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Malattia e morte di Urbano

Nonostante che gli accordi di pace fossero pubblicati solo il primo maggio, e cioè un mese e più dopo la firma, la loro attuazione incontrò grosse difficoltà, in ispecie da parte dei Veneziani che, ritornando alle ragioni prime del loro intervento in guerra, esigevano la demolizione delle fortificazioni erette dai Papalini a Comacchio.[1] La diplomazia si rimise al lavoro, ma poiché Urbano era altamente scontento del modo in cui la vicenda di Castro si era conclusa, a Palazzo non si escludeva una ripresa delle ostilità. Il Papa, per la verità, era probabilmente il solo a prendere in seria considerazione una eventualità del genere e tuttavia, da una parte e dall’altra, ci si muoveva come se potesse darsi davvero.[2] Il marchese Villa e il duca di Buglione furono chiamati al servizio della Santa Sede, il primo col titolo di tenente generale, il secondo con la promessa di «soddisfattioni grandissime».[3] Anche i Veneziani sospesero il congedo già iniziato dei loro ufficiali, ma il Duca di Modena  e il Granduca di Toscana li distolsero dai propositi bellicosi non avendo alcuna voglia di ripigliare le armi «per quelle poche masse di fango mal impastato intorno a Comacchio» ed essendo entrambi impegnati, ma all’insaputa l’uno dell’altro, a vagliare le generose offerte di «una vera e stabile unione» ricevute dai Barberini, ormai ansiosi di rompere l’isolamento in cui si erano venuti a trovare e che - era facile prevedere - sarebbe diventato assai pericoloso alla morte del Papa.[4]
Nei primi giorni di giugno il marchese Mario Calcagnini, che si trovava a Roma appunto per trattare con i Barberini per conto del Duca di Modena, scriveva a proposito di una possibile ripresa del conflitto che, in effetti, in Urbano,

«non vi può essere miglior volontà. Ma il medico del Papa ha detto alla schietta al Card. Antonio che non può il Papa vivere con quell’inquietudine. Io l’ho veduto questa mattina e pare appunto il convitato di pietra. Apena s’intende. Parla di guerra, ma è curvo, sordo et immobile. La risoluzione che s’è presa qui intorno a Comacchio è stata di rimettersi alla Francia».[5]

Fu Malatesta Albani, «gentiluomo confidentissimo» del Cardinale Francesco,[6] ad essere mandato in tutta fretta in Francia per questo. Ma la sua missione, in vista del dopo-Urbano, aveva altri e più importanti oggetti. Si trattava di sottoporre a Mazzarino un progetto di sistemazione della questione di Castro (e dei Barberini) che ricordava molto da vicino le proposte formulate l’anno precedente a Bologna dal Cardinal Antonio durante l’incontro con Lionne e Bichi. Vi si prevedeva la riunione di Castro, per via di compera o di permuta, allo Stato Ecclesiastico, e, quale compenso dei buoni uffici da interporre con il Duca di Parma, il passaggio di Francesco al partito di Francia.

«Circa poi di me», aveva scritto Francesco il 23 giugno nelle istruzioni a Malatesta Albani, «potrà assicurare Sua Eminenza che conducendosi ad effetto questo affare [ossia l’acquisto di Castro] io di buonissima e prontissima volontà cedendo a quello che non mai pensai di fare, cioè di accettar già mai il particolar servitio di una delle Corone, dopo la vita di Sua Beatitudine [...] accetterò il servire alla Francia publicamente».[7]

In più, come pegno di alleanza, Francesco prometteva di indurre Urbano a creare un cardinale italiano designato da Mazzarino, magari lo stesso fratello del Duca di Parma. Mazzarino si disse d’accordo sia sull’acquisto di Castro, sia sul passaggio del Cardinale Barberini al servizio della Francia.[8] Ma alzò il prezzo sui cardinali: voleva Michele, suo fratello, più il fratello del Duca di Parma. E Francesco dovette rispondere all’ambasciatore Saint Chamond, che gli aveva portato la richiesta, che «non gli bastava l’animo, per lo negotio di Castro, di condurre Sua Santità a far cardinale il Padre Mazzarino»[9]. La trattative minacciavano così di trascinarsi a lungo, tanto più che c’era ancora Odoardo da convincere [10], mentre il tempo stringeva.
Urbano stava sempre peggio. Nell’udienza del primo di giugno Cornaro lo aveva trovato «di cera assai dimagrito, di corpo languido, estenuato, incurvato e fiacco di forze e altrettanto infastidito e conturbato nell’animo». Aveva cominciato

