Carlo Cabella, Agostino Schiaffino: 1a, 1b, 1c, 1d

Schiaffino prete e poeta






A cavallo tra Cinque e Seicento prosegue la fortuna di Monte Oliveto: fra donativi, nuove costruzioni e visite illustri,[1] il monastero di Multedo rafforza sicuramente il suo prestigio sulla comunità locale.[2] Si irrobustisce al suo interno la presenza di personaggi, se non di chiarissima fama, sicuramente capaci di accreditare Monte Oliveto come centro di potere e di cultura. Don Luigi Montaldo sulla base degli appunti dello Schiaffino ne ricorda alcuni: padre Angelo Castiglione, celebre oratore e teologo, le cui orazioni, dedicate al cardinale Borromeo, furono stampate a Milano, i padri Benedetto Marengo,[3] Stefano Maggiolo [4] e Alberto Oneto,[5] priori del monastero e portatori di interessi teologici, artistici e culturali.[6] Sono questi personaggi gli educatori e i primi amici dello Schiaffino.
Nel 1609 Agostino Schiaffino diventa parroco a Monte Oliveto e resta titolare della parrocchia sino al 1616.[7] Quando la titolarità passa in successione ai padri Gio Battista Della Torre, Elia Cabella, Angelo Valdettaro e Cirillo Canessa, egli continua a svolgere la sua attività di prete. Nel 1628, secondo quanto lui stesso annota nelle Memorie, si reca a Napoli,[8] dove però non pare che si fermi a lungo. Nel 1630 in ogni caso è nominato per la prima volta priore del monastero.[9] Dalla Cronaca breve di Monte Oliveto risulta che i carmelitani di Multedo nel 1632 sono proprietari di tre quarti d’una grossa nave mercantile e possiedono immobili nei quartieri genovesi di Ponticello e di Prè. Notevoli risultano poi le proprietà di terreni lungo la valle del vicino torrente Varenna. Se lasciti, donativi dei benefattori e contribuzioni volontarie degli stessi padri, costituiscono una voce importante nel bilancio del monastero, sottostanno a questa non trascurabile prosperità economica una fitta rete di relazioni con le famiglie aristocratiche genovesi e le visite, che si infittiscono, di personaggi influenti.[10]
Ma Schiaffino oltre che sacerdote, studioso e buon amministratore di Monte Oliveto è anche poeta - e poeta civile. Di tutte le sue opere, anzi, le solo pubblicate sono tre composizioni encomiastiche in occasione di incoronazioni dogali. La prima è del 1607: Geronimo Assereto è il nuovo doge, subentrato a Silvestro Invrea, morto dopo appena quindici giorni di dogato. All’Assereto Agostino Schiaffino dedica un sonetto, indicato dai biografi come la sua prima opera poetica d’una certa importanza. Perché proprio Geronimo Assereto? L’omaggio di un monaco di Monte Oliveto a un personaggio illustre che possiede una villa a Multedo, visita il monastero e partecipa alle funzioni che vi si celebrano o si tratta di qualcos’altro?
Il doge Geronimo Assereto, appartenente alla nobiltà nuova, al momento di entrare in carica gode ancora del gradimento dell’ambasciatore spagnolo, Juan Vivas, ma di lì a poco lo stesso Vivas lo giudicherà poco amico della Corona di Spagna - e addirittura sospettato di collegamenti con le attività filofrancesi di Claudio De Marini - per le sue inclinazioni repubblichiste e cioè per l’aspirazione a una maggiore autonomia della Repubblica nei confronti del potente alleato.[11]
I termini reali dell’autonomia dalla Spagna e i modi di realizzarla costituiscono in Genova il tema politico centrale di questo periodo. L’Assereto non è l’alfiere di una revisione radicale della politica genovese, ma non è neppure insensibile alle esigenze di rinnovamento e lo dimostra. Possibile che la decisione dello Schiaffino di dedicare a Geronimo Assereto un sonetto encomiastico sia espressione di una affinità di posizioni politiche. Due anni dopo, tuttavia, lo Schiaffino dedica un altro sonetto al nuovo doge Agostino Pinelli, nobile di parte vecchia, che, a differenza di Assereto, si guadagna le lodi dall’ambasciatore spagnolo, per aver acudido a todas las cosas de V. M. con igual amor que a la de su patria.[12] Parrebbe una contraddizione se non fosse che interpretare i rapporti politici all’interno della classe aristocratica genovese in termini di schieramenti rigidamente contrapposti è del tutto fuorviante.[13] I diplomatici spagnoli, prigionieri dell’alternativa tra bien e mal afectos, non sempre comprendono le peculiarità dell’assetto istituzionale della Repubblica - un’incomprensione che più in generale informa i rapporti tra i superstiti regimi repubblicani e gli stati assoluti in formazione.[14] Nonostante gli opposti giudizi formulati dal Vivas sui due dogi, l’esperienza di Agostino Pinelli ha precisi elementi di continuità con quella dell’Assereto: ne sono prova, tra l’altro, le fitte e prolungate relazioni tra i due prima e dopo la loro elezione alla suprema carica della Repubblica.[15]
Quanto fin qui detto non conforta che moderatamente la tesi di uno Schiaffino politicamente impegnato in campo repubblichista. Sicuramente più probante è però la testimonianza della sua ultima e più impegnativa prova poetica: la canzone per l’incoronazione del doge Agostino Pallavicini. Siamo nel 1637. Sono passati trent’anni dai tempi dell’Assereto e del Pinelli e sono cambiati i termini dei rapporti con la Spagna. L’ombra lunga della guerra del ’25, la congiura del Vachero e le tormentate fasi del processo e dell’esecuzione, le trattative di pace coi Savoia, che hanno prodotto la diffusa sensazione della “vittoria mutilata,” l’evolversi dei rapporti diplomatici internazionali,[16] hanno lasciato il segno nel dibattito politico cittadino. Insieme con le grandi opere pubbliche di difesa, si è rilanciata l’idea del riarmo della Repubblica in funzione di una sua più accentuata autonomia. Le ripetute violazioni della sovranità della Repubblica contribuiscono a maturare tendenze ormai molto diffuse negli ambienti di governo. Proprio il 1637 diventa per queste ragioni l’anno della resa dei conti.[17] L’elezione al dogato di Agostino Pallavicini rappresenta per molti contemporanei la risposta politica più pertinente a queste non nuove istanze di autonomia. Schiaffino poeta è tra coloro che celebrano con entusiasmo l’avvenimento:

