Micanzio e le buone penne: b1 b2 b3 b4 b5

Ferrante Pallavicino

C’è un certo parallelismo tra i fortunosi casi del Corriero svaligiato e l’evolversi della crisi di Castro. Ferrante Pallavicino aveva riscritto il Corriero (ossia l’aveva ampliato, inasprito e dichiaratamente rivolto contro i Barberini) nell’estate del ‘41, al suo ritorno dalla Germania, quando, tra le revoca delle tratte, l’ordine di estinguere i Monti Farnese, e la decisione di Odoardo Farnese di fortificare Castro, la vertenza tra le Corti di Roma e di Parma stava precipitando verso il confronto armato. Il testo era andato in stampa più o meno in contemporanea con il monitorio papale del 21 agosto. Il sequestro che bloccò la diffusione del libro e l’arresto del suo autore precedettero di tre giorni la scadenza dell’ultimatum pontificio a Odoardo. Nel marzo del 1642 la liberazione di Ferrante e la contemporanea proibizione del suo libro rispecchiavano abbastanza fedelmente l’atteggiamento che Venezia stava assumendo nella questione di Parma: formale ossequio per il Pontefice e comprensione per le sue ragioni, ma insieme ferma opposizione alla sua politica intransigente. E la liberazione di quello che era ormai diventato come polemista il nemico capitale dei Barberini, annunciava, dopo la sospensione di giudizio che la sua lunga carcerazione aveva lasciato intravedere, una scelta di campo abbastanza precisa da parte del governo veneziano. [1]
Coincidenze forse fortuite, ma sufficienti ad autorizzare qualche sospetto su un possibile legame tra le due vicende: Ferrante Pallavicino aveva riscritto il Corriero, come poi avrebbe scritto la Baccinata, in sostegno o addirittura per conto del Duca di Parma (a dispetto della presunta mala soddisfazione di questi nei suoi confronti)?[2] La sua liberazione era stata una concessione agli influenti patrizi suoi amici o allo stesso Duca suo committente?
Comunque stessero le cose, è con la stampa del Corriero svaligiato che si aprì di fatto la campagna antibarberiniana direttamente o indirettamente legata alla guerra di Castro.[3] Non è un caso che il nome di Ferrante sia rimasto appiccicato a diverse scritture che a questa guerra facevano esplicito riferimento, forse non sue o certamente non sue, ma che con le sue avevano una riconosciuta affinità.[4]
A proposito del Corriero svaligiato Vitelli aveva scritto a Roma il 5 ottobre 1641 con il solito ottimismo «che Fra Fulgenzio ha fatto una cattivissima relatione contro di lui, restringendosi però che non vi siano heresie per escludere il S.Offitio». In verità la relazione di Micanzio, la cui stesura seguiva di una settimana l’arresto di Ferrante, non era affatto “cattiva”. Al contrario, come ha scritto Laura Coci, aveva nettamente «il tono di una difesa dell’opera pallaviciniana in nome della libertà di Venezia, da sempre invisa al papato».[5]
Ad informare il nunzio era stato Vittorio Siri, lo stesso che gli aveva rivelato l’esistenza del libro e provocato l’arresto di Ferrante: «Lui mi ha assicurato della relatione di fra Fulgentio. Con Lunigo, altro consultore, ho messo il Primicerio di Candia, che può comandarli». [6] Le parole del nunzio fanno presumere che Siri fosse in rapporti confidenziali con Micanzio e che avesse vantato qualche influenza su di lui. Perché, dopo aver provocato l’arresto di Ferrante, di cui, a sentire Brusoni, era o si fingeva amico, Vittorio Siri abbia ingannato in questo particolare (certo non secondario) anche il nunzio Vitelli è questione che probabilmente attiene solo agli accidentati percorsi del doppio gioco in cui si era avventurato.
Il Corriero, aveva scritto Micanzio nel suo consulto,

«detesta il secolo presente nel quale da Prencipi non vien riconosciuto il merito de virtuosi e vengono favoriti et aggraditi li soli vitiosi. Biasma anco l’haver inventato nuovi titoli e spetialmente quello del Eminentissimo».

Né l’una cosa né – men che mai – l’altra dovevano dispiacere al governo di Venezia.

«Sono alcune di queste letere scritte nel stile delli Rauagli di Parnaso del Boccalini inventato per poter sferzar chi si sii senza che si possi dolere».

Nessuno dunque, almeno nelle intenzioni dell’autore, si sarebbe dovuto lamentare.

«Quando parla in più luochi de Prencipi e Grandi allude sempre a Roma e Spagna, con che pare habbi grande antipatia».

Nel che, naturalmente, non c’era niente, o quasi, di male.