«a lamentarsi e dolersi di quasi tutte le cose e chiamarsi maltrattato, malservito e ingannato da tutti [...] e tutte queste cose le diceva con essaggeramento grande et alzamento di voce spiritosa sì, ma non della vivezza di già, tal che si vede che anco nelle sue vehemenze non ha più il vigore di prima».

Stanco e irritabile lo era sempre, come dimostrò lo scatto di collera contro Francesco che voleva indurlo a tener concistoro il primo lunedì di luglio. Neppure il lunedì successivo fu possibile tenere concistoro, che infine si svolse il 13, un mercoledì. Ma il Papa

«non sentiva le propositioni delle Chiese che facevano i cardinali [...] non si ricordava le parole solite dirsi nel fare i decreti, di quando in quando tossiva senza poter sputare e spesso si lamentava e si doleva per ogni poca cosa».

Francesco gli era stato accanto tutto il tempo suggerendogli di volta in volta quel che doveva dire e fare. I cardinali ebbero a un certo punto l’impressione che «non potesse finire la fontione perché sempre più appariva languido, infastidito, stupido e come fuori di sé».[11]

«Il Padre Albritio e ‘l Padre Oliva gesuiti», riferiva Cornaro il 23 luglio, «col medico soli gli assistono quasi di continuo hor nella stessa camera et hor vicini. Pochi altri vi vanno e pochissimo il Card. Barberino perché il Papa si conturba quando lo vede [12] e con tutti parla poco e risponde manco, ma spesso sospira e si lamenta. Hanno tentato di persuaderlo a dichiarare li cardinali riservati in petto, ma né Sua Santità ha voluto condescendervi, né è in stato di poterlo fare se non migliorasse».[13]

Ormai non c’era che da rimettersi a Dio. E infatti, continuava Cornaro,

«li Signori Cardinali [...] pregano il Signore Iddio che Sua Santità tiri avanti e viva ancora almeno tanto che passi il sollione per non si haver a chiuder in conclave in stagione così pericolosa, tanto più si prevede e si dubita che possa esser lungo più tosto che breve».

Urbano invece morì di lì a poco, il 29 luglio, in piena canicola.[14]




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[1] Della Torre Historie,II, pp. 986 sgg. Sull’attuazione degli accordi di pace e sui negoziati con Mazzarino (tra cui quelli per il passaggio di Francesco al partito francese) vedi Nicoletti, IX, cc. 730 sgg.

[2] Come testimonia B.Spada, il Papa era preoccupato, tra l’altro, perché negli accordi di pace non si era fatta menzione dei suoi nipoti, il che li avrebbe esposti, dopo la sua morte, alle rappresaglie dei loro molti nemici. Ma quella esclusione era stata voluta proprio dal Cardinale Francesco «persuadendosi che le ricchezze della Casa e la memoria del passato imperio render sicuri dovessero lui et i fratelli dalla potenza e dallo sdegno de’ nemici quantunque grandi, et aggiungeva ancora per ragione che il voler esser loro ne’ capitoli della pace nominati altro non era che un farsi dichiarare autori d’haver mossa la guerra» (BAV, Vat.Lat. 12187, cc. 110-112). Urbano, poi, non perdonava ai Principi della Lega quella che riteneva un’aggressione e si affliggeva di non esser riuscito a punirli a dovere: «prorompeva in parole acerbe contro di loro [e…] implorava dal Cielo giusta vendetta». Con il Cardinale Cornaro, ancora il primo di giugno, riandando agli eventi passati, si rammaricava che solo «la sua buona volontà e retta intentione [fosse] stata cagione de’ danni ricevuti nello Stato Ecclesiastico, perché se lui fusse stato il primo ad assaltare [...], com’era consigliato, non sarebbe stato tradito nella perdita di Castiglione del Lago e del Bondeno e le cose sariano andate d’altra maniera». E aveva aggiunto di «essersi lasciato indurre ad assentire e condescendere ad un capitolato che forsi per altro non era decente ch’egli vi assentisse, ma che se non si vorrà stare ne anco a questo e si vorrà continuar tutta via la guerra è pronto a farlo». A dimostrazione che le sue non erano semplici minacce verbali portava la chiamata del marchese Villa, con il quale e con gli altri ufficiali di cui era atteso l’arrivo, sperava di aver capi migliori di quelli passati, «di molti de’ quali», riferiva Cornaro, «poco si loda e da’ quali dice essere stato indotto per necessità a far molte cose contro sua voglia che non le voleva fare, come anco a servirsi di alcuni che non bisognava, da quali poi era stato mal servito, accennando particolarmente del duca Savelli, ambasciatore dell’Imperatore» (ASVe, DAS, Roma, 121, cc. 16-17).