Con veiro Zena incoronò d’un Regno
In magesté conforme à rà grandezza,
Giubila d’allegrezza,
Dappertutto dà segno
Drò sangue chi ghe brilla dentre venne;
Nè fan festa rè chiazze, e quest’arenna,
Ch’aspettan che per debito ò reddue
In sò stao rà virtue,
Annima drè Repubriche ben fete
Per chi vive rà gente dentro lete.[18]

(Genova, vedendolo incoronato d’un regno, dotato di maestà conforme alla sua grandezza giubila di gioia, ovunque dà segno del sangue che le corre nelle vene; fanno festa le piazze e queste rive, che aspettano che restituisca la virtù alla sua condizione, anima delle repubbliche ben governate, in cui la gente vive nuotando nel latte).

E’ noto che molte delle speranze e degli entusiasmi legati a questa elezione sono destinate e durare poco. L’azione del nuovo Aostin, nuovo Augusto, come lo definisce lo Schiaffino nella sua canzone, se rimane per molti versi esemplare e contribuisce a rassodare l’idea repubblichista, che conoscerà una lunga evoluzione nei decenni successivi, deve soffrire molte delle contraddizioni in atto, e finisce, come spesso succede nel travaglio delle transizioni, per acuire i contrasti e le divisioni sia all’interno dei conservatori che degli innovatori. Si crea, insomma, un terreno fertile per nuove o rinverdite polemiche. Il carattere stesso del nuovo doge, uomo deciso e autoritario, proveniente da una lunga tradizione politica di polemista, contribuisce all’inasprimento della crisi istituzionale. Il tentativo di sanare i conflitti fra gli organi istituzionali della Repubblica è arduo. Si tratta di far sì che l'azione di rinnovamento possa procedere senza produrre un troppo pronunciato e traumatico sconvolgimento dell’esistente.[19] L’operazione non riesce. Il nuovo doge entra in conflitto coi Collegi e i Supremi Sindicatori lo mettono a più riprese in stato d’accusa. Questi tormentati rapporti istituzionali sboccano nel maggio del ’38 nella inaudita richiesta del doge di poter rinunciare alla carica:

Si dà voce che il Doge habbi richiesto con suplica di deporre il dogato accusandosi di non havere vista di accertare li animi de’ Coleggi e Supremi nel Governo della Republica. Fu vero. Presenta suplica li 17 maggio che fu letta nel Senato. Né si fece provigione alcuna.[20]/p>

Segue, pochi mesi dopo, un altro tentativo di rinuncia:

In questo mese di ottobre il Doge richiede con instanza che li sia concesso deporre la dignità o almeno la toga perpetua doppo la fine del suo Dogato. Li è negato.[21]

La posizione repubblichista del Pallavicini,[22] impegnato sin dalla gioventù in importanti incarichi inerenti la difesa militare, il territorio e le istituzioni marinare, ha radici lontane.[23] Dal punto di vista diplomatico sono note le sue attenzioni verso la corona francese, ampiamente documentate nel corso della missione alla corte di Luigi XIII nel 1628.[24] Questa buona inclinazione verso la Corona francese è ricordata anche dallo Schiaffino nella sua canzone:

Donde in amò s’unin per mezo sò
Zena, e Franza, per zò
Con groppo d’amisté fermi, e costanti,
Quanti che se sen visti per avanti.