«Sopra tutti gl’altri», precisava, il libro «detesta l’attioni del Papa e Cardinali et in particolare il viver della Corte piena d’arpie, hipocrisie, pessimi costumi e maestra de vitii»

e neanche questo, obbiettivamente, sembrava, a Venezia, costituire un gran demerito.

«E volesse Dio», aggiungeva Micanzio, quasi a sbarazzarsi preventivamente di possibili obiezioni, «che non dicesse la verità, poiché questa fa conoscer, come dice l’auttore, che chi si risentisse di essa, quasi ferito, ben mostra non haver corrazza».[7]

Ferrante Pallavicino era poi, secondo Micanzio, una di quelle “buone penne”, dei cui servizi la Repubblica e i Principi laici avrebbero potuto aver bisogno in molte occasioni e che quindi meritavano di esser sottratte alle vendette e alle seduzioni dei “romaneschi”. Delle qualità di Pallavicino Micanzio faceva un aperto elogio:

«Non si può negar che questo non sii huomo di buon giudizio. Se ben [8] ha errato col voler metter os in coelum, conosce però il male d’ogn’uno e lo propala acciò gl’altri non s’inciampino. È anco d’ingegno perspicace e sottile poiché in diverse letere di lascivie e carnalità ha ritrovato metafore appropriate con la coperta de quali manifesta il suo concetto in modo che semplici non sapieno levarne la ziffra».[9]

Anche l’inevitabile ammissione del carattere osceno e irriverente di tanta parte del libro di Ferrante era fatta con molta cautela e non senza invocare ogni volta, a beneficio dell’autore, giustificazioni ed attenuanti:

«In soma è una satira picante contro ogni sorte de vitii, d’ogni genere di persone, ma essentialmente contro Grandi e, come la libertà delle letere segrete porta, senza quelle cautele che convengono a quelle cose che sono fatte palesi e generalmente parlando questo è un componimento pieno di licenza contro l’honestà, contro buoni costumi e contro quel rispetto che la Serenità Vostra ordina che nelle stampe s’habbi alli Principi e se bene può havere l’autore la sua scusa, che è tale il costume de satirici che accusano le sceleraggini, e l’inventione porta questa licenza, nondimeno dovendosi publicare colla stampa era necessario astenersi da tante obscenità».[10].

Il Corriero svaligiato era dunque un libro più buono che cattivo, imprudente ma veritiero, nella sostanza condivisibile, forse meritevole da parte della Repubblica di qualche tolleranza. Una tolleranza che in ogni caso non sarebbe stata che una giusta ritorsione per la sistematica campagna di denigrazione che Roma e la Spagna, bersagli del libro, alimentavano da sempre contro Venezia.

«Ci pare dover aggiongere che sì come è sommamente comendabile il zelo ardente e pio della Serenità Vostra et si accende contra chi offende la Corte di Roma et il governo dei Spagnoli, che in fatti sono il segreto di questa satira, così all’incontro, la sua bontà è malissimo da loro ricambiata […]. Quanto a Spagnoli è sufficiente testimonio il loro Politico Indiferente composto, si crede, dal Conte della Roccha, ma certo stampato in Milano di ordine del Governatore».[11]

Quanto a Roma, che, pur mostrando una speciale diffidenza per Venezia, era in generale ostilmente disposta verso qualsiasi sovrano laico,

«diremo ben questo, che se tutto quello ch’è in questo libro detto contro il Papa, Cardinali e Corte di Roma, l’auttore havesse detto de Prencipi laici e molto peggio, non solo non haveriano li Romaneschi havuto a male, ma se n’haveriano compiacciuto grandemente poiché godono l’udir che siino calpestati et abbassati li Prencipi per maggiormente inalzar la Corte nella quale si parla con tanta libertà e con concetti così improprii e spetialmente della Serenissima Republica che se il stato suo fosse una Genevra non potriano dir peggio, né si fermano nel parlar solo, ma passano anche al scriver e stampar poiché un frate domenicano stampò in Roma la vita di Paolo 5° e per sublimar le sue attioni diede di mano all’interdetto con detestar et anathematizar l’operationi della Serenissima Republica e da queste passò a gl’interessi del Patriarchato d’Aquileia, Ceneda e dominio del mare, che se fosse stato fiscale della Camera Apostolica non haveria fatto un placito così severo e però meritava questo libro esser abbruggiato publicamente [12] come fu fatto in Palermo un tomo de gl’Annali del Card. Baronio per ordine del Re. Fu anco ristampato il Squitinio della libertà di Venetia nel Stato della Chiesa e si vendeva publicamente in Roma come si fa ogn’altro libro e pur questo è libro sopra ogni altra cosa seditiosissimo e che traffige le viscere della Maestà della Republica. Habbiamo anco osservato che nelli Concilii generali ristampati in Roma nel Vaticano hanno intrusa la scommunica che publicò il Concilio di Costanza contro la Republica per gl’interessi del Friuli che prima non era stampata nelli concilii vecchi.[13] In somma non vogliono che sii registrato nel loro capitulare quella lege di natura quod tibi non placet alteri ne feceris, ma vogliono soli goder l’immunità de medici col poter impune occider chi meglio li pare et ove la Corte favorisce et abbraccia tutte le compositioni che deprimono la riputatione et autorità de Prencipi, così perseguita tutti quelli che toccano li suoi vitii e vorrebbe che li Principi servissero alle sue passioni e si irritassero contro le buone penne per rivoltarle poi essa contro li medesimi Principi, di che non mancano essempi».[14]

