Caduta e fuga: 2a, 2b, 2c, 2d, 2e, 2f, 2g, 2h

La persecuzione

Il primo atto della campagna contro i Barberini era stato, nella primavera del 1645, l’interramento, con la scusa che la flotta ottomana avrebbe potuto impadronirsene, del porto di Santa Marinella, «in cui Barberini pretendevano fare grande civancio».[1] Il secondo fu la pubblicazione di una sentenza della Rota favorevole a Olimpia Aldobrandini, principessa di Rossano, in una vertenza riguardante lo stato della Meldola.[2] La sentenza aveva «apportato grand’allegria all’universale di questa Corte» e Contarini ne deduceva che il Papa «possa con minor rispetto, vedendo massime applaudirsi alle attioni di lui, correr maggiori carriere a danni di questa Casa». Il terzo fu, in giugno, l’avvio della revisione dei conti della Camera per l’ultimo periodo del pontificato di Urbano, specialmente in relazione alle spese della guerra di Castro.[3]

«Qui persevera la voce», scriveva il 9 luglio Raffaele Della Torre giunto da poco a Roma quale inviato della Repubblica di Genova, «che si habbia da proseguire non senza usar rigori la revisione de’ conti a chi negotiò con la Camera ne gl’ultimi tempi d’Urbano, e sono particolarmente li Signori Costaguta, Falconieri, Stefano Pallavicino, Falsetti e Siri».[4]

I Siri, tra i più esposti alle rappresaglie dei nemici dei Barberini per essere stati i primi responsabili della crisi di Castro, avevano cercato di defilarsi fin dall’agosto del 1644. Convocati dal Farnese a Caprarola, avevano cercato di scrollarsi di dosso un po’ di responsabilità confessando quel che Farnese voleva sentirsi dire e cioè che nella vicenda dell’affitto di Castro avevano operato come semplici prestanome di Taddeo. Nello stesso mese avevano abbandonato la depositeria del Monte Barberini. In autunno avevano passato la Tesoreria della Camera, di cui erano titolari, a Filippo D’Aste.[5] Nell’estate del 1645 finirono comunque in prigione, mentre Anton Francesco Farsetti, che dagli inizi del 1643 era Depositario della Camera, pensò bene di mettersi al sicuro fuggendo con i registri dei conti (e, a quanto si diceva, con trecentomila scudi). Sempre nell’estate Orazio Falconieri, fratello del Cardinale, sospettato di intese con il Farsetti, si vide porre sotto sequestro cautelativo (come altri finanzieri e agenti legati ai Barberini) beni per un valore di centomila scudi.[6] Anche Malatesta Albani, gentiluomo di Francesco Barberini e uno dei suoi più stretti collaboratori, fuggì non appena fu avviata la revisione dei conti della guerra.[7]
Ma l’inchiesta sulle spese di guerra era formalmente impossibile (come lo stesso Innocenzo doveva confessare all’ambasciatore toscano) giacché papa Urbano aveva con propri chirografi esentato non solo i nipoti, ma ogni altro ufficiale pagatore dall’obbligo di documentare (salvo che per dichiarazione giurata) le spese effettuate, liberando nominativamente ciascuno di loro da ogni responsabilità.[8] La loro abrogazione da parte di Innocenzo era evidentemente illegittima e costituiva un pericoloso precedente che avrebbe potuto ritorcersi contro la sua famiglia e contro l’istituto stesso del nepotismo.[9] C’erano poi consistenti ragioni di opportunità che sconsigliavano di fare sul serio i conti della guerra: negli illeciti, se se ne fossero trovati, avrebbe finito per essere coinvolta, con una quantità di autorevoli prelati, tutta la rete di banchieri di cui si era servito papa Urbano e di cui Innocenzo X continuava ad avere bisogno. E infatti, gli altri due finanzieri nominati da Raffaele Della Torre, Stefano Pallavicino e Prospero Costaguta, che in definitiva erano quelli che contavano di più e avevano più salde radici in Curia, continuarono a negoziare con la Camera Apostolica in tutta tranquillità. Prospero Costaguta, anzi, proprio in questo periodo combinò il matrimonio di suo figlio Luigi con Maria Maidalchini, una pronipote di Donna Olimpia,[10] e ottenne il titolo di marchese di Sipicciano.
Anche il massimo responsabile della condotta finanziaria della guerra, il Tesoriere Lorenzo Raggi, per quanto sicuramente poco gradito al nuovo pontefice, non mi risulta che abbia mai avuto seri fastidi né per aver suggerito l’imposizione di nuove, odiatissime tasse, né per aver indotto Papa Urbano ad attingere denaro dalle riserve di Castel Sant’Angelo, il provvedimento in assoluto più biasimato, almeno ufficialmente, della politica finanziaria di Urbano. Proprio lui, anzi, nella sua qualità di Tesoriere, dovette far parte della commissione per la revisione dei conti camerali. Il fatto è che l’inchiesta sulle spese di guerra non doveva servire a stabilire la verità dei fatti né tanto meno a individuare le responsabilità degli illeciti, ma semplicemente a liquidare il partito dei Barberini. E a questo fine essa fu portata avanti «con rigore», lasciando che le indagini giudiziarie si allargassero ad altri e più scivolosi terreni.
Dalla cantina di una casa di Bologna, occupata durante la guerra da alcuni uomini del seguito di Antonio, erano stati recuperati i cadaveri di due monache fuggite dal convento e poi uccise, secondo l’accusa, dai loro ingrati conviventi, preoccupati di sbarazzarsi di una compagnia diventata ingombrante. Dopo una prima sommaria indagine, del processo si era occupato di persona, appena rientrato nella sua diocesi, il neo Cardinale Albergati-Ludovisi e le indagini portarono rapidamente all’incriminazione e all’arresto, tra gli altri, del bergamasco Donato Guarnieri, già capitano di corazze al servizio di Antonio, e di altri due stretti collaboratori di Antonio, Carlo Possenti, che svolgeva in quel momento le funzioni di governatore di Segni (un feudo del Cardinale), e l’abate Giovanni Braccesi già vicecommissario dell’esercito pontificio a Bologna.[11] Braccesi fu arrestato il 25 luglio proprio nel palazzo di Antonio, «anzi nella stanza vicina a quella in cui dormiva il Cardinale», nel corso di una spettacolare operazione notturna a cui presero parte, pare, trecento tra sbirri e soldati corsi. [12]
Nella faccenda delle monache sembra che il Braccesi c’entrasse poco o nulla, ma, colpevole o innocente che fosse, già il modo scelto per arrestarlo era una provocazione nei confronti di Antonio.[13] E non fu la sola: un trattamento quasi altrettanto offensivo toccò a Taddeo, in alcuni castelli del quale, «feudi però della Chiesa», erano stati catturati altri imputati del processo di Bologna; nonostante che il giudizio di prima istanza toccasse a Taddeo, il Papa lo aveva avocato a sé e aveva fatto condurre a Roma gli arrestati: «attione», commentava Angelo Contarini, «ch’ha dato in Corte del che dire assai e sopra tutto che non si perdoni in Palazzo a qualsisia cosa che possi e disgustare e pregiudicare alla reputatione della Casa Barberina».[14]
Provocazioni a parte, l’arresto di Braccesi e la perquisizione della sua abitazione (nel palazzo di Antonio) aveva una finalità precisa:

