Fine di pontificato: 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Il Monte Farnese e l’affitto di Castro

A dispetto della mala soddisfazione ostentata da Odoardo, la sua missione romana era stata un successo. Il Duca era riuscito ad ottenere dal Papa, senza pagare alcun prezzo ed anzi, alla fine, vantando chissà quali crediti, quello di cui aveva assoluto bisogno: l’erezione del nuovo Monte Farnese. A sollecitare dal Pontefice la concessione della grazia era stato proprio Francesco Barberini di cui Odoardo, andandosene da Roma, avrebbe detto al Papa che «l’haveva trattato tanto male che non sarebbe mai stato suo amico».[1] Le lungaggini nell’avvio della complessa operazione finanziaria, che a Odoardo parvero all’improvviso intollerabili e che furono da lui pubblicamente attribuite agli intrighi di Francesco, erano in realtà spiegabilissime: al suo stesso residente erano parse, ancora pochi giorni prima della rottura, del tutto normali, «gran difficoltà incontrando con li mercanti un giro così grosso di più di un milione di scudi».[2]
Del nuovo monte erano stati nominati depositari Girolamo Martelli e Giovanni Grillo. Un po’ «per essere fra negozianti grandissimo il credito del Martelli», un po’ per le favorevoli condizioni offerte loro dal Duca, l’affare, come testimonia tra gli altri Raffaele Della Torre, si era concluso «con opinione di gran profitto».[3] Esso invece volse rapidamente al peggio funzionando da detonatore nel conflitto tra Farnese e Barberini o, come sarebbe più esatto dire se dietro alle Casate volessimo veder i Potentati, tra Parma e Roma.
La scelta di Grillo e Martelli era avvenuta, secondo Vittorio Siri, «a contracuore del Cardinale Barberino che favoriva li Siri».[4] È difficile dire quanto tale affermazione rispondesse a verità. Di certo i fratelli Siri, cospicui uomini d’affari savonesi, vantavano solidi legami con i Barberini. Imparentati ai Gavotti, anch’essi di Savona e anch’essi attivi in Roma come prelati e banchieri, erano assurti a un ruolo di primo piano nella finanza pontificia. Tra il 1639 e il 1643 furono Depositari Generali della Camera ed erano stati sino dalla sua erezione, nel febbraio del 1632, depositari del Monte Barberini.[5] Ma non meno solidi erano i loro legami con i Farnese e Alessandro Siri si era personalmente esposto nel 1637 a promuovere nell’entourage del Cardinale Antonio la nomina cardinalizia del Principe Francesco Maria.[6] Che poi la scelta di questo o quel depositario potesse costituire, come lascia intendere Vittorio Siri, un casus belli tra Barberini e Farnese non trova, che io sappia, alcun riscontro. Senza contare che, anche se esclusi dalla depositaria del nuovo Monte Farnese (a cui del resto non sembra che avessero mai aspirato) i Siri restavano o era previsto che restassero affittuari del Duca.
L’affitto dovuto dai Siri per Castro ammontava a 97 mila scudi annui ed era destinato, sempre a detta del Duca, «per pagamento de’ frutti dovuti a montisti». Poiché questi ammontavano a 54.000 scudi, la copertura sembrava largamente sufficiente.[7] Senonché sia il collegamento tra l’affitto di Castro e la depositaria del Monte Farnese, sia la natura del contratto che legava i Siri al Farnese, sia infine l’entità dell’affitto e il valore dei raccolti del Ducato, erano oggetto di contestazione. Secondo Nicoletti Odoardo era partito da Roma «senza dare assicuramento dovuto o dote a i secondi Monti» e Urbano lo aveva dovuto richiamare, ma inutilmente, all’osservanza delle «condizioni registrate nel Breve delle gratie ottenute».[8] Secondo altri i Siri non potevano neppure dirsi propriamente affittuari di Castro, ma al più amministratori, perché le consegne pattuite di quei beni non erano mai state effettuate. Infine i Siri vantavano nei confronti del Duca consistenti crediti per pagamenti fatti ai montisti dei vecchi Monti Farnese e intendevano rifarsi in qualche modo.[9]
Per un po’ la Compagnia Grillo e Martelli aveva puntualmente soddisfatto i propri obblighi, ma poi, «o fosse un groppo d’avvenimenti infausti congiurati a danni del Duca o veramente traccia presa da Barberino per rivoltarle a rovina la grazia concedutale dal Papa e vendicarsene»,[10] sorsero delle difficoltà nel pagamento degli interessi del Monte. Quelli dell’ultimo bimestre del 1640 non furono pagati affatto e i montisti si rivolsero agli ufficiali della Camera, «i quali», scrive Nicoletti, «fecero più volte sapere agli agenti del Duca che procurassero di dar loro sodisfattione e per le replicate istanze de’ creditori furono più volte interpellati li medesimi agenti del Duca estragiudizialmente». Il che, voleva intendere Nicoletti, sta a dimostrare come prima di procedere per via giudiziaria a Roma si fosse cercata una soluzione soddisfacente in forme più riservate e flessibili.[11]
Comunque stessero le cose, sul finire del 1640 la situazione precipitò: il 31 dicembre Giovanni Grillo, il socio più debole e più esposto (che, oltre che del Monte Farnese, era depositario del Monte della Fede e dei Cavalieri di San Pietro e San Paolo e, con altri, affittuario della Tesoreria di Patrimonio) fu arrestato per ordine del Tesoriere, Pier Donato Cesi, «come sospetto di fuga», ossia, come scriveva Vittorio Siri, «sotto pretesto ch’egli rimettesse denari in Genova per farvi cumulo d’oro e cogliersela poi in pregiudizio del Monte Farnese e della Camera».[12]