[3] Il duca di Buglione era stato chiamato dal Papa a comandare il suo esercito nei primi mesi dell’anno, con la promessa di riconoscergli quegli onori sovrani che gli venivano negati in Francia. Buglione aveva poi lasciato la Francia senza licenza del Re, sollevando a Corte qualche preoccupazione. Pare che motore di tutto fosse sua moglie, che, scriveva Girolamo Giustinian, «di cuor austriaco», come l’ha convinto a farsi cattolico, così vuole ora convincerlo a servire il Papa (ASVe, DAS, Francia 101, cc. 4-5, Girolamo Giustinian 1° marzo 1644). Il duca di Buglione e la moglie vennero in Italia accompagnati dal Cardinale Grimaldi, che rientrava a Roma dalla nunziatura di Francia e che li ospitò in una sua villa a Sampierdarena. A Milano, dove si erano fermati prima di proseguire per Genova, erano stati ricevuti con grandi onori dalle autorità spagnole, il che aveva suscitato allarme nel partito avverso e soprattutto stupore per la parte che sembrava avere nella cosa un cardinale, come Girolamo Grimaldi, che del partito avverso alla Spagna era considerato un capo (Della Torre Historie, II, p. 972). Francesco Barberini, durante le trattative per il passaggio della sua Casa al partito di Francia aveva preso senza successo e un po’ avventatamente le difese di Bouillon con Mazzarino (Nicoletti, IX, c. 768r). Giannettino Giustiniani scriveva il 9 maggio da Genova: «Come mi pareva misterioso che il Signor Cardinale rendesse con sì essatta premura tanti honori a suddetti due personaggi mentre si rettiravano dalla buona gratia di Sua Maestà, ho procurato d’investigare la causa, et ho saputo con gran secretezza succedere il tutto per ordine del signor Cardinale Barberini, il quale ha invitato il signor Duca di Buglione di andare a Roma con gran sicurezza che sarà benissimo veduto et trattato, et con promessa che Sua Santità si vogli servire di lui con sua soddisfattione. L’aviso che gli dò è certo...» (AAE, CP, Gênes 4, cc. 106r-107r). E il 16 maggio: «è venuto per il Milanese et ha ricevuto honori et cortesie grandi dal marchese di Velada, il quale ordinò che se gli desse d’Altezza, l’accompagnò sino alla certosa di Pavia et gli dette le sue carozze sino a i confini di questo stato, desiderò d’alloggiarlo et spesarlo per tutta la sua giurisditione, ma il Duca lo ricusò. Gionto qua è stato visitato da tutti li ministri spagnoli più volte, e sempre longamente: il Marchese Spinola è seco ogni giorno, et domani lo banchetta molto alla grande in una villa di Pegli. So ch’egli ha sollevato le speranze a Spagnoli di dover vedere ben presto delle turbolenze nella Francia et so che gli offeriscono partiti d’impiego grande, ma egli ha preso tempo a respondere, volendo prima vedersi con il Cardinale Barberini, dal quale attende soddisfattioni grandissime» (ivi, cc. 108r-109r).

