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Micanzio e le buone penne: b1 b2 b3 b4 b5 “Al gusto loro”, ma non troppo Il libro “di materie giurisdittionali” offerto da Giulio Clemente Scotti alla Repubblica era stato sottoposto al giudizio di Fulgenzio Micanzio, il quale lo trovò non buono, ma eccellente. «È un’opera», scriveva, «che convien legger tutta e considerar distintamente e non così alla grossa per l’importanza della materia e mi riserbo a farlo con un poco di quiete». E tuttavia, poiché l’autore era in procinto di ripartire da Venezia – il consulto è dell’agosto del 1644 – Micanzio si era acconciato a redarre in fretta e furia la sua relazione.[1] «Ho veduti 4 de suoi trattati che sono veramente dotti e buoni». Il primo era il De probabilitate opinionum che avrebbe visto la luce nel ‘49 a Padova:[2] «di questa materia», scriveva Micanzio, «hanno trattato altri ancora, ma questo Autore a mio giuditio la tratta molto sodamente et in modo che può molto servire per acquietare la conscienza in moltissime cause». Il secondo aveva ad oggetto la potestà ecclesiastica e pontificia e specialmente quella detta «indiretta, che consiste in far leggi e deponer li Principi o annullar le leggi loro»:[3] era, secondo Micanzio, un «bellissimo trattato». Gli ultimi due erano una vasta raccolta di casi «nelli quali li Principi e magistrati possono giudicare gl’ecclesiastici così in criminale come in civile». «L’autore», avvertiva Micanzio, «è della famiglia Scotta Piacentina, fratello dell’Ill.mo Sig. Conte Ferdinando e nipote di mons. vescovo Sandonino, prelato grande che ultimamente fu nuntio in Svizzera et ha stampata l’Helvetia sacra e profana, opera molto degna e curiosa»[4] Tutta la famiglia era legata alla Repubblica da un consolidato rapporto di servizio «e servendo di presente anco il suo fratello nell’armi, mostra [Giulio Clemente] ardente desiderio di servir anch’esso nella Lega, cioè coi suoi studii e bona dottrina». La guerra era terminata, Urbano VIII era morto e il suo successore non ancora eletto, ma la Lega restava in piedi. Non è difficile immaginare quali compiti Micanzio le attribuisse ancora: tener a freno la potenza ecclesiastica. Ma la gran dottrina di Scotti non sembrava a Micanzio atta allo scopo: «Questo autore è di quell’huomini dotti et eruditi di gran bontà et integrità di vita, ma che sapendo […] che tutte le divisioni o scismi che sono nati nella Santa Chiesa […] non hanno havuto origine da dissensione negl’articoli o dogmi della fede, ma dalla giuridittione ecclesiastica, […] vorrebbono col moderarsi gl’eccessi nella giuridittione ecclesiastica veder concordi e nei suoi termini così quella come la potestà de Principi temporali, ma […] altro nelle loro degne opere non conseguiscon se non dimostratione della loro probità e zelo, ma infruttuosi et senza approbatione di nissuna delle parti». Ad esempio, per quanto riguarda la potestà ecclesiastica “indiretta”, Scotti la restringeva ai soli casi di eresia, di scisma e di leggi manifestamente contrarie alla religione, «ma è facile da vedere che gl’Ecclesiastici non lo potrebbono tollerare, nemeno li Principi perché se sta poi al Papa il dichiarar chi sia heretico, chi scismatico e quali leggi siano della sudetta natura, il caso del 1606 ci ha fatto chiari, come anco quello d’altri tempi, che mai li Pontefici hanno havuto contesa di temporalità con Prencipi che non l’habbino tirata a causa di heresia, di scisma e di iniquità delle leggi, che quelle restrittioni e limitationi sono bone, ma non servono di niente quanto agli Ecclesiastici, ma mirabilmente per la conscienza dei Principi». Anche la raccolta rappresentata dai due ultimi volumi era
«molto buona», costruita, cioè, «con buoni fondamenti et ottime ragioni» e
soprattutto molto utile perché ordinava una materia «che è sparsa qua e là in
altri autori», sicché «ad un’occhiata si può vedere quello che con molta fatica
convien cercare sparso». «È però vero», osservava Micanzio, «che quanto al modo di
trattare queste cause, specialmente le criminali de gravi delitti, è certo che
non restariano sodisfatti né li secolari né gli ecclesiastici».