«Né vedutosi alcuno sottentrare in luogo del Grilli»,[13] racconta Raffaele Della Torre, «i creditori del Monte Farnese si voltarono per havere i frutti de i monti loro contro i Procuratori del Duca e questi, scarsi di miglior partito, contro i Siri debitori per l’affitto di Castro. Non ebbero i Siri pronto il denaro da sodisfarli non essendo venuto il giorno del pagamento dovuto e venuto che ei fosse, mancavano della facoltà e de i modi da estinguere i monti vecchi, dal quale diffetto si accrescevan le confusioni fra montisti: al disordine del Grilli si aggionse quello de’ Siri. Avengache per ordine camerale uscito a febraro di quest’anno quarantuno fu variata la strada a corrieri che là dove a Monterosi passavano per Ronciglione alla volta di Roma con gran profitto de gli affittatori del Ducato di Castro passar dovessero per Sutri e Capranica con transferire in queste terre gli emolumenti medesimi in beneficio della Camera Apostolica. Ma vi hebbe di peggio, ché nel seguente mese di marzo furono proibite a tutti l’estrazzioni fuori dello Stato Ecclesiastico de i formenti le quali per privileggi antichissimi erano concedute al Ducato di Castro e di Ronciglione a’ Farnesi et era il frutto migliore che ne raccoglievano.[14] Dalle quali innovazioni interpretando i Siri rotto il contratto dell’affitto del Ducato pretesero esserne sciolti, sopra il quale fondamento fecero vendita all’Ufficio dell’Annona di Roma per scuti ottantamila [di] quanti grani vi havevano, ne trassero anche gli armenti et il resto lasciarono in abbandono.[15] Quindi i disordini proruppero all’irremediabile non consentendo i Ducali di Castro a gli Ufficiali dell’Annona lo trasporto de i formenti compri da’ Siri per raggione de i fitti decorsi obligati al Duca. Diede perciò di mano il Tribunale dell’Annona a gli espedienti più rigorosi per havere i formenti compri da’ Siri e nello stesso tempo i montisti nel mese di luglio chiamarono il Duca solennemente in giudicio per astringerlo non solo a pagare i frutti de i monti nuovi, ma ad estinguere i vecchi».

Ad affrontare la tempesta che si annunciava,

«altri preparamenti non fece il Duca che di contumacia e per ischermirsi dal danno imminente altro ripparo non vi frappose fuor solo aspre querele, essere questi risentimenti indebiti di Barberino, senza provedere per verun modo al suo debito di sodisfare i montisti, con somministrare l’armi al nimico di giustamente colpirlo. Le risposte che diede nel giudizio mossoli contro da montisti e Camerali fu lo inviar prontamente lo stesso mese di luglio munizione da guerra e soldatesche a Castro con ordini di fortificarlo per ribbattere (come egli diceva) la forza con la forza».[16]

Il 17 agosto del ‘41 Urbano VIII ordinò a Ottaviano Raggi, nella sua qualità di Uditore di Camera, di indirizzare al Duca di Parma un monitorio per il disarmo di Castro.[17] Le molte colpe del Duca (essere «debitore alla piazza di Roma di un milione e mezzo di scudi», aver lasciato i montisti senza garanzie, non aver risposto alle citazioni del tribunale, essersi armato contro il suo signore e, non ultima, essersi rivolto per aiuto ai Francesi) e l’opportunità di adeguate rappresaglie furono sottoposte al giudizio dei cardinali presenti in Roma che si espressero all’unanimità a favore dell’occupazione di Castro. Anche se c’erano pareri diversi sul modo di condurre l’operazione e sull’entità delle forze da impiegarvi, non era possibile farsi troppe illusioni su quel che una mossa del genere avrebbe significato.[18] «Qui siamo in guerra», scriveva il 31 agosto a Genova lo stesso mons. Raggi.[19]
L’ultimatum al Duca scadeva il 26 settembre 1641. L’occupazione di Castro, contro le previsioni e a dispetto delle bellicose dimostrazioni di Odoardo, non presentò difficoltà di sorta concludendosi rapidamente e, per i difensori, poco onorevolmente.[20] A Roma, però, «questo felice caso non ritardò punto i rigori giudiciali» e «quasi non bastasse quella Ducea per sodisfare a montisti et alla Camera Apostolica, ma si mirasse al total esterminio della Casa Farnese», un secondo monitorio convocò il Duca davanti alla Camera per il 21 ottobre 1641. «Processure male adequate», commentava Della Torre, «alla persona d’un Prencipe» il quale, a torto o a ragione, si pretendeva sovrano.[21] Scaduti i termini e in significativa coincidenza con la nuova promozione cardinalizia, «ordinò Sua Santità a mons. Teodoli Auditor della Camera succeduto in quella carica a Monsignor Ottaviano Raggi già fatto cardinale, che proseguisse avanti il giudizio con la sentenza», che fu infatti pronunciata il 13 gennaio 1642.[22]
Anche la promozione del dicembre 1641 rientrava, soprattutto per i suoi risvolti finanziari, nel progetto pontificio di piegare all’obbedienza Parma. Fatta, come ricorda Nicoletti, per «compiac[ere] a Principi» (ottennero la porpora, tra gli altri, Mazzarino, Peretti e Rinaldo d’Este, candidati rispettivamente della Francia, della Spagna e dell’Impero [23]) essa aveva lo scopo principalissimo di «suppl[ire] all’erario apostolico con la vendita di alcuni officii camerali» in previsione, appunto, dell’aggravarsi del conflitto.[24] E mentre la porpora era concessa a Ottaviano Raggi, autore del monitorio, al fratello del Duca era negata.