«havere occasione di levargli tutte le scritture sotto questo pretesto del maneggio che molto auttorevole teneva già di tutto il denaro che si spendeva nelle guerre passate. Scritture e lumi ch’al presente si rendono molto opportune per i conti ch’esati e diligenti si vanno facendo della Camera e vien detto ritrovarvisi un intacco di quattordeci millioni d’oro, quali non si sa vedere in che siano stati consumati e, quel che più importa, come siano stati et essati et riscossi, perché sebene alcuni chirografi si ritrovino di papa Urbano, che concede e dà facoltà a tale essatione, tutta volta e questi sono pochi e soretitii et in dubio ancora se siano stati sottoscritti di mano di Urbano o pure falsificati e vitiati col carattere altrui».[15]

Anche le monache di Bologna, insomma, servivano all’inchiesta sulle spese di guerra: non è un caso che Farsetti fosse fuggito subito dopo l’arresto di Braccesi. La fuga di Farsetti, poi, che secondo le idee del tempo era una mezza ammissione di colpevolezza, diede nuovo stimolo all’attività degli inquirenti.[16] «Non passa mai giorno», scriveva Angelo Contarini ai primi di agosto, «che, per l’applicatione che tiene il pontefice presente in vedere finito il negotio di questi conti, non si faccia di molti prigioni a quest’effetto». A Firenze venne arrestato un certo Bertolozzi, che era stato alle dipendenze di Fausto Poli quando questi era maggiordomo,

«e dicesi anco ch’a questo effetto e per i medesimi interessi s’habbi a far venire ben presto il medesimo Cardinale Poli, che hora si ritrova alla sua Chiesa in Orvieto, perché rendi conto del suo maneggio, trovandosi inditiato qui d’haver fatto proprio molto denaro che capitar dovea nella Camera. La Corte tutta sta con gran curiosità attendendo che fine habbiano da havere cotant’applicationi e diligenze così esquisite».[17]

Il 19 dello stesso mese Contarini scriveva:

«Per venire a capo de calcoli principiati nella Camera Apostolica si va proseguendo l’incessanti non ordinarie diligenze; molti sequestri a questo fine si sono fatti in case particolari ove si può pretendere et congieturare il Farsetti massime n’habbia riposto qualche suo havere et per 100 mila scudi sono stati sequestrati i beni del fratello del Cardinale Falconieri, che si dice non solo haver in mano qualch’effetti del medesimo Farsetti, ma che sia stato compagno con lui nell’intacco della Camera».

