attiva, anche se resta il dubbio di quando lavori veramente, stando sempre al café. Qualcuno ha difeso (e diffuso) l'ipotesi che sia piuttosto uno smerciatore di coca. Anche, si vocifera che sia un razzista. Una volta, a un nero che lo ha salutato calorosamente ha risposto con una serie di ammiccamenti grotteschi, alla giocatore di basket, salvo poi strizzare l'occhio all'amico (bianco) che gli sedeva accanto. D'altra parte, se sei una donna sotto i quaranta che annaspa coi fiammiferi e la sigaretta, lui arraffa il suo zippo e in due secondi te la accende, la mano a coppetta.
Una volta si è seduto non distante da una tipa sui cinquanta, una pazza che viene sempre a bere un bicchier d'acqua con le borse della spesa, i capelli biondastri a spazzola, un vuoto rettangolare nel sorriso. Lei, come fa sempre, ha attaccato a parlare, o meglio, a lanciare nella direzione del tipo qualche frase disconnessa. Lui per un po' ha risposto con qualche grugnito, gli occhi duri che seguivano le volute di fumo, i piedi sulla sedia. Poi è sbottato.
- Con chi stavi parlando prima che venissi io? -
L'ha detto così, voce ferma e intonazione scientifica.
Lei non ha più fiatato.
 
Alle due meno dieci scattano le porte. Istantaneamente rivoli di studenti catapultati fuori dalle aule da invisibili campanelli mentali invadono i corridoi, rimbalzano ordinatamente per le scale, s'infilano nelle porte scorrevoli uno ad uno risucchiati dallo spicchio rotante come una fila di pesci trainati dall'amo.
Davanti all'unico banco di café scavato in una nicchia al pianterreno forse per proteggersi dall'onda d'urto delle diversi correnti che lì si raggrumano negli interstizi delle ore si srotola improvvisa una lunga fila di berrettini e boccoli biondi, tazze di plastica con il logo dell'università, jeans e zainetti.
Dietro al banco, in fila, stanno cinque donne nere.
La prima si affaccia da sopra la vetrina con i dolci grondanti di panna e domanda a raffica le ordinazioni. Ha un viso da Barbie botticelliana, troppo brunita per essere bianca, troppo luminosa per essere nera, i capelli in treccine imbiondite. Domanda cosa vuoi con l'aria di un impiegato postale al limite dell'orario di chiusura, salvo scoppiare in risate impenitenti alle battute delle altre compagne.
La seconda riceve dalla prima l'ordinazione e la scrive su una tazza di cartone per il caffè, oppure si incammina a prenderne una apposita, e davvero sembra coprire una distanza odissiaca, se non fosse dopo due secondi di nuovo al punto di partenza, pronta per il dolce successivo.
La terza sta dietro la cassa e preme a ripetizione i pulsanti, spingendo ed aprendo lo sportelletto come un cronometro. È una quarantenne che potrebbe anche averne venticinque o quarantacinque, non magra e non grassa, i capelli non trattati né avvoltolati in trecce, solo una coda secca, lo sguardo sarcastico, la bocca scazzata; e quando digita il tuo viso sulla cassa senza chiederti l'ordinazione sai di fare parte dell'olimpo degli abitué.
La quarta è la vestale della macchina espresso. Ha una retina sui capelli corti neri strinati all'indietro. Le dita agili. La vita snella. Le spalle curve. Apre bottiglie di latte, aziona la pressione per la schiuma del cappuccino, versa il latte fumante nei bicchieri-cartone, dà una lieve mescita, schiaccia sopra il tappo, e grida: singolo cappuccino scremato con aggiunta di espresso; doppio caffellatte con espresso e panna; doppio espresso macchiato con latte scremato e spruzzo di cioccolata; doppia cioccolata con ghiaccio e panna montata e latte parzialmente scremato in tazza di plastica…
Gli studenti scivolano leggiadri lungo le prime tre donne e si assiepano dietro il banco ad attendere che la quarta, finite le mosse da fattucchiera, gli gridi in faccia la loro ordinazione. Molti se ne stanno con le braccia incrociate, lo sguardo assente, o cinguettano a coppie un poco discosti, finché la quarta donna, dopo due tentativi caduti nel vuoto, non tuona un "doppio cappuccino con latte scremato al 2 per cento", sputando fuori un quarto di polmone. A volte il circolo virtuoso s'interrompe e la quarta donna urla invano più e più volte un "doppia cioccolata con latte scremato e panna!".
Silenzio. Alcuni studenti si occhieggiano indifferenti.
- Io avrei una doppia cioccolata parzialmente scremata - se ne esce infine una tipa sepolta dai boccoli finti. La quarta donna sospira, riposa il bicchiere fumante, ne afferra un altro e ricomincia: cioccolato, latte fumante che scende come una cascata schizzando sul bancone, mescolata con uno stecco, colpo di polso a spirale per la panna, imprimatur di tappo tra scintille di schiuma.
- Doppia cioccolata con panna e latte parzialmente scremato - riurla infine sporgendo oltre il banco la tazza e la mano lucida di vapore.
- Uh! - esclama poi asciugandosi la fronte con l'avambraccio prima di attaccarsi di nuovo al tubo sparavapore della macchina.
Ma il jolly è la quinta donna. Di donne ne fa tre: sfera quasi perfetta con in cima una testa tonda tonda, una spazzola di capelli bruciati da vecchie tinte, due gote mastine e solari, da nonna. La quinta donna non ha una postazione fissa. Passa da un posto all'altro producendo plusvalore: una passata di straccio qua, un'aggiunta di bicchiere là. Ogni tanto si ferma, si asciuga la fronte immensa, indugia a respirare, soffoca in una risata. Occorre una maestria particolare nel fare tutto e niente, e un interesse per le persone, la quinta donna intrattiene le altre, a volte anche gli studenti.
Le cinque donne non si danno mai il cambio: ognuna al suo posto, alla sua specializzazione. Solo la quinta donna ondeggia come un pesce palla. A volte la incontri dietro la porta girevole, quasi incastrata nello spicchio del lato esterno, a fumarsi una sigaretta, un piccolo sorriso se ne incontri lo sguardo.


Carola Frediani

Lettere pittsburghesi

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Indice
Prefazione

1. 2. 3. 4. 5. 6.
7. 8. 9.10. 11.
12. 13. 14. 15.
16. 17. 18. 19.
20. 21. 22. 23.
24. 25. 26. 27.
28. 29. 30. 31.



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