paragrafo precedente * paragrafo successivo * inizio pagina


[1] Calandrini, p. 997. La Lettera scritta (pp. 2-18) nega risolutamente l’esistenza di una qualche inimicizia tra Barberini e Farnese e ricorda come Odoardo, dopo i presunti “disgusti” di Roma avesse continuato a corrispondere amichevolmente con il Cardinale Antonio. In effetti ancora nel dicembre del 1640 Odoardo e Taddeo Barberini si scambiavano gli auguri di Natale: BAV, Barb.lat. 7361, c. 88; qui a cc. 83-87 diversi biglietti di ringraziamento di Odoardo a Francesco e Taddeo Barberini per i favori ricevuti in data 2 agosto, 13 settembre, 7 ottobre 1639. In quello del 13 settembre da Caprarola a proposito dell’interessamento di Francesco nella pratica della riduzione dei Monti Farnese, si legge tra l’altro: «Ella ha favorita persona la quale non si terrà mai sodisfatta sin che non habbia servita Vostra Eminenza e tutta la Casa sua in tutte quelle occasioni che si offeriranno. Questo desiderio sarà in me il maggior ch’io habbia, onde mi farà Ella gratia singolare sempre che mi darà modo di poterlo effettuare e ringratiandola in tanto con tutto lo spirito del favore ricevuto a Vostra Eminenza bacio le mani...». «È fatale a’ Signori Barberini», commentava nell’aprile del 1641, di fronte al precipitare degli eventi, l’Ameyden «il non trattare corrispondenza ne’ beneficiati da loro» (Ameyden, Diario, BCR 1831, c. 69).

[2] ASVe, DAS, Roma 115, c. 300v, 7 gennaio 1640. Anche sulla finanza romana la letteratura va facendosi abbondante. Ricordo (in ordine cronologico) tra i molti studi e repertori disponibili: Istituzioni, Felloni, Reinhard 1984, Stumpo, Piola Caselli 1988 e 1990, Ago 1998. Utilissimo (con Ramacciotti e Pastura Ruggiero) l’inventario Mandati della Rev. Camera Apostolica (1418-1802). Inventario a c. di Paolo Cherubini, Roma, 1988 (“Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato”, 55).

[3] Della Torre, Historie, II, p. 485. Il nuovo monte contava 12.000 luoghi del valore nominale di cento scudi l’uno contro i 9150 complessivi dei monti vecchi. I novemila luoghi destinati all’estinzione dei monti vecchi furono computati a Grillo e Martelli «a ragione di scudi cento e otto per luogo». Pare che nell’ultima conversazione prima dell’improvvisa partenza di Odoardo da Roma, Papa  Urbano, da buon intenditore, gli abbia detto: «Intendo che ha smaltiti i luoghi a cento otto. S’assicuri che non ha fatto poco» (“Il Duca di Parma per causa d’un certo patto...”, c.342r).

[4] Siri, Mercurio, I, 1644, p. 490. Sui Siri: Verzellino, II, pp. 284, 298 (sul vescovo Gio. Stefano, favorito di Antonio Barberini, morto nel 1632: ivi 274, 276); Restagno, III, pp. 64-72. Nei pressi di Roma i Siri avevano una villa in cui Gio Vittorio Rossi ambientò uno dei suoi dialoghi, Convivium villae fratrum de Syris patriciorum savonensium (Eritreo Dialogi). I Siri ricorrono spesso nelle corrispondenze d’affari del tempo (per esempio in quella dei Durazzo, dove però i rapporti con i Siri, frequenti tra il 1634 e il 1640, sembrano interrompersi con il 1641: ADG, Lettere in partenza, 159-162; cfr. Puncuh) e naturalmente nelle carte della Camera Apostolica dove la loro attività (e quella dei Gavotti) è largamente documentata: ASR, CPr 162, Schedario Chirografi e Depositaria Generale, 1912 (conti della Depositaria dei Siri del 1642).

[5] Sull’erezione del Monte Barberini cfr. BAV, Arch.Barb., Indice II, 2584-2587; sulla depositaria (che nell’agosto del 1644 passò alla compagnia Acciaiuoli e Martelli) ivi, 2594, Partite diverse de Monti colli Siri 1645 e 2595 (dove si trovano, tra l’altro, diverse liste di sottoscrittori e un Calcolo di tutti conti tra l’Ecc.mo Sig. Principe Prefetto et li Signori Siri per tutto il tempo della loro amministratione).

[6] ASP, CFE, Roma 421, Alberto Giunti, 12 agosto 1637.

[7] Siri, Mercurio, I, 1644, p. 490: «il sopra più si disse restasse allora nella borsa de’ Siri, quali si pretendevano creditori del Duca per la Depositaria del vecchio Monte». Vittorio Siri «servo e suddito», come si firmava, del Farnese, segue la versione dei fatti fornita dalla Vera e sincera. La Lettera scritta (pp. 105-111) nega invece che i frutti dello Ducato di Castro fossero davvero sufficienti a pagare i montisti e valutava la produzione di grano dello Stato in 4000 rubbi contro i 17.000 di cui parlava la pubblicistica di parte farnesiana. Al Siri si attiene Calandrini («e se bene in alcune cose siamo astretti a dire l’istesso che scrisse l’elloquente Mercurio, non sarà però che oltre l’unirle tutte in un corpo solo, non procuri di dirle schietamente senza adulterarle...»: pp. 1003-1004) che riproduce sia la Vera e sincera, (pp. 1046 sgg), sia la Lettera scritta (pp. 1418 sgg).