I Barberini, «molto travagliati» per entrambe le inchieste - quella sull’uccisione delle monache e quella sulle spese di guerra, - avevano finito per cercare riparo in casa dei nemici: «S’aiutano quanto possono secretamente con mezi proprii, con la Signora Donna Olimpia in particolare, per essimersi da questi travagli; si crede però che le loro offerte non saranno equivalenti a compensare il rapito».[18]
Il cerchio intorno ai Barberini, e ad Antonio in particolare, si andava stringendo. Pare che si meditasse di arrestarlo «mentre capitava in casa di certa donna» e di rinchiuderlo in Castel Sant’Angelo; una irruzione in casa di una cortigiana amica di Antonio ci fu davvero, condotta, si disse, alla ricerca di satire contro Donna Olimpia. [19] Ma, come ebbe a scrivere uno degli organizzatori della fuga di Antonio, Tomaso Raggi, niente «lo insospetì più che vedersi di quando in quando soprafatto da cortesie e una volta fra l’altre baciato in fronte dalla Santità Sua: erano sue solite queste arti, massime il lacrimare, il singhiotire insieme. Fu necessitato il Cardinale per essentarsi dal soprastante pericolo ritirarsi fugendo dalla Corte». [20]
Antonio lasciò Roma, dove ormai viveva «come fugastro», la sera del 27 settembre. Accompagnato da Francesco Buti e da pochissimi altri, si imbarcò di nascosto per Genova, dove, dopo un’imprevista e pericolosa tappa a Livorno imposta dal maltempo, giunse il primo di ottobre.[21] L’impresa, decisa il 22 settembre in una riunione tra Taddeo, Francesco e l’abate Gio Antonio Costa, era stata organizzata e portata a termine da uno dei più efficienti circuiti clientelari su cui la famiglia Barberini poteva fare affidamento, quello dei Raggi di Genova: prelevato a Palo, nei pressi di Ladispoli, da un loro brigantino, dopo qualche traversia, Antonio arrivò a Genova trovando splendida ospitalità nella casa di Gio Batta Raggi in Albaro.[22]
Da Genova, che lasciò il 18 ottobre, Antonio si portò prima a Varazze, poi a Savona (dove fu ospite di Nicolò Gavotti), a San Remo e a Nizza.[23] Di qui si diresse, toccando Torino, in Francia. Il viaggio procedette piuttosto lentamente, sia per un grave incidente occorso a un suo accompagnatore, sia perché, come il Cardinale Antonio scriveva l’8 dicembre a Francesco Buti, che lo aveva preceduto a Parigi, «mi è bisognato restar molti giorni sequestrato dalle nevi in Tenda e ora qui in Limone di dove spero di poter partire domani». Sperava ancora di procedere speditamente e di essere a Parigi per Natale, ma da Torino, dove si fermò qualche giorno, non poté partire prima del 21 dicembre e solo il 6 gennaio del 1646 arrivò a destinazione, accolto con grandi onori.[24]




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[1] ASVe, DAS, Roma 122, c.249v, Angelo Contarini, 10 giugno 1645.

[2] Francesco Mangelli ne scriveva a Gaufrido il 24 giugno: «Hieri mattina si propose la causa del Stato di Meldola in Rota, la quale fece la risolutione a favore della Signora Principessa di Rossano, revocando le risolutioni che prima erano state fatte a favore della Camera in tempo d’Urbano Ottavo». Il Cardinale Pamphili era intervenuto personalmente e pesantemente sui giudici a favore della Principessa, il che rappresentava un comportamento insolito da parte di un Cardinale nepote. «Ogn’uno è restato stupito che per parte della Camera detta causa sia stata portata in ogni peggior modo non essendo stati osservati li soliti stili che alla Camera si dassero prima le scritture per rispondere, anzi [...da?] parte della Camera non è stato scritto né puoco né assai, ma si è caminato solamente con le scritture date l’altra volta, le quali cose tutte danno da dire che hora per mera violenza detto Stato di Meldola sia levato alla Camera e restituito alla Signora Principessa nell’istessa maniera che nel tempo d’Urbano per la violenza de Barberini si diceva che la Signora Principessa fosse restata priva del Suo Stato» (ASP, CFE, Roma 423, 24 giugno 1645).