[4] Nicoletti, IX, cc. 735r-736r. Al Duca di Modena i Barberini offrivano, se Urbano fosse vissuto abbastanza, consistenti favori (non esclusa qualche concessione relativa a Comacchio) e, in caso di morte, un’intesa elettorale per fare in conclave un papa amico. Opportune triangolazioni matrimoniali tra le famiglie Este e Barberini e quella del nuovo Papa avrebbero tenuto insieme l’alleanza e garantito la buona osservanza dei patti da parte di tutti. Analoghe proposte pare fossero fatte al Granduca tramite un agostiniano scalzo, certo Padre Arsenio. Il marchese Calcagnini tra il giugno e il luglio del 1644 si abboccò più volte a Roma con i Cardinali Antonio, promotore dell’iniziativa, e Francesco Barberini e, a Bologna, con l’abate Braccesi. Calcagnini (che nei dispacci relativi a questa incombenza si firmava Fabio Costa) manifestò sin dall’inizio una forte diffidenza verso i Barberini e non nascose mai il suo scetticismo circa l’esito finale del negoziato. «Non mi piace il modo con che si tratta questo interesse», scriveva ad esempio da Roma il 7 di giugno di fronte ai primi intoppi e alla scoperta che analoghi negoziati erano stati avviati con i Medici. «Non si può fidare de Preti», ripeteva Calcagnini qualche giorno più tardi facendo soprattutto riferimento alle solite esitazioni e tortuosità del Cardinale Francesco. Ma, come si vedrà, nonostante i dubbi del negoziatore, i contatti tra Este e Barberini, continuarono oltre la morte di Urbano, resistettero alle insoddisfacenti vicende del conclave e alla stessa disgrazia di Antonio e, alla lunga, diedero frutti (ASM, CA, Bologna 9 e Roma 247, fascicoli intestati a Mario Calcagnini e Fabio Costa). Per le trattative durante e dopo il conclave vedi ivi, Roma 247, la corrispondenza di Giminiano Poggi, conclavista di Rinaldo, e in particolare la relazione del Negoziato del Bonvicini col Card. Rapaccioli del 23 settembre 1644. Lazzaro Bonvicini era un segretario del Cardinale Rinaldo, a cui, come tornerò a dire, era stato affidato il compito di sollecitare dai Barberini (in particolare da Antonio «col quale s’era venuto a maggiori ristringimenti» e, al solito, per il tramite del Card. Rapaccioli) un maggiore impegno per la conclusione di quella «triplice congionzione» tra Barberini, Pamphili e Casa d’Este di cui «in assai chiari termini s’era parlato» in conclave. Sul Calcagnini vedi W. Angelini in DBI.

[5] E, a completare il gruppo di famiglia: «Fra Barberino e Antonio odio più che mai» (ASM, CA, Roma 247, fasc. Fabio Costa, 7 giugno 1644). Quanto al contenzioso con Venezia, di fatto si risolse da sé: come scriveva da Venezia Ranuccio Monguidi, «hanno i preti fatta preceder la demolitione di quei lochi di moto proprio e non in vigor de trattati per non venire a consentire che quelle siano sopra i confini. Così mi ha detto il Cardinale Bichi ma confidentemente» (ASP, CFE, Venezia 517, 2 giugno 1644).