[8] Nicoletti, IX, cc. 37v-38r. Quello con i Siri non era il solo guaio giudiziario di cui Odoardo dovesse occuparsi in Roma. La famiglia di Ottaviano Raggi, per esempio, nel febbraio del 1640 lo aveva citato in Tribunale per un censo che il Duca non era in grado di pagare. Il 2 aprile, dopo un colloquio con mons. Ottaviano, Alberto Giunti, scrivendone a Parma, si mostrava pessimista circa la possibilità di un compromesso con i Raggi: «Ho ben per difficile che s’inducano a far accordo di lasciar parte del capitale et frutti come si trattò e che per il resto piglino beni costì, che se si trattasse d’assegnarli beni per tutto il censo e frutti pareria non dovessero recusare, benché in rigore del censo potessero pretendere il denaro. Non havendo poi S.A.S. danaro pronto potria considerarsi se l’utilità del defalco che si trattò et l’acquisto delle ragioni per [l’]intiera somma ne i beni de’ già conti di S. Secondo meritassero che procurasse di trovar danaro a [cin]que per cento per estinguere o acquistare questo censo [che] sta a sette per cento» (ASP, CFE, Roma 422). I Raggi erano legatissimi ai Barberini ed è possibile che la loro iniziativa rientrasse tra le forme di pressione studiate in Curia contro il Farnese. Mons. Ottaviano fu poi l’autore del monitorio nell’affare di Castro. A detta del Cardinale Barberini anche gli Orsini avevano «pretensioni grandi in parte di questi stati del Ducato di Castro per fideicommissi e scritture trovate non gran tempo fa e così alcuni altri [...] e quando questi havessero ragione e si pagassero gli montisti non resterebbe gran cosa del Ducato di Castro» (ASM, CA, Roma 246, Francesco Montecuccoli, 6 dicembre 1641).

[9] Ameyden, Diario, BCR, ms. 1831, c. 64r: «i Siri affittuari suoi che [...] sono entrati solamente nel 2° anno del novennio possono disdire l’affitto conforme i patti, non venendogli osservato li capitoli dell’affitto». Lettera scritta, pp. 105-106: «Li Siri non furono mai realmente affittuari, né per tali Sua Altezza gli riconobbe per la patente che gli fece di esser solo amministratori» e «questo fu perché nello stromento della locatione li ministri ducali posero per errore un numero di corpi o misure di terreno con obligo di verificarle con la real consegna, e non trovandosi poi in detto Stato quella quantità di terreno che si era promessa, non si poté venire alla consegna e per questa ragione li Siri mai vollero (con dir di non esser obligati) cominciar l’affitto». Sul credito dei Siri nei confronti del Duca: «Non essendo bastato quello che rendeva lo Stato di Castro negli anni detti per sodisfare a li creditori, li Siri a richiesta di Sua Altezza pagarono li montisti e creditori [del vecchio Monte] quel più che si richiedeva impiegandovi, per compiacere Sua Altezza, tutti li denari da riscuotersi dal frutto dello Stato nell’anno 1641 e ricevendone in tanto credito dal Signor Duca» (ivi, p. 107). Un’altra plausibile interpretazione delle difficoltà insorte tra i Siri e il Duca è proposta da “Poiché devo servire...” c. 29: Alessandro Siri, che nel primo biennio dell’affitto aveva «con avidità indiscreta [...] cavato quel più che haveva potuto da que’ luoghi», aveva ragione di prevedere che negli anni successivi i frutti sarebbero stati assai meno pingui e cercava pertanto ogni pretesto per sottrarsi agli impegni presi.

[10] Della Torre, Historie, II, p. 485. Vittorio Siri non aveva dubbi in proposito: «Il Cardinal Barberino [...] non tardò molto a mettere in opera l’aculeo delle sue api [...]. Fu suggerito a’ Siri di sottrarsi da quella locatione, da loro per altro non molto desiderata, pratticandosi varii artificii per far fallire li Depositarii del Monte Farnese» (Siri, Mercurio, I, 1644, p. 489; circa gli “artificii” vedi più avanti la testimonianza di uno dei Depositari, Girolamo Martelli). Cfr. Rinalducci, p. 74. I Siri, dopo la morte di Urbano, convocati da Odoardo Farnese a Caprarola, confessarono di aver agito nell’affare di Castro per conto di Taddeo Barberini: «Fece chiamare in Caprarola li Siri che tennero un tempo affittato lo Stato di Castro e d’onde ebbero principio le guerre o li pretesti per dir meglio delle guerre et sotto la sua parola andarono liberamente come regiamente gli fu osservata. Dissero che l’affitto era stato bene in loro mani, ma che effettivamente il negotio caminava con Don Tadeo e che con gl’interessi giongerà a mezzo milione e si dice in oltre che da i Siri il Duca habbia pigliato gran chiarezza in questo suo rilevante interesse» (“Il Signor Cardinale de Medici…”, cc. 289v-290r). È lecito però dubitare della sincerità di simili dichiarazioni data la situazione dei Siri e il panico che con la morte di Urbano si era diffuso negli ambienti compromessi col passato regime.

[11] Nicoletti, IX, c. 89. Tracce di queste trattative in ASP, CFE, Roma 422, per es. Gaufrido [a Giunti?], 27 agosto 1640: mons. Bichi aveva sollecitato dal Duca «la scrittura che si concertò costì» (ossia a Roma) al che Gaufrido replicava che «l’Altezza Sua promise detta scrittura purché nello stesso tempo si accomodasse quella [del] monitorio [...] e che non havendo mons. Maraldi voluto mai acco[modare] questa nella forma che pretendeva Sua Altezza, non dov[eva] neanche Sua Altezza far l’altra». La riunione dei montisti del 14 aprile 1641 è registrata dall’Ameyden, Diario, BCR ms. 1831, c. 69r.