[3] ASVe, DAS, Roma 122, cc. 249v, 319v-320r, disp. 57 e 62, rispettivamente del 10 e del 24 giugno 1645. «La pastorale guardatura del Papa», si legge nella Malconsigliata (BAV, Barb.lat. 5393, c. 12r), «nel rivedere fuori di violenza i conti camerali [...] è stato il tagliente coltello che ha ferito il cuore de’ Barberini».

[4] ASG, AS, 2355, Registro delle lettere del M.° Della Torre, pp. 153-154.

[5] Della convocazione dei Siri a Caprarola ho già detto (se ne parla in BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinale de Medici...”, cc. 289v-290r). Sulla cessione della Tesoreria: ASR, NC, 1547, Rufino Plebano, 1644, cc. 596, 788, 850 e CP 162, Chirografi 1641-1645, 141, 25 novembre 1644.

[6] ASVe, DAS, Roma 122, cc. 436, 469r, disp. 87 e 92 rispettivamente del 5 e del 19 agosto 1645..

[7] Rossi 1936, p. 305. Albani morì di lì a poco. Nell’ottobre 1645 il nunzio Bagni chiedeva a Francesco di sostituirlo in Francia con un altro suo uomo di fiducia (ASV, Segr. Stato, Francia 92A, Registro di lettere e cifre di mons. Bagni, cc. 50-51).

[8] Pastor, XIV, I, p. 41 nota 3.

[9] È quel che notava, tra gli altri, Alvise Contarini. Visto quel che era capitato ai Barberini, invece dei chirografi liberatori di Urbano, Innocenzo aveva scelto di disporre dei denari della borsa segreta dietro semplice ricevuta del Depositario, ma, osservava Contarini, «sarà peggio perché li successori vedute le ricevute del Depositario domanderanno il conto di tutto alli heredi, li quali non tenendo le dovute chiarezze, potranno maggiormente esser molestati» (Barozzi Berchet, Roma, p. 75). Vale forse la pena di ricordare che Innocenzo in dieci anni di pontificato riuscì a dirottare sulla sua famiglia una somma (un milione e mezzo di scudi) superiore di almeno il 50% a quella che Urbano in vent’anni aveva destinato alla sua. Ma si tratta forse di una stima ottimistica. Non mi sono curato di controllare, so però che Virgilio Spada calcolava «in tutto miglioni doi scudi cinquecentoquindeci cinquecento ottantasette et 70» (ASR, SV 497, Donativi a parenti fatti da Innocentio X nel corso del suo pontificato raccolti da me Virgilio Spada con occasione che il Sig. Card. Corrado in tempo d’Alessandro 7 mi pregò di rivedere i libri di dataria).

[10] Brigante Colonna, p. 270 confonde Maria figlia di Andrea senior (figlio di Sforza) e zia di Olimpia Maidalchini, con l’altra Maria, sua pronipote, figlia di Andrea junior (figlio di Domenico, fratello di Olimpia). Cfr. BCR, ms. 4367 (su cui Moricca, 1948, n. LXXX).

[11] Rossi 1936, pp. 319 sgg. Le carte del processo sono in ASR, Tr.Cr. Gov., Processi, 393 bis (1645). Un’ampia relazione dei fatti in ASVe, DAS, Roma 122, cc. 414r-416v Angelo Contarini al Senato, 29 luglio 1645. Donato Guarnieri fu arrestato in territorio veneto e consegnato alle autorità pontificie. Angelo Contarini aveva invitato il Senato a procedere con la massima sollecitudine all’arresto e all’estradizione: «Preme assai, Eccellentissimi Signori, al Papa questo negotio, non solo per se stesso, ma per il giusto pretesto che ne caveria ad appagare il mondo di far qualche rissolutione di grido e d’applauso contro chi o ha commandato per propri appetiti e per proprie sensualità attioni così scelerate et inique, ovvero sofferite et acconsentite per dar gusto a suoi familiari, che sotto l’ombra sua tentavano et ardivano di commettere ogni più iniqua e detestabile sceleratezza, onde se venisse fatto alla pietà publica con effetto così conspicuo et apparente di cooperare alla pietà di questo Pontefice, mi credano, ch’egli ne conserverebbe quella gratitudine ch’esprimere non si può maggiore per farla constare dal canto suo a vantaggio delle publiche sodisfattioni etiamdio con effetti altretanto conspicui e rilevanti». Contro Antonio si agitava il sospetto che, per sottrarre alla giustizia Braccesi e Possenti suoi familiari, avesse tentato di insabbiare le indagini. Da un biglietto di Antonio all’abate Braccesi, senza data ma presumibilmente dell’inizio dell’estate del ‘45, risulta che quest’ultimo si apprestava a darsi a un «virtuoso otio» senza «alcuna particulare incumbenza» (BAV, Barb.lat. 8800, c. 35r). Negli interrogatori a cui fu sottoposto Braccesi sostenne che i suoi rapporti con le monache assassinate, suor Laura Vittoria detta la Rossa e suor Silveria Catterina detta la Generona, si erano limitati al servizio che la seconda gli rendeva di lavargli la biancheria (vedi le carte del processo cit. cc. 293 sgg). Carlo Possenti morì sotto tortura senza mai ammettere nulla, il che diede materia a non pochi commenti, al solito divisi tra innocentisti e colpevolisti. Sulla sua morte vedi i versi In morte di Carlo Possenti ecc... e Risposta (1646) in BUG, ms C.I.3, n. 73 e 74. L’imputato principale era il conte Ferdinando Ranucci, bolognese, che fuggì subito dopo l’arresto del Braccesi.