[6] Come si è visto, Malatesta Albani era stato impiegato dal Card. Barberino per seguire e sostenere il Principe Prefetto, ma anche per sorvegliare discretamente sui vari fronti del conflitto il comportamento di comandanti e ministri, non esclusi il Card. Antonio e il Valençay. «V. Paternità sappi», scriveva nell’ottobre del ’47 Girolamo Romiti a Vittorio Siri, «che l’Albani era huomo di buona testa, ministro a Signori Barberini fedelissimo e fu datto a Valensé sotto pretesto di darli persona che lo servisse in tutte l’occasioni, ma la verità è che, a mio giuditio e d’altri che n’havevano più di me, le fu datto per saper et haver incontro di tutte l’attioni del Valensé. La verità è che lui haveva facultà grandissime e sopra la borsa e sopra l’ufficiali minuti e per via o dell’auttorità o destrezza operava anche quello che non era sua carica né in suo potere». Pare che una voce corrente nell’esercito addebitasse a Malatesta la perdita del Bondeno, ma Romiti asseriva di poterlo escludere per cognizione diretta dei fatti (BPP, CS, cas. 143). La corrispondenza di Malatesta Albani  con Francesco Barberini per quegli anni è in BAV, Barb. lat. 7369-7370. Da essa non risulta, almeno sino allo scoppio vero e proprio del conflitto, ossia alla mossa d'armi di Odoarda nel settembre del '42, che Malatesta svolgesse per Francesco uno speciale ruolo di informatore e controllore; Barberino, per suo conto, sembrava tutto sommato interessarsi più all'ambiente dei letterati e dei librai che non a quello dei militari di cui pure l'Albani si occupava, ma trattando per lo più pratiche minute. «V. Signoria fa bene a non mi scrivere delle nuove politiche o militari», scriveva Francesco nel dicembre del '41, «perché S. Em.za me ne favorisce. Udirò volentieri che ella mi raguagli de i letterati et altri huomini di garbo che habbia trovato o alla giornata truovi. Così ancora che in Bologna et Ferrara trovando in quelle librarie il quinto et il nono tomo del Baronio spezzati li compri per compire un corpo de gl'annali al quale questi mancano» (c. 18r). Con l'inizio delle ostilità le cose, naturalmente cambiarono. Barberino continuava a raccomandare all'Albani di non dar l'impressione di volersi intromettere nel governo civile o militare: «Di gratia Vostra Signoria stia con la solita modestia», scriveva nell'ottobre del '42, «acciò sappia Mons. Governatore, il Sig. Antonelli, il Sig. Oddi et chi comanda, che Vostra Signoria va in quelle parti per servire nel riferirmi le loro occorrenze per assicurare della mia prontezza, ma non per comandare, tanto che loro devono fare il loro mestiero». Ma di fatto l'autorità dell'Albani crebbe di molto anche per la credenza comune che lo voleva longa manus del Cardinale: vedi nell'appendice Cantiere Urbano le note dedicate all'Albani.

[7] Nicoletti, IX, cc. 747-748 (quasi tutto l’ottavo libro del IX volume è dedicato alla missione Albani). Cfr. Pastor, XIII, pp. 894-895. Le lettere di Francesco Barberini a Malatesta Albani dal 25 al 30 maggio 1644 e quelle dell’Albani dalla Francia sono in BAV, Barb.lat. 8000. All’Albani in viaggio per la Francia il Cardinale Barberini raccomandava di assicurarsi a Corte l’appoggio del duca di Orléans e del principe di Condé, nel che (e nella sua amicizia per Bouillon) si può forse leggere una qualche sfiducia circa la solidità della posizione di Mazzarino e una certa inclinazione a puntare di più sui Principi. Su questo punto Albani non appena arrivato a Parigi si affrettò a eliminare ogni dubbio: «È Mazzarino odiato da tutti», scriveva il 3 giugno, «ma possente in estremo havendo del tutto guadagnato lo spirito della Regina della quale, e per l’accomodarsi e l’habito et il viso un puoco troppo per vedova et per l’allegria che ha mostrato sempre dopo la morte del Re, si ha concetto che passino con il cardinale più intimi affari» (BAV, Barb.lat. 8000, cc. 2, 18v-19r).

[8] Sulle prime, in verità, Mazzarino aveva fatto mostra di esser poco interessato alla cosa, ma quando Malatesta Albani aveva fatto capire di esserlo ancor meno, si era precipitato a rassicurarlo «che si sarebbe fatto il possibile accioché il Duca di Parma in ogni maniera si fosse contentato o della vendita o della permuta» (BAV, Barb. lat. 8000, c.16v, 3 giugno 1644).

[9] A Malatesta Albani, poi, scrisse: «Dico a V. S. che ho per impossibile e più che impossibile che Sua Santità già mai vi condescenda» (Nicoletti, IX, cc. 763v-764v). A fare all’Albani il nome di Michele fu, nel luglio, il Lionne, a cui l’Albani rispose che con lui Mazzarino non ne aveva mai parlato. Nel loro primo incontro Mazzarino gli aveva detto «che riuscendo il negotio desidera che Nostro Signore faccia un cardinale al Duca di Parma o sia il fratello o il figlio o qualche parente del Duca et mi nominò mons. Farnese però conforme desiderarà Sua Altezza; nel resto qua non dimandano altro a requisitione della Francia che la dichiaratione di Vostra Eminenza di essere del partito di Francia ne’ modi che Vostra Eminenza pone nell’Istruttione» (BAV, Barb.lat. 8000, cc. 20 e 88).