[12] Siri, Mercurio, I, 1644, pp. 490-491; cfr. Della Torre, Historie, II, p. 485. «La causa si fa criminale», scriveva Ameyden, Diario (BCR, ms. 1831, c. 37r-v), «pretendendosi truffa come che havesse fatto grosse rimesse a Genova con li danni della piazza». «La rovina che sovrastava al Martelli e Grilli» era stata preannunciata dal Cardinale Caetani a Odoardo fin dall’estate precedente e Gaufrido aveva incaricato il Giunti di badare «che in questo particolare Sua Altezza non riceva danno alcuno» (ASP, CFE, Roma 422, 27 luglio 1640). La cosa non sembra conciliarsi del tutto con la tesi dell’innocenza del Grillo, che vorrebbe il suo arresto non da altro motivato che dalla volontà dei Barberini di colpire il Farnese. La tesi è formulata con abbondanza di particolari in una lettera-relazione dello stesso Girolamo Martelli a Vittorio Siri del 29 ottobre 1644. «Il Sig. Gio Grillo», vi si legge, «andò a Genova d’ottobre 1640 a trattar partiti per la vendita del Monte Farnese 2.a eretione et gli riuscì di grossa somma et seco portò lettere di credito di grossa somma et arrivò in Roma alli 20 di dicembre 1640. Mostrò dette lettere di credito a Palazzo com’anco che stava trattando altri partiti il Sig. Costantino Doria suo socero. Gli ordinarono che non facesse altra estratione di detti Monti Farnese prima eretione se non doppo l’Epifania, et il giorno di San Silvestro, quando andò a sentir messa, lo fecero carcerare e lo posero in segreta, stante che per civile non si poteva carcerare per esser tempo di ferie, tanto più che non c’era mandato esecutivo alcuno contro di lui, perché nel suo banco era puntualissimo in pagare chi gline faceva instanza. Et anco quando tornò di Genova portò quantità di velluti et drappi che li vendette tutti a tempo e ne apparivano strumenti rogati per mano di notari publici che se fosse voluto fuggire non saria tornato di Genova sua patria né meno venduto a credenza et a tempo le sudette mercantie» (BPP, CS, cas. 143). L’arresto del Magnifico Giovanni Grillo veniva segnalato da Ottaviano Raggi al governo di Genova il 26 gennaio 1641 e il governo di Genova ne scriveva a Ottaviano il 1° di febbraio incaricandolo di ringraziare il Papa per «la provisione presa di sodisfar a forastieri et in particolare a Genovesi il frutto delle rendite et insieme l’offerta della concessione delle tratte de’ grani [...] havendo in tanto circa i grani dat’ordine al Magistrato nostro d’Abbondanza che ci dica quel che gli occorre» (ASG, AS, 1903, c. 96v).

[13] Anche questo particolare, a prender per buona la testimonianza di Girolamo Martelli, parrebbe non corrispondente al vero. La lettera di Martelli, infatti, prosegue così: «Seguita che fu detta carceratione mi posi a negotiare per agiustar il tutto e trovai un negotiante di ottima conditione che haveria pagato per il detto Sig. Giovanni tanto per il tempo decorso come per quello fosse per decorrere di tutte le sue depositarie et ne diedi parte a chi era necessario. Si contentorno et così ne diedi ancor parte all’interessati, che fu alli 2 gennaro 1641, acciò il giorno seguente tutti andassero a farsi dar satisfatione et la mattina alli 3 di gennaro 1641, circa le 17 hora, quando entrai nel mio banco, ancorché havesse il non gravetur civile e criminale, fui menato in carcere e posto in segreta perché havevo rimediato al tutto et buttorno tutti l’effetti del detto Sig. Giovanni, ma solo ch’ogni cosa andasse in rovina, com’ogni cosa è notorio et V.S. ponderi s’io ho detto la verità, ché V.S. è vertadiero storiografo, mentre pone il tutto con tant’esquisitezza e verità, et si restringe al poco ancor che poteva metter molto e se vederò nel 2° tomo cosa ch’io sappia gli farò ogn’attestatione come conviene a cose del dovere». Martelli fu subito rilasciato dietro cauzione offerta dai fratelli Spada («Insomma», scriveva Padre Virgilio Spada al fratello Cardinale, «se non ci risolviamo V.E. et io a far la sigurtà per li scuti 10 mila il Sig. Girolamo non uscirà di prigione, ecco la risposta del Sig. C. Simeone more romanensi»: ASR, SV 572, 17 maggio 1641. La corrispondenza di Bernardino e Virgilio Spada a proposito della carcerazione di Grillo e Martelli, anche in relazione agli interessi e alle manovre del Duca di Parma, sospettato mandante dell’azione della Camera in ASR, SV 563, per es. 27 aprile e 19 giugno 1641, 9 e 19 settembre 1642 e 572, 25 e 29 aprile, 6 maggio 1641, 13 settembre 1642. Sul fondo Spada Veralli dell’ASR vedi Raffaeli Cammarota). La disavventura, pare, danneggiò gravemente gli affari del Martelli: vedi la lettera del 24 luglio 1642 con la quale il Cardinale Spada chiedeva al Cardinale Antonio di interessarsi per la sua piena reintegrazione: «nel processo criminale», scriveva, «non si trova cosa veruna pregiuditiale a lui [...]. L’istesso Grillo, ch’era il principale in questa causa, si vede che ha evacuata la criminalità e ridotte tutte le cose sue a termini di buona faccia» (ASV, Fondo Spada 17, c. 289. Sul fondo Bernardino Spada dell’ASV vedi Pàsztor). Per l’arresto del Martelli, intimo degli Spada (vedi in ASR, SV 451, 602), «nacque un poco di disgusto tra i Cardinali Spada e Francesco [...], havendo il Cardinale Francesco ad istanza dello Spada concesso dilatione al Martelli, la quale pendente fu carcerato» (Ameyden, Diario, BCR, ms. 1831, c. 45v; cfr. ivi c. 36). Nel luglio del ’42 anche Giovanni Grillo fu scarcerato su cauzione del Padre Virgilio e Bernardino commentava con il fratello: «La piazza dubito che dirà che pur troppo il morto è in casa nostra» (ASR, SV, 563, Bernardino a Virgilio Spada 26 luglio 1642). Quando sul finire del 1647, Girolamo Martelli, per il matrimonio del marchese Orazio espresse l’intenzione di fare, riservatamente, un dono importante agli sposi, Virgilio gli trasmise la prudente osservazione del Card. Bernardino e cioè che poiché «i maligni hanno voluto dire che se bene VS ha professato per le calamità succedutele d’esser rimasto senza niente nondimeno sia rimasto e rimanga tuttavia con un gran denaro nascosto […] il trattarsi da V.S. in questi tempi di far donatione, in qualsivoglia tempo che venga a notitia, darà credito a la voce sudetta e sicome le genti s’imagineranno che noi l’habbiamo procurata, così anco stimeranno che siamo conscii di qualche thesorio di V. S.» (ASR, SV, 563, Virgilio Spada a Girolamo Martelli 19 dicembre 1647).