[12] Della Torre, Historie, II, pp. 1127-1128. All’affaire Braccesi è dedicato largo spazio in Della Torre, Fuga, pp. 97-102: Della Torre vi denunciava l’illegalità delle procedure usate nell’istruttoria e rivendicava l’innocenza dell’imputato (dopo più di due anni e nonostante «le crudeltà usate verso quel misero» nulla era stato ancora provato a suo carico). Cfr. Pecchiai, Barberini,pp. 196-200, dove la storia del Braccesi si complica ulteriormente. Pecchiai si basa su un ms. dell’Archivio Caetani, di cui un altro esemplare potrebbe essere la Relatione del ratto fatto nel monastero di Monte Magnanapoli li 11 marzo 1640 in ASV, Fondo Bolognetti, 87 (18).

[13] «La carceratione in casa d’Antonio fatta di Giovanni Braccese violatore, rattore, assassino e ladro di due monache con diversi ricchi arredi in Bologna diede non poco travaglio alla Monarchia Antoniana et insoffribile apprensione di disprezzo apportò alle Deità Barberine»: Mal consigliata, BAV, Barb.lat. 5393, c. 10v. Secondo Francesco Mangelli il Cardinale Antonio faceva studiare ai suoi avvocati una linea di difesa per il caso che fosse incriminato per aver bloccato l’inchiesta giudiziaria sull’assassinio delle monache (ASP, CFE, Roma 423, Mangelli a Gaufrido, 30 agosto 1645).

[14] ASVe, DAS, Roma 122, cc. 415v-416r.

[15] ASVe, DAS, Roma 122, c. 436r, 5 agosto 1645. A quasi cinque anni di distanza la perquisizione era ancora fonte di preoccupazioni per i Barberini: «Non può assolutamente Nostro Signore», scriveva il 10 febbraio 1650 Antonio a Francesco, «tra le scritture trovate al Braccese havere havuta cosa ch’importi di non esser vista, ma per maggior sicurezza Vostra Eminenza ne può scrivere al medesimo Braccese» (BAV, Barb.lat. 8802, c. 2).