(Così per mezzo suo s’unirono in alleanza Genova e Francia con nodo d’amicizia fermo e costante come mai se ne videro prima).

Se, come abbiamo visto, l’esperienza dogale del Pallavicini è stata difficile e tormentata, resta ben radicato in vasti settori della classe aristocratica genovese il segno del cambiamento possibile e il sogno di una svolta lungamente attesa. Questo sogno ha il nome della neutralità armata e della pace, del ritorno alle attività produttive e del commercio, della ripresa dell’armamento navale e della costruzione del nuovo molo. Di questo sogno Agostino Schiaffino di certo era partecipe:

Speran veì schioì muò, nasce garie;
Accresce porti in mà, dominio in terra
Houra che boggie in guerra,
Con tante scottomie,
Rà Franza, rà Fiandra, e r’Aramagna
Mentre goe Liguria unna cocagna
Ricca à botta dri ben drà santa paxe...

(Sperano di veder crescere moli, nascere galee, accrescersi i porti in mare, il dominio in terra, ora che ribollono in guerra la Francia, la Fiandra e la Germania, mentre gode Liguria un momento aureo, ricca dei beni di una santa pace...).




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[1] Per esempio nel 1593 Bartolomeo Lomellini conduce in visita al monastero l’arcivescovo di Genova Alessandro Centurione insieme al cardinale legato di Avignone. Dopo la messa gli ospiti si recano presso la villa e vi passano il carnevale. Nel 1596 lo Schiaffino registra la visita del vescovo di Noli, il carmelitano Timoteo Berardo, ospite di Bartolomeo. Sono i Lomellini a donare ai padri di Monte Oliveto l’organo di Santa Maria di Castello di Genova nel 1592 (A. Schiaffino, Cronaca breve, c. 60v., 62).

[2] Una nota dello Schiaffino afferma: “Nei litigi non si conoscevano altri arbitri o giudici all’infuori di essi [i padri di Monte Oliveto] e bastava ad un padre poter segnalare l’autore di un furto, perché la refurtiva tosto ritornasse a suo posto” (A. Schiaffino, Cronaca breve, c. 102, cfr. anche L. Montaldo, Quattro secoli, p. 32).

[3] Parroco tra il 1595 e il 1607, arricchisce la chiesa di notevoli opere d’arte (L.Montaldo, Quattro secoli, p. 32.).

[4] Parroco tra il 1585 e il 1588, all’inizio del Seicento costruì il chiostro, il dormitorio e contribuì con donativi personali allo sviluppo del monastero. Morì nel 1637 (ibid.).

[5] Fu parroco a più riprese tra il 1604 e il 1640, si impegnò molto nella scuola del noviziato (ibid., p. 19).

[6] Ibid., p. 30.

[7] La sua presenza ha lasciato molte tracce nei documenti dell’archivio parrocchiale. Quale celebrante lo Schiaffino compare in atti di battesimo e matrimonio a partire dal 13 marzo 1612.

[8] Memorie di Genova, 1628, 8.

[9] Lo ritroviamo priore nel ’32, ’34, ’35, ’37 e ’38 (Cronaca breve, agli anni). Cfr. L. Montaldo, Quattro secoli, p. 9. Nel corso di uno dei suoi priorati, il 6 luglio 1637, avviene la consacrazione della chiesa. Dell’avvenimento resta a tutt’oggi una lapide commemorativa in chiesa ed una memoria del 1650, conservata nell’archivio parrocchiale. Ibid., p. 19.

[10] Nella Cronaca breve, agli anni, sono annotate numerose visite al monastero di personaggi illustri ospiti dei Lomellini: l’arciduca Alberto d’Austria (1626), il cardinale Gio Domenico Spinola, il cardinale Trivulzio e il principe di Monaco (1631), l’ambasciatore spagnolo a Genova Francisco de Melo (1634).

[11] Si veda C. Bitossi, Il governo dei Magnifici, pp. 50 e 51. Nel colorito profilo dell’Assereto di L.M. Levati, Dogi biennali di Genova dal 1528 al 1699, Genova, Marchese & Campora, 1930, pp. 316 329, sono messi in evidenza, nel corso della sua lunga carriera politica al servizio della Repubblica, il carattere d’uomo d’azione, la sua missione al papa Clemente VIII per la questione di Finale, gli sforzi per la costruzione del nuovo armamento di galee, varie missioni a Savona e La Spezia per la fortificazione di queste città e la compera del feudo di Laigueglia fatta dalla Repubblica nel 1609.