[14] Il punto di vista della Corte romana sulla questione in De facultate exportandi frumentum ex Ducatu Castri ad loca Sedi Apostolicae mediate vel immediate subiecta, vel extra Statum Ecclesiasticum absque chirographo Summi Pontificis, s.l., 1641, ripreso in diverse, successive scritture e, naturalmente, nella Lettera scritta. Cfr in appendice Guerre di scrittura.

[15] Le difficoltà in cui si erano venuti a trovare i Siri erano note. Un avviso anonimo, non datato, conservato nel Carteggio Farnesiano porta in proposito: «La Depositaria della Camera si l’è ripigliata il Signor Matteo Sachetti, il quale si dice che presto aprirà un banco assieme con certi Signori Medici et il Signor Oratio Malagotti et li Siri ne restano esclusi, de quali si parla molto malamente et il Signor Alessandro s’agiuta alla gagliarda acciò quanto prima si levino li grani da lui venduti alla Camera» (ASP, CFE, Roma 422, fasc. 1641). Cfr. Siri, Mercurio, I, 1644, p. 492: «Vendettero li Siri all’Annona di Roma 17 mila rubbij di grano di quello havevano a Castro per lo prezzo di 81 mila scudi e degli effetti di quell’affitto, essendo eglino stessi li Depositari dell’Annona, fu costante opinione che subito fatto il partito, girassero la partita a credito loro et in debito dell’Annona [...]. Diffamavano tuttavia i Siri d’haver fatto constare a Barberini, estragiudicialmente però, che da loro si fosse soddisfatto al Duca per l’affitto decorso biennale nel quale furono affittuarii e che non essendoli in conto alcuno debitori, giustamente potessero appropriarsi il prezzo del grano». Secondo la Lettera scritta, p. 109, i grani venduti alla Camera non erano stati affatto raccolti in Castro, ma acquistati dai Siri, che «mostrano di tali compre autentiche scritture», su diverse piazze. La Camera Apostolica da parte sua tentò di recuperare il ricavato dei grani venduti in Genova da Giovanni Grillo nella qualità di Doganiere del Patrimonio, una somma sulla quale aveva avanzato pretese anche Costantino Doria, di cui Giovanni Grillo, suo genero, era debitore, ma, sosteneva la Camera Apostolica, a titolo personale e non per conto della Compagnia degli Appaltatori della Dogana (ASG, AS, 1986-1987, Ottaviano Raggi al Senato di Genova, 8 e 22 giugno 1641).

[16] Della Torre, Historie, II, pp. 485-486. L’ordine di estinguere i vecchi monti si era reso necessario, si legge in Lettera scritta, p. 111 sgg., per evitare che i Monti Secondi, che Odoardo aveva già immesso sul mercato, restassero senza garanzie: queste infatti erano sempre rappresentate dalle rendite di Castro già impegnate con i primi. L’estinzione dei monti vecchi importava, come ricordava Ottaviano Raggi al governo genovese (27 luglio 1641), la somma di un milione circa. Alla morte di Odoardo «tutti questi luoghi di monti insieme ascendevano alla somma di un milione duecento novantuno mila e settecento scudi, compresi i frutti decorsi e non soddisfatti» (Moroni, X, p. 227).

[17] Lo stesso 17 agosto, tuttavia, Ottaviano Raggi scrivendone al governo di Genova, si mostrava ottimista circa la pacifica conclusione della vicenda: «Da giorni in qua si è introdotto trattato d’aggiustamento tra N.S. et il Signor Duca di Parma, e di qua si è dato ordine che si sopraseda nel far entrare li Corsi, ch’a tale effetto sono stati mandati nella città di Viterbo, et altre soldatesche nello Stato di Castro e voglio credere che non debba seguirvi altra novità» (ASG, AS, 1986-1987, Ottaviano Raggi al Senato di Genova, 17 agosto 1641). Il monitorio uscì con la data del 21 e mons. Raggi ne inviò copia a Genova il 30. Lo stesso 17 agosto Ameyden, Diario  (BCR, ms. 1831, c. 95v) dando conto dei prepativi di guerra dall’una e dall’altra parte annotava: «Si disse parimente che le cose di Castro erano aggiustate per mezzo del Signor Cardinal Gaetano». In verità il ruolo del card. Caetani sembra sia stato affatto diverso. Sia in “Fu stabilito l’affitto...” (BUB, ms. 1069 [1706], c. 60) sia in Calandrini (p. 1000) a lui, «nemico implacabile de’ Barberini», «acerbissimo nemico all’hora alla Casa Barberina», viene attribuita una notevole responsabilità nella rottura. Lo stesso scriveva nel marzo del 1642 da Venezia il nunzio Vitelli a Francesco Barberini: «il card. Gaetano è stato quello che ha messo su il Duca di Parma» (BAV, Barb.lat. 7722, c. 62).

[18] Nicoletti, IX, cc. 67-69. In BAV, Ott.lat. 3267, fra altre carte barberiniane relative alle guerra di Castro c’è a c. 78 un appunto che elenca le ragioni a favore e quelle contro l’occupazione di Castro. Il comando dell’operazione fu formalmente affidato a Taddeo  Barberini e di fatto a Giuseppe Mattei fratello del nunzio all’imperatore. Subito ferito, Giuseppe fu sostituito da Luigi, marchese di Belmonte, già sergente generale dell’esercito imperiale.