[16] Su Anton Francesco Farsetti: Morelli, II, pp. 332-334 (cfr. Melzi, II, p.241), Pastor, XIII, 880. Alcune lettere di Farsetti quale Depositario generale della Camera e Tesoriere segreto (tra le quali i biglietti di ringraziamento ad Antonio e Taddeo per la nomina) in BAV, Barb.lat. 8942, cc. 40-49. Tracce di Farsetti sono frequenti nelle corrispondenze commerciali e politiche: vedi per es. Puncuh, Vitale, Mazzarino (Morbio), i dispacci dal e al Duca di Modena in ASM, CA, Massa 1 (1647-1651) e il fondo Spada-Veralli dell'ASR. Anche l’altro Depositario generale, Prospero Pavia, zecchiere dal 1643 al 1649, sarebbe finito in carcere: cfr. BAV, Ott. lat. 2487, 2°, c. 277, Ragioni di Prospero Pavia. «Questo Farsetti», scriveva il 5 agosto del 1645 Angelo Contarini, «era genovese, il turcimanno del pontefice predecessore, che s’adoprava a fargli havere molt’oro da Genovesi medesimi, coll’interesse però di 40% a pro loro et che era molto ben accarezzato et favorito dallo stesso Urbano per quest’impiego ch’egli se lo recava a grande commodo et […] onde non è meraviglia se in ricompensa di ciò habbia quel Papa conferiti tanti capelli cardinalitii a Genovesi, com’ha fatto, e si può ben dire che questo sia stato un traffico di mercantia, non effetto di buona volontà verso d’essi» (ASVe, DAS, Roma 122, c. 436, dispaccio 87 del 5 agosto 1645; cfr. Demaria, pp. 239-240). Il fantastico interesse del 40% è, naturalmente, una frottola (non sembra un lapsus calami). Che Farsetti fosse genovese era falso (era nato nel 1606 a Massa di Carrara dove la sua famiglia, originaria di Luni, si era trasferita) e Raffaele Della Torre «parendo a me non risultasse in gloria della Natione» si premurò di smentire l’affermazione che era comparsa nel monitorio lanciato contro di lui nel novembre del 1645 (ASG, AS, 2355, Registro [...] Della Torre, p. 293). Jacopo Morelli nelle note che dedica al nostro Farsetti nella biografia dell’omonimo e più noto nipote, dice che «all’antica nobiltà di sua famiglia v’aggiunse quella di Genova, di Roma, di Ferrara e finalmente di Venezia, ove nel 1664, lasciando Roma, si trasferì co’ suoi»: della sua ascrizione alla nobiltà di Genova non trovo però riscontro in Nicora né in Guelfi Camaiani. In ogni caso, anche se Farsetti non era genovese numerosi e stretti erano i suoi legami familiari e d’affari con Genova. Sua madre, Placidia Campodonico era originaria di Novi, nel dominio di Genova e genovese era sua moglie Eugenia Pavia sorella del suo compagno di avventure romane Prospero Pavia. Scappando da Roma Farsetti aveva trovato rifugio in Genova, da dove infatti il 12 agosto scriveva a Taddeo per scusarsi di esser partito «senza il dovuto ossequio di riverenza verso Vostra Eccellenza». A quanto lasciava intendere, a chiamarlo a Genova non sarebbe stata la paura dell’arresto, ma un improvviso impegno di affari: «la necessità mi sforzò a farlo così d’improvviso con tanta celerità quanta era necessaria per essere in tempo a remediare ad un rovinoso inconveniente che mi soprastava se non mi trovava qua di presenza» (BAV, Barb.lat. 8942, c. 50r). La fuga del Farsetti aveva provocato un danno che si diceva ammontare a 50.000 scudi a diversi cittadini genovesi, che si rivolsero con una supplica al Senato (ASG, AS, 1904, cc. 105-106, 1° settembre 1645). Nel novembre del 1645, da Calice, Farsetti inviò a tutti i membri del Sacro Collegio una lettera «acciò [si] sappi quanto torto ricevo da Signori Criminalisti nella causa criminale che fanno contro di me» e in cui indicava i presunti errori commessi dal Commissario alla revisione dei conti, ingannato da alcune annotazioni sbagliate presenti nelle copie dei registri che erano rimaste a Roma, ma non negli originali in suo possesso (ivi, cc. 51-52, 25 e 26 novembre 1645). I conti del Farsetti sono in ASR, CPr 162, Depositeria generale, 1913 (1643) e 1914 (1644).

[17] In effetti anche Fausto Poli fu formalmente indagato, ma, contrariamente alle attese, lo si trovò così poco ricco da far dire: «Chi haveria creduto che Poli fusse stato così galanthuomo?»: BAV, Barb.lat., 4592, c. 191v (si tratta di una breve vita del Cardinale, senza titolo).

[18] ASVe, DAS, Roma 122, cc. 436v, 451r-v, 468v-469r disp. 87, 89, 92 rispettivamente del 5, 12 e 19 agosto 1645. Anche Farsetti si era affidato, con congrui donativi, alla protezione di Donna Olimpia e al momento giusto era stato avvertito da lei (pare) dell’opportunità di fuggire: ASP, CFE, Roma 423, Francesco Mangelli a Gaufrido 24 giugno 1645; cfr. Rossi 1928, p. 22.

[19] ASVe, DAS, Roma 123, c. 20v. Rossi 1936.

[20] T.Raggi, c. 68r col. sin. Pare che i gesti di cortesia da parte del Papa avessero il solo effetto, nell’ambiente dei Barberini, di suscitare un vivo allarme. Così, ad esempio, il Cardinale Rapaccioli scriveva a Francesco Barberini il 26 agosto 1646: «Mentre che scrivo ecco mi vengono rese 6 starne che mi manda Sua Santità. Dio mi aiuti. Faccio molte riflessioni sopra il detto regalo e sì per esser il primo, come per molti altri motivi» (BAV, Barb.lat. 8746, c. 16v).