[10] Sembra che alla bisogna fosse stato destinato Grémonville, che sul finire di luglio partì all’improvviso per l’Italia. Si sapeva che doveva toccar Torino, Genova e soprattutto Parma, dove il Duca meditava di attacar briga con i Doria per i feudi di Val di Taro, e doveva esser convinto, con le buone o con le cattive, a starsene tranquillo («non ha denari né gente. Si sa però che la massima di Sua Altezza è d’accendere il fuoco et lasciare poi a gl’altri il pensiero di portarvi dell’acqua…»). Sull’oggetto vero della missione di Grémonville, la cui coincidenza con la malattia mortale di Urbano non poteva apparire casuale, qualche cosa era però trapelata. L’ambasciatore Nani ne scriveva il 23 luglio a Venezia: «Doppo negotiato con Parma e Genova passerà Gremonville a Roma per stringere qualche privata confidenza del Cardinale Barberino con questa Corona. Le aperture si sono già fatte et molte congetture persuadono che Malatesta Albano confidente de’ Barberini non habbi qui altro negotio che questo […]. Qui s’applica da dovero al conclave et non si lascierà tentativo di stringer Barberini, con la fattione loro numerosa e potente, alla Corona». «Se vincer si potrà Barberino» tornava a dire il 26, «si fonda un gran vantaggio nel seguito suo et se gli faranno partiti tanto più larghi quanto che s’è temuta sempre l’interna propensione di lui verso Spagnoli». Nani venne a sapere qualche giorno più tardi che Grémonville avrebbe dovuto proporre a Odoardo la permuta di Castro, già oggetto dei negoziati di Malatesta Albani: «offeriscono al Duca», ma con scarse speranze, aggiungeva Nani, «ricompensa vantaggiata et di lasciarli godere l’entrate di Castro etiandio, purché il presidio et la forza si rimetti alla Chiesa». È una conferma del fatto che l’acquisto di Castro allo Stato Pontificio restava, anche in vista del dopo-Urbano, ormai imminente, l’obbiettivo di Francesco Barberini e che ad esso era (o si lasciava credere che fosse) condizionata l’eventualità di un’alleanza in conclave tra la fazione urbana e quella francese (ASVe, DAS, Francia 101, cc. 278r-v, 280r, 286v-287r, 293r, 305v, Battista Nani, 23 e 26 luglio, 2 agosto 1644).

[11] ASVe, DAS, Roma, 121, c. 16r-17r, 35v.