[19] ASG, AS, 1986-1987, Ottaviano Raggi al Senato (tramite Bartolomeo De Fornari, maestro delle poste di Genova), Roma 31 agosto 1641. Il 7 settembre Ottaviano parlava dei preparativi di guerra nello Stato della Chiesa e, in un altro dispaccio dello stesso giorno, riferiva l’annuncio dato dall’ambasciatore toscano al Pontefice della decisione del Granduca di armare a sua volta: «Questo moto del Granduca», scriveva, «non manca qui di dar pensiero, dubitandosi di qualche lega segreta tra esso Signor Granduca, Venetiani e Parma». «Il maggior male che sia in questo negotio», scriveva una settimana più tardi, «è che non vi è mediatore». Ma quando il Granduca si offrì come mediatore Urbano respinse con la stessa noncuranza profferte e minacce e all’ambasciatore toscano disse «che procedeva in questo negotio con ogni sincerità e che non desiderava altro dal Duca che l’obedienza dovuta da lui alla Sede Apostolica come feudatario di Santa Chiesa e che stimava che il Granduca non ostante che havesse mandato molta gente alli confini, non havrebbe dato aiuto alcuno al Duca di Parma per non dare alla Santità Sua occasione di rivedere le carte vecchie e lasciò l’ambasciatore in tal sospensione» (ASG, AS, 1986-1987, Ottaviano Raggi al Senato di Genova, 21 settembre 1641).

[20] L’avviso della caduta di Castro pare che sia stato portato a Roma da Carlo Morone, bibliotecario del Cardinale Francesco, con una lettera-relazione di Alberto Morone S.I., che era presente all’assedio, diretta a un «gran personaggio» già commilitone di Luigi Mattei (Nicoletti, IX, c. 112). Mattei giudicava che Castro avrebbe potuto resistere molto più a lungo e considerava una follia da parte del comandante della piazza l’idea di ritornare a Parma «perché credeva ponesse egli in gran pericolo la sua testa» (ASM, CA, Roma 246, Francesco Montecuccoli al Duca di Modena, 27 novembre 1641). Sull’occupazione e la caduta di Castro esistono naturalmente molte relazioni: “Il giorno 15 di settembre...”, “Doppo l’impresa delli castelli...”, “Castro è situato...”, “Avendo il Duca di Parma...”, “Poiché devo servire...” Le ultime due (molto simili, pur nelle diverse simpatie, per Odoardo la prima, per Urbano la seconda) ricordano che la facilità con cui Castro si era arresa alle truppe pontificie aveva fatto «dubitare di segreta intelligenza» tra Roma e Parma e che solo l’asprezza della successiva polemica tra le due Corti aveva fatto cadere (ma, come si vedrà, non definitivamente) ogni sospetto in proposito. Cfr. Ameyden, Diario, BCR, ms. 1831, c. 136v, ASV,Fondo Bolognetti 88, c. 40r, 25 gennaio 1642: «Il popolaccio non si vuol persuadere che non vi sia intelligenza tra il Papa et il Duca a danno de Spagnoli»; e c. 40v, 1° febbraio: «alcuni [...] non possono credere che queste machine habiano altro fine che di porre in Piacenza i Francesi». Il sospetto era condiviso dal Viceré di Napoli, che nel novembre del 1641 aveva espresso al console di Genova, Cornelio Spinola, il timore che i Francesi, chiamati dal Duca di Parma e dal Papa, potessero scendere in forze in Italia nella prossima estate. A scongiurare questa eventualità il Viceré sollecitava una lega fra tutti «li prencipi italiani che non entrano nel secreto che può passare fra il Papa, Francesi e Parma» (ASG, AS, 2639, 12 novembre 1641).

[21] Della Torre,  Historie, II, p. 488. La condotta di Odoardo incontrava scarsi consensi tra i Principi e non giovava alla sua reputazione. Il Granduca, commentando con il nunzio a Firenze la caduta di Castro, «si rise della leggierezza del Duca di Parma che voleva fare e dire e che poi lascia andare a male ogni cosa». Ma pur riconoscendo le buone ragioni del Pontefice e deprecando «la natura bizzarra del Duca» e il «gran fracasso» che andava facendo in Italia non poteva non esprimere serie riserve sulla durezza con cui Urbano pretendeva di risolvere la questione. Disposto (come del resto Venezia) a esercitare ogni più efficace pressione sul Farnese per indurlo a sottomettersi al Papa, il Granduca mostrò via via di preoccuparsi soprattutto per l’intransigenza di Urbano (ASV, Segr.Stato, Firenze 25, cc. 3-4, 23, 27, dispacci del 17 ottobre, 18 dicembre 1641 e 4 gennaio 1642). Pressoché identica la posizione di Venezia. Quando nell’ottobre di 1641 il nunzio Vitelli aveva dato comunicazione ufficiale dell’azione pontificia su Castro, insistendo però sulla volontà di pace del Papa (ma aggiungendo anche che «finalmente chi la pace non vuole, la guerra si habbia»), il Doge aveva espresso la sua comprensione, esortando però il Papa alla prudenza e alla clemenza, visto che «in somma il Duca era giovine et un cervello... (e qui masticò senza finire il resto del concetto)» (ASV, Segr.Stato, Venezia 66, c. 4r. Per il periodo che qui interessa, dal settembre 1641 all’agosto 1643, i dispacci di Vitelli si trovano anche in BAV, Barb.lat. 7719-7729, che altrove utilizzo in alternativa; le minute delle lettere a Vitelli ivi, 7763-7767). Anche il Duca di Modena fece il possibile, in un primo tempo, per convincere da un lato Odoardo e dall’altro il Papa a trattare. A questo scopo Francesco I° inviò nel novembre a Roma il marchese Montecuccoli (il carteggio si conserva in ASM, CA, Roma 246). A Roma, riferiva Montecuccoli, c’era stata grande attesa per la mediazione del Duca di Modena, ma quando si era visto che il mediatore «contro l’universal aspetatione» non aveva «luoco alcuno di parlare né esebire cosa veruna per parte del Sig. Duca di Parma», la delusione era stata ancora più grande. Il duca di Modena, che non riusciva ad attribuire all’azione del Papa nella questione di Castro altro movente che l’interesse privato, aveva incaricato Montecuccoli di proporre al Cardinal Barberini una soluzione che accontentasse tutti e risultasse, magari a spese dello Stato pontificio, conveniente anche e soprattutto per Casa Barberini. Ma il Cardinal Barberini (che molti consideravano uomo da poco per non aver approfittato a suo tempo della devoluzione di Urbino) lo deluse ancora una volta ripetendo a un incredulo Montecuccoli «che quanto al gusto suo e servicio della sua Casa egli né altri de’ suoi haveano alcun fine o gusto in questo negocio e non sapea con che riguardo si dovesse far riflessione a ciò» (disp. del 27 novembre). Nell’udienza del 2 dicembre il Papa stesso confermò a Montecuccoli la volontà, nella causa di Castro, di arrivare a sentenza, assicurando che «havrebbe ben, poi, campo d’usare della sua clemenza». Alle obiezioni sulle possibili catastrofiche conseguenze, anche per i Barberini, di una tale sentenza «rispose che gli ne spiaceva» ma «che in ogni caso Dio gl’assisterebbe» (4 dicembre). Nonostante la fermezza del Papa e del Cardinale Barberini, Montecuccoli vedeva in loro una buona disposizione a negoziare e una grande apertura. Non disperava perciò di arrivare a «un buon aggiustamento» purché «il Sig. Duca di Parma voglia lasciar condure il negociato com’è necessario e racordarsi anco li tanti svantagi con quali bisogna negociare e li grandi pericoli che si corono non solo di perder il già occupatogli, ma di meter in gran azzardo il rimanente» (7 dicembre, ma cfr. disp. del 14). Ma Odoardo non voleva prendere in considerazione alcuna ipotesi che non prevedesse preliminarmente la restituzione pura e semplice di Castro.