[21] AAE, CP, Gênes 4, c. 454r-457bisv, Giannettino Giustiniani a Mazzarino, Genova, 2 ottobre 1645: «Hieri sera, domenica primo d’ottobre alle tre hore e mezza di notte, comparve per via di mare alla villa d’Albaro in casa del Signor Gio Batta Raggi il Signor Cardinale Antonio, partito alli 27 di settembre da Roma, senza né licenza del Papa, né d’havere detto adio ad alcuno, anzi che egli prettende e dice di non haverlo tampoco conferito al signor Cardinale Barberino, suo fratello. Quando giunse era vestito alla curta da secolare, con due sole persone imbarcato sopra d’un liuto armato di 22 huomini che di qua di suo ordine le fu inviato molto secretamente da Tobia Pallavicino, nostro gentilhuomo, il quale in questa ultime guerre di Papa Urbano ha contratto e servitù e gran confidenza con tutta casa Barberini. Si partì di Roma in mercoredì sotto prettesto di andare alla caccia et s’imbarcò ad Ostia. Nel viaggio per il mal tempo li è convenuto trattenersi nel porto di Livorno 28 hore, dove sempre stette basso, colcato, senza mai alzare il capo in una ansiosissima passione di non essere scoperto. Dice di volersi trattenere qua alcune settimane et d’attendere la sua corte: sin’hora per lo poco tempo che è che è arrivato, non ho penetrato altro de pensieri suoi, ma in appresso facilmente saprò qualche altra cosa et di tutto Vostra Eminenza verrà raguagliata. Di Roma non ho dubbi ch’egli si è partito per timore che il Papa si pottesse anche ridurre a voler procedere contro la sua persona». Il principale organizzatore della fuga era stato G. B. Raggi, fratello del Tesoriere, coadiuvato dall’altro fratello, Giacomo, che venne appositamente da Genova a Roma per partecipare all’impresa. Secondo Della Torre  Fuga, p. 4 i famigliari che accompagnavano Antonio erano tre e non due. Francesco Buti, sospettato di essere autore delle canzoni contro Donna Olimpia ricercate dai birri in casa della cortigiana, era un agente del Cardinale Macchiavelli (parente dei Barberini) passato al servizio di Antonio (Rossi 1936, pp. 317 sgg). Nel 1655 fu conclavista di Antonio, impostogli, dice Gérin 1879, 1881 da Mazzarino per sorvegliarne l’operato (cfr. nell'appendice II il paragrafo La vendetta). Sul Buti vedi la voce di A. Lanfranchi in DBI (l’interesse del suo epistolario è stato segnalato da Pecchiai, Barberini, p. 204).

[22] Secondo Siri, Mercurio, V, 1655, I, p. 392 alla riunione che decise la fuga di Antonio avrebbero partecipato i Cardinali Grimaldi e Valençay e mons. Tighetti. Antonio fu prevelato sulla spiaggia di Palo (così dice Della Torre, Historie, II, pp. 1120 sgg. Altre fonti danno come luogo d’imbarco Santa Marinella; Giannettino Giustiniani parla di Ostia) da Tobia Pallavicino a cui «per la buona custodia che [...fece?] in condur a Genova il Cardinale Antonio suo fratello» il Cardinale Barberini regalò una credenza d’argento (ASP, CFE, Roma 423, Mangelli a Gaufrido, 28 ottobre 1645). L’arrivo di Antonio a Genova venne comunicato a Francesco Barberini da diversi corrispondenti tra cui Francesco Grimaldi, fratello del Cardinale, il 5 ottobre («Il Signor Cardinale Antonio gionse qui domenica sera e con sì buona salute ch’io con verità e con mia particolar soddisfatione posso assicurar Vostra Eminenza di non haverlo mai veduto star meglio»: BAV, Barb.lat. 10006, c.109), Tobia Pallavicino il 6 (BAV, Barb.lat. 10039, c. 29) e il Cardinale Stefano Durazzo il 7 (BAV, Barb.lat. 8711, c.111). All’abate Costa scrisse brevemente lo stesso Antonio il 4 (e Francesco Buti aggiunse una nota di saluto) e poi, più distesamente, il 7, decantando «i favori che godo in questa città», dando diverse istruzioni e allegando lettere per i cardinali Ceva e Panciroli e per mons. Albizzi (ibidem, 8806, cc. 4-5). Era il gesuita Padre Camoggi che trasmetteva ad Antonio carte e cifre mandate per lui a Genova dall’Abate Costa. Sulle accoglienze riservate in Genova al Cardinale Antonio riferiva Giannettino Giustiniani a Mazzarino il 9 ottobre 1645 (AAE, CP, Gênes 4, c. 459r-462v): «Scrisse di Roma monsieur Le Gueffier a nome de signori Cardinali Grimaldi e Valenzé, che era intentione delle Loro Maestà che al signor Cardinale Antonio si rendessero da tutti li ministri e servitori della Francia tutte le dimostrationi d’honore et d’ossequio perchè sapesse questa Republica che gli era grato, et così ho procurato sempre di servirlo». L’8 ottobre Antonio era stato a pranzo nella villa di Sampierdarena del Cardinale Grimaldi e la sera una «superba» festa da ballo era stata data in suo onore da Gio Maria Spinola duca di San Pietro e da suo fratello Gio Filippo, nipoti del Card. Gio Domenico. «L’honore et l’ossequio che gli viene reso da tutti li particulari di questa Republica», scriveva Giannettino, «confesso a Vostra Eminenza che è in colmo, ma per verità egli se ne dà gran cagione, trattando tutti in voce di V. S. Illustrissima. Mi ha però confessato che le gratie che riceve in Genova li fanno parere di essere rittornato nipote di Papa vivente». Sui rapporti fra Giannettino Giustiniani e Antonio Barberini vedi Marinelli 1995 e 2000.