«se fosse stampata fuori di Venetia e senza quella dedicatoria nella quale l’Autore mostra la sua particolare divotione verso la Serenissima Republica, secondo il mio parere havrebbe molto maggior forza, perché non parerebbe fatta o per compiacer la Serenità Vostra o per sostentar le leggi et usi del suo governo, ma passerebbe come opera d’un huomo dotto, sincero e zelante della verità». Ma l’osservazione forse più interessante di Micanzio era l’ultima: «Dubito anco grandemente che per stamparla trovarebbe gravissime difficoltà, perché havendosi gl’Ecclesiastici impadroniti delle stampe di modo che anco dagl’Autori antichi, celebri, anco santi, mutano, alterano, aggiungono e levano come le pare complire a loro interessi, et in quelli che di nuovo si danno alla stampa non lasciano passare se non quello che serve ad amplificar la loro giuriditione e restringere la secolare, ho per indubitato che non permetterebbono quest’opera senza (come si dice) castrarla». [1] ASVe, CI 48, cc. 90-91 (Barzazi n.828). [2] E non a Francoforte, come indicato: Poggiali, II, p. 219. [3] Non si trattava dunque del De Potestate Pontificia in Societatem Iesu pubblicato a Parigi nel 1646, che era un violento attacco contro l’ala culturalmente più aperta della Compagnia (vedi specialmente pp. 268 sgg.: De reformatione doctrinae quae traditur in scholis Soc. Iesu ab ea evulgatur libris eiusve efformatione) di cui Sforza Pallavicino, condiscepolo e concorrente di Scotti, era esponente. A proposito della polemica di Giulio Scotti si disse subito (da Sforza Pallavicino innanzi tutto) che essa era figlia dalla delusione sofferta quando per una cattedra nel Collegio Romano a cui aspirava, lo Scotti si era visto preferire proprio Pallavicino. Scotti però negava il fatto, così come negava di avercela con la Compagnia di Gesù o per lo meno con la sua ispirazione e costituzione originarie (Iulii Clementis Scoti […] Paedia peripatetica qua omnis docendae ac discendae Philosophiae Aristotelicae ratio dissertationibus octo exponitur. In his inter caetera passim alucinationes a P. Sfortia Pallavicino in libro Vindicationum publicatae deteguntur ac praeterea antiquiores Societatis patres et insignes Christiani Orbis Academiae ab ipsius iniuriis asseruntur, Padova, Pietro Luciano, 1653, specialmente pp. 181-182 e, prima e più ampiamente, Denudata veritas veritatem amanti Iulius Clemens Scotus comes Placentinus etc., s.n.t., pp. n.n.). L’obbiettivo polemico del De Potestate erano le degenerazioni dottrinali e di costume – per altro più volte condannate, come ricordava lo Scotti, sia dalle Congregazioni Generali, in particolare la terza del 1573, sia dai Prepositi Generali, in particolare Acquaviva e Vitelleschi – che avevano allontanato la Compagnia dagli insegnamenti di Ignazio. In particolare Scotti denunciava la doppiezza di quanti pretendevano di restare fedeli alla teologia di S.Tommaso buttando a mare la filosofia di Aristotele (vedi De Potestate, pp. 281-282, 289). Credo che la vicenda di Scotti, al di là delle rivalità personali, abbia rappresentato un episodio non secondario nel conflitto che all’interno della Compagnia opponeva i sostenitori di una linea dichiaratamente reazionaria (reazionaria, s’intende, in relazione alle correnti di pensiero che potremmo chiamare “galileiste”) e quanti erano invece favorevoli a una certa libertà di insegnamento e di ricerca. Con le Vindicationes Societatis Iesu (Roma, Manelfi, 1649) Sforza Pallavicino, era tornato, alla vigilia della nona Congregazione generale, a rivendicare contro lo Scotti (e contro l’autore della Monarchia Solipsorum, sempre che non fosse la stessa persona) la linea della tolleranza e del confronto approfittando dell’opportunità di farlo sul terreno, a lui favorevole, dell’orgoglio gesuitico. Dopo tutto la richiesta di uniformità dottrinale e di più rigidi controlli censori su scrittori e docenti – ossia di un congelamento generale delle idee nelle scuole gesuitiche e di un insostenibile ritorno dei grandi centri di ricerca della Compagnia a teorie fisiche che i galileisti avevano, più che confutato, ridicolizzato – veniva proprio da chi manifestava un pervicace disprezzo per l’unica virtù che in definitiva contasse: l’obbedienza. Con un paradosso solo apparente la nona congregazione della Compagnia attuò nella sostanza il programma di restaurazione aristotelica e tomistica dell’apostata Scotti e respinse le seduzioni modernizzanti del fedelissimo Pallavicino (più tardi, per altro, generosamente premiato per la sua disciplinata accettazione della sconfitta). Per il dibattito all’interno della Compagnia vedi Costantini 1969, pp. 95-109, e per tutto il resto Spini, specialmente pp. 233-246. [4] Su Ranuccio Scotti vedi Blet 1965. L'Helvetia profana e sacra era stata pubblicata in Macerata da Agostino Grisei nel 1642. |
Claudio Costantini Fazione Urbana * Indice Premessa Indice dei nomi Criteri di trascrizione Abbreviazioni Opere citate Incipit Fine di pontificato 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m Caduta e fuga 2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h Ritorno in armi 3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i APPENDICI 1 Guerre di scrittura indici Opposte propagande a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7 Micanzio b1 b2 b3 b4 b5 Vittorino Siri c1 c2 c3 c4 2 Scritture di conclave indici Il maggior negotio... d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7 Scrittori di stadere e1 e2 e3 A colpi di conclavi f1 f2 f3 f4 f5 f6 3 La giusta statera indici Un'impudente satira g1 g2 g3 g4 g5 L'edizione di Amsterdam Biografie mancanti nella stampa 4 Cantiere Urbano indici Lucrezia Barberini h1 h2 Alberto Morone i1 i2a i2b i2c i2d i2e i2f i2g i2h i3 i4 Malatesta Albani l1 l2 * * quaderni.net |