[12] Circolava insistente la voce che Urbano fosse morto scontento di Francesco. Questa di Corner è solo una delle molte testimonianze (vedi per es. la scrittura che comincia: “La brevità di vita…”). Ma un Proemio al conclave di Innocenzo X di parte barberina (inc: “Non vi è arte quantunque…) attribuiva la diceria ai nemici di Barberino che, negli ultimi giorni di Urbano e col pretesto del suo cattivo stato di salute, avevano provocatoriamente proposto di affiancargli un “adiutore”, «e per far questi un colpo di stato maggiore, con mostrare che si ritrovasse il Papa senz’alcun aiuto o sostegno, inventarono essersi scoperto a Sua Santità già molti mesi erano, non fosse più caro il Card. Barberino e che non più di lui si fidasse. Essersi più volte sentito il Papa dire che felice assai morrebbe, se solo non havesse già mai conosciuto il Card. Barberino» (BAV, Barb.lat. 4592, c. 111r-v). Si diceva anche che Urbano avesse lasciato una misteriosa lettera per il suo successore: «Papa Urbano nella sua morte lasciò una lettera sigillata con tre sigilli con l’anulo piscatorio consegnandola a Giori che sotto pena di scomunica ipso facto incurrenda riservata al papa successore dovesse consegnarla subito al medesimo papa eletto nelle proprie mani; il che saputo da Barberino, succeduta la morte, mandò per haverla in suo potere con pretesto di esseguire gl’ordini di quella Santità, ma Giori andò subito di persona a trovarlo col quale era Antonio e Bichi scusandosi di non poterlo servire per gl’espressi ordini havuti dal Papa e per le censure già comminateli, per il che restorono tutti tre li cardinali molto sospetti, non potendone pensare il motivo. Si pensa intanto che possa esservi cosa dentro di momento grande mentre il Papa morì come disperato e disgustatissimo di Barberino» (“Il Signor Cardinale de Medici...”, c. 290v). Giori in effetti conservava diverse carte che in parte aveva recuperato e in parte gli erano state affidate da Urbano (e alcune di queste sotto la condizione di tenerle rigorosamente segrete). In più, come scriveva a Francesco il 4 febbraio del 1645, Giori era alla ricerca di una qualche scrittura, «quel benedetto libro», che pensava fosse in certe «cassette rosse di Palazzo» che aveva ritrovato e di cui aspettava le chiavi «dal Rossioli», ossia mons. Giovanni Roscioli, Maestro di Camera di Urbano. Le carte in suo possesso (e che mandava a Francesco visto che questo non aveva trovato «un mezzo quarto d’hora in quasi quattro mesi che sono passati dalla creatione del Papa» per riceverlo di persona) erano: «il libro delle cose di S.Pietro che Lei sa, un altro de gli instrumenti publici del medesimo negotio, un fascietto di lettere con un libretto legati insieme con spago, ricuperato dall’heredità dello Schinderio [Francesco Schinder, cappellano segreto di Urbano VIII] che erano per andar per la mala via, un involto in carta azurra di scrittura datomi dalla Santa Memoria di Urbano acciò lo conservassi prohibendomi il lasciarlo vedere a chi si fusse, opera del Padre Andrea Greco: il contenuto non lo so perché mai, benché la curiosità m’invitasse, l’ho aperto per poter con più verità d’haver osservata la prohibitione, non havendolo ne meno lasciato vedere alli miei occhi proprii. Mostrò ben quella Santa Memoria di volerlo dare a Vostra Eminenza et però gli lo mando. In oltre vi è un altro involto, di fogli volanti la maggior parte, e sono di versi così scritti da Sua Santità et in particolare poesie con alcuni versi greci d’altri autori. Fra questi vi sono li distichi che Ella sa; vi sono molti sonetti segnati in capo la carta M alcuni, N altri. Questi sono del Padre Nicolò, quelli della Santità Sua. Tutte queste cosette ho messo insieme quasi furtivamente acciò non pericolassero, come saria successo facilmente. Vi sono alcune baccattelle o burlesche o imperfette fatte pure da Sua Santità» (BAV, Barb.lat. 8725, cc. 48r-v e 53r).

[13] ASVe, DAS, Roma, 121, c. 36. Qualcosa, tuttavia, riusciva ancora a fare: tra i provvedimenti presi «sono state diverse provisioni distribuite a venti Signori Cardinali creature de’ più poveri dell’ultime promotioni, a nove de quali è stata assegnata la parte di cento scudi d’oro il mese da darsi dalla Camera come già si soleva et alli altri undici conferito a chi titoli et a chi pensioni poste la maggior parte sopra abatie del Signor Cardinal Barberino e tra questi al Signor Cardinal Bragadino una di cinquecento scudi sopra l’Abbazia della Folina» (ivi, cc. 36v-37r). Le stesse notizie raccoglieva in Genova Giannettino Giustiniani il 2 agosto: «Qua si crede a quest’hora succeduta la morte del Papa, sapendosi per avisi delli 29 di luglio che non parlava più, et essendo stati avisati tutti li cardinali absenti d’inviarsi subito a quella volta per la nova elletione. Il Cardinale Durazzi si partì sino d’avant’hieri per terra in sedia. Non era stato possibile indurlo [il Papa] a far la promotione per quanto si sijno affaticati li padri Oliva et Albritio, gesuiti, di persuaderlo che fosse di dovere per tutti li luoghi vacanti et obligato per li quattro di già creati et riservati in petto» (AAE, CP, Gênes 4, cc.158-159bis).

[14] L’orazione funebre fu affidata a un fedelissimo dei Barberini, Felice Contelori: Oratio in funere Urbani VIII [...] ad Sacrum Collegium Eminentissimorum Cardinalium habita in Basilica Vaticana die octava Augusti anno 1644, Roma, Tip. della Rev. Camera Apostolica, 1644 (una copia in BAV, Ott.lat. 2435, cc. 364-369).


Claudio Costantini

Fazione Urbana

*

Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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