[23] Secondo T.Raggi, c. 69r col. sin. e c. 70r col. destra, Antonio si sarebbe trattenuto in Genova due mesi. Si trattò in realtà di un paio di settimane; due mesi durò complessivamente il suo soggiorno in Liguria. Nicolò Gavotti che ospitò Antonio a Savona era figlio di Girolamo e marito di Giovanna Imperiale, cugina del Cardinale Lorenzo; era stato ascritto alla nobiltà genovese nel 1629. Il prolungato soggiorno a San Remo (un mese abbondante, dalla fine di ottobre alla fine di novembre; vedi tra l’altro: AAE, CP, Gênes 4, cc. 471 e 506-7, Giannettino Giustiniani  a Mazzarino, 23 ottobre e 27 novembre 1645; BNP, Clair. 402, cc. 43r-44v, Du Mesnil al conte di Brienne, Genova 12 dicembre 1645) era stato suggerito ad Antonio (come risulta da una lettera di Gio Luca Spinola dell’11 novembre 1645: BAV, Barb.lat. 10862, c. 205) da Francesco Barberini in conformità alle direttive avute, anche per mezzo del nunzio Bagni, da Mazzarino (ASV, Segr. Stato, Francia 92A, Registro di lettere e cifre di mons. Bagni, cc. 49v-50r). Il Cardinale Antonio aveva al suo servizio un certo Lanata, che con la sua feluca teneva i collegamenti con Genova: a questo Lanata Gio Luca aveva affidato tra l’altro un plico di Francesco per Antonio raccomandandogli «che quando per acidente dubitasse di esser forzato a perdere il piego, più presto lo getti in mare».

[24] «C’est une chose bien digne de la légèreté de la France de recevoir le Cardinal Antoine auquel on enleva les armes de France avec ignominie il y a sept ou huit mois», commentava Ormesson, I, p. 332 (l’arrivo di Antonio è registrato a p. 343; cfr. Goulas, II, pp. 138 sgg). Le lettere scritte da Antonio a Francesco Barberini durante il viaggio verso Parigi sono in BAV, Barb.lat. 8800. La lettera del 7 gennaio 1646 con la quale Antonio dava al fratello il resoconto del suo arrivo a Parigi ibidem, 8801, cc. 1-2. Antonio si era fatto precedere da Francesco Buti e come accompagnatori nel lungo viaggio da Genova a Parigi aveva scelto, oltre al suo medico personale, Fausto Tursi, due genovesi che lo avevano brillantemente servito nella guerra di Castro, Marco Doria e Tobia Pallavicino: «Se Vostra Eminenza mostrerà al sig. Tobia di gradire il favore che mi fa», scriveva a Francesco il 18 ottobre da Varazze, «io gle ne dovrò aggiungere queste obligationi oltre tante che devo a Vostra Eminenza». Il grave incidente a cui faccio riferimento occorse a Marco Doria che si ferì pulendo una pistola. Tobia rientrò a Genova nel marzo del 1646 «molto sodisfatto della buona fortuna che ha incontrato costì» (AAE, CP, Gênes 5, cc. 43r-45r: Giannettino Giustiniani a Mazzarino, Genova, 13 marzo 1646). L’Hermite, Ligurie non manca di ricordare con grandi lodi l’opera di Tobia Pallavicino al servizio della Francia. Tobia avrebbe combattuto per i Francesi nella spedizione dei Presidi, in Abruzzo (vedi, tra gli altri, Bisaccioni, p. 500: «cavalliere genovese, valorosissimo soldato di fortuna») e nel 1655, con Francesco I, alla difesa di Reggio (Piccinini).


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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