[22] Nicoletti, IX, cc. 153-4. Cfr. le ragioni del Duca contro i monitori, l’accusa di ribellione, la sentenza di Teodoli e la scomunica in Calandrini, pp. 1156 sgg, 1208 sgg, 1254 sgg, 1274 sgg, 1280 sgg.

[23] Come è noto, Urbano aveva ostinatamente rifiutato di promuoverli alla porpora per non esser sudditi dei sovrani che li avevano nominati. La loro mancata nomina aveva però portato la Santa Sede a tensioni gravi con le Corone (con la Francia nell’estate del 1639 si era giunti a una sospensione di fatto delle relazioni diplomatiche: Leman 1936, Blet 1964, 1965). Anche Nani, VIII, p. 690 interpreta la promozione dei tre con la volontà di Urbano di apparire accomodante, «conoscendo non compiergli» nel momento in cui si accingeva ad affrontare con le maniere forti la questione di Castro «di continuare per questa causa in maggiori disgusti». Obizo d’Este aveva cercato fino all’ultimo di proporsi in luogo di Rinaldo: ASM, CA, Roma 246, fasc. Francesco Montecuccoli, 30 novembre 1641.

[24] Nicoletti, VIII, c. 585r. La stretta connessione tra la promozione cardinalizia e l’apertura della crisi di Castro è riconosciuta dal Nicoletti anche in relazione alla scelta delle persone. Di Maculano, ad es., dice che «la pratica di tanti anni nelle materie del Sant’Officio facevalo spiccare, ma molto più la perizia dell’architettura militare e la congiuntura della guerra col Duca di Parma cooperò grandemente alla sua esaltazione imperciocché Urbano servissi di lui nelle fortificazioni delle nuove mura di Roma e di altre città dello Stato Ecclesiastico». In rapporto all’affare di Castro, tuttavia, il personaggio chiave era Ottaviano Raggi, non solo e non tanto per il ruolo personalmente svolto nella vicenda, quanto per il coinvolgimento della sua famiglia e degli ambienti genovesi ad essa collegati nell’organizzazione, nel finanziamento e nella conduzione della guerra. La promozione del dicembre 1641 suscitò malumore tra gli Spagnoli per la nomina di Mazzarino e di altri personaggi ritenuti ostili alla monarchia. Nicoletti difende la scelta di Urbano elencando i neocardinali che, secondo lui, potevano considerarsi di parte spagnola. Tra questi inserisce però anche Ottaviano Raggi, la cui famiglia era proprio di recente venuta in conflitto con le autorità spagnole, che avevano sequestrato i beni del nipote Giovanni Battista per le sue presunte inclinazioni filofrancesi, e addirittura il Maculano che era notoriamente legato alla Francia, ma che, scriveva Nicoletti, «era sempre stato ben visto in Milano et in Genova e favorito da ministri spagnuoli» (Nicoletti, VIII, cc. 588r, 591v). «La promozione», scriveva dalla Garfagnana Fulvio Testi a Francesco Fontana, «è proceduta dalla pura e mera volontà del Papa che l’ha fatta quando meno altri il credevano e quando forse egli meno il doveva. Chi si vanta d’averla accelerata fa male perché tutto il mondo sa che non ha avuto il tempo di negoziare, e Dio sa se ne ha neanche parlato» (Testi, 1491, dicembre 1641). Col Principe Prefetto sembra proprio che il Papa non ne avesse fatto parola, tanto che, dice l’Ameyden, Donna Anna Colonna se ne era «doluta infinitamente»: Ameyden, Diario, BCR, ms. 1831, c. 130r, 4 gennaio 1642.


Claudio Costantini

Fazione Urbana

*

Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


*

HOME

*

quaderni.net

 
amministratore
Claudio Costantini
*
tecnico di gestione
Roberto Boca
*
consulenti
Oscar Itzcovich
Caterina Pozzo

*
quaderni.net@quaderni.net