[12] C. Bitossi, Il governo dei Magnifici, p. 52.

[13] Su questo argomento e sui rapporti tra potere religioso e civile si vedano le osservazioni di E. Grendi, La repubblica aristocratica dei genovesi. Politica, carità e commercio fra Cinque e Seicento, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 283, 284, 286, 304.

[14] Si vedano le osservazioni contenute nel primo saggio, Re e Repubbliche tra Sei e Settecento, di F. Venturi, Utopia e Riforma nell’Illuminismo, Torino, Einaudi, 1970.

[15] L. M. Levati, Dogi biennali, pp. 330 339, sottolinea la determinante funzione del Pinelli nell’affare dell’acquisto del Sassello da parte della Repubblica, avversato dal Principe Doria. Per quanto riguarda i rapporti con l’Assereto, il Levati li giudica “inseparabili”, perché spesso impegnati fianco a fianco nelle missioni della Repubblica in materia di armamento, confini e territorio.

[16] I rapporti tra Francesi e Spagnoli si fecero sempre più tesi. Già da qualche anno le offerte francesi erano viste con interesse da molti osservatori genovesi. Nel 1635, col trattato di Rivoli, si formava un’alleanza franco sabauda e si andava ampliando la lega antispagnola nella quale si cercò di coinvolgere anche Genova.

[17] Si veda quanto afferma R. Ciasca, Affermazioni di sovranità della Repubblica di Genova nel Secolo XVII, Rocca S. Casciano, Cappelli, 1938, pp. 10-12, assumendo come fonti il Compendio delle storie di Genova dell’Accinelli e gli Annali della Repubblica di Genova del Casoni. Il 1637 fu l’anno della consacrazione della Repubblica alla Beata Vergine, la trasformazione monetaria con l’abbandono dell’effigie imperiale, l’assunzione del titolo regio al posto di quello ducale. Cfr. C.Astengo, La consacrazione di Genova a Maria Santissima ed il cambiamento di tipo monetario nel 1637, in “Numismatica e scienze affini”, n. 4-5, 1937 e G. Pesce, La zecca della Repubblica: le monete e i loro simboli, in Genova nell’età barocca, catalogo della mostra a cura di E. Gavazza e G. Rotondi Terminiello, 2 maggio-26 luglio 1992, Genova, Nuova Alfa Editoriale, 1992, pp. 431-437.

[18] La canzone di Agostino Schiaffino Per ra incoronazion dro serenissimo principe Aostin Paravexin duxe reà dra serenissima Republica de Zena, fu pubblicata dall’editore Pavoni nel 1638 in Applausi della Liguria nella Reale incoronazione del Serenissimo Agostino Pallavicino e ora si può leggere nell’antologia di F.Toso, Letteratura genovese e ligure, Genova, Marietti, 1989, vol. II, Il Cinquecento e il Seicento, pp. 197-199.

[19] Già nel dicembre del ’37 dovette intervenire per impedire slanci antispagnoli troppo radicali: è padre Schiaffino stesso a raccontarlo nelle Memorie di Genova, 1637, 87: “Elegge il Consiglio Maggiore et il Minore escludendo i maggiori Cittadini per famiglie e per ricchezze e per esperienza et in particolare quelli che parevano per affetto e per interesse bene inclinati alla Corona di Spagna. Cosa che generò scandalo et ammiratione non poca”. Per i travagli che accompagnarono il dogato del Pallavicini cfr. C. Costantini, La Repubblica di Genova, Torino, UTET, 1986, pp. 277-282.

[20] Memorie di Genova, 1638, 19.

[21] Memorie di Genova, 1638, 56.

[22] Agostino Pallavicini si colloca nel solco ideale tracciato da Andrea Spinola e Ansaldo Cebà nei primi decenni del secolo; cfr. A. Spinola, Scritti scelti, a cura di C. Bitossi, Genova, Sagep, 1981, pp. 32, 33, 59, 61. Si vedano le osservazioni di C. Bitossi, Il governo dei magnifici, p. 241-244. Nel 1633 Pallavicini è tra gli antispagnoli dichiarati.

[23] L. M. Levati, Dogi biennali, pp. 36-37, mette in rilievo la sua attività quale Protettore delle Compere di San Giorgio, carica che occupò per sei volte tra il 1609 e il 1627.

[24] V. Vitale, La diplomazia genovese, Milano, Ispi, 1941, pp. 175-176. La sua missione a Parigi è naturalmente ricordata dal padre Semino nell’orazione per l’incoronazione.



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Agostino Schiaffino

Memorie di Genova
(1624-1647)

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Carlo Cabella
Introduzione
1a 1b 1c 1d
2a 2b 2c 2d 2e


Agostino Schiaffino
Memorie di Genova
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