Le pubblicazioni nominate da Micanzio non erano, per la verità, recentissime: la vita di Paolo V di Abraham Bzowski era del ‘24,[15] la più recente edizione dello Squitinio del 1619,[16] mentre la collezione romana dei Concili, apparsa tra il 1608 e il 1612, risaliva nel suo impianto originario ai pontificati di Gregorio XIII e di Sisto V.[17] Ma per Micanzio il tempo trascorso non contava. E del resto era ben vero quanto lo stesso Micanzio non si sarebbe stancato di ripetere, e cioè che Roma pretendeva di pubblicare quel che voleva contro i Principi, ma non ammetteva che le si rispondesse per le rime. «Cosa veramente incredibile, se ogni giorno non si vedesse in pratica».[18]




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[1] Sin dall’inizio Vitelli aveva tentato di liquidare Pallavicino – e di impadronirsi della sua persona – gettandogli addosso l’accusa di eresia, ma lo stesso Barberino aveva espresso in proposito un certo scetticismo: «Non vi voleva minor premura et applicatione di quelle di Vostra Signoria […] per impedire un libro così sfacciato, impudente e maledico. Dei libri oltre a quello che Vostra Signoria ha mandato me ne sono venuti in mano dua sì che […] si devono replicar le lodi doppo l’operato appresso al Senato per la industria impiegata nel ricuperare i libri. Ho letto tutte le lettere malediche […] non essendo bastato l’animo di leggere le oscene […]. Non mi maraviglio dunque che la bontà del Principe non habbia potuto tenere il silentio et che la probità de Senatori si sia così nobilmente commossa. Mi dispiace nondimeno che egli oltre al danno che destinava alle anime, l’habbia partorito a se stesso et contro alla immunità ecclesiastica. Il Padre Inquisitore potrà rivedere il libro, se vi fusse qualcosa d’heretico non l’ho saputo vedere» (BAV, Barb.lat. 7763, c.4, 5 ottobre 1641). «Sin’hora il Padre Inquisitore non trova propositioni hereticali nel libro del Corriero Svaligiato», rispondeva Vitelli il 12 ottobre, «né cessano li fautori del Pallavicino di volerlo aiutare, chiamando vivezza le sue inaudite oscenità e maledicenze, ma questa seguente settimana di nuovo farò instanza perché mi si consegni, et così lo premerò» (BAV, Barb.lat. 7720, c. 47v). Scavalcato l’Inquisitore, della questione fu investito il Sant’Uffizio: «Intorno all’auttore del Corriere svaligiato», scriveva Barberino al nunzio il 23 marzo, «vedo le diligenze che Vostra Signoria opportunamente haveva fatto in difesa dell’immunità ecclesiastica et havendo Nostro Signore ordinato che se ne dia parte al Santo Uffitio, di là dovrà soggiungersi quello di più occorra». Nel maggio fece la sua comparsa nella vicenda Charles de Brèche (o di Morfì) che avrebbe consegnato Pallavicino ai papalini: «Lodo le diligenze di Vostra Signoria intorno al tristo Palavicino», scriveva Barberino a Vitelli, «et se riuscisse haverlo nelle mani sarebbe ben speso il danaro. Dubito però che il franzese sia huomo di discorso, et da pigliar danari ben presto». Barberino tornò a occuparsi dell’attività di Ferrante in ottobre: «S’intende che Ferrante Palavicino continui a comporre e metter fuori opere cattive e che ne sia uscita una intitolata Boccinata dell’armi ecclesisatiche, del qual libro desiderarei haver qualche esemplare et meglio sarebbe se si potesse raccogliere i volumi acciò non si publichino et se in qualche maniera si potesse anco reprimere l’audacia di quest’uomo» (ASV, Segr. Stato, Venezia 66, cc. 95-96 e 201). Ferrante finì nelle mani dei suoi nemici nel dicembre 1642. Il 7 marzo 1643 il Cardinale Barberini scriveva a Vitelli: «Mons. Sforza mi scrive d’Avignone che quel franzese gli havea dato nelle mani il tristo frate Palavicino e che subito l’havea fatto ritrarre perché qua si assicurassimo se veramente era esso. Per venir in cognitione di questo non conosco miglior mezo di Vostra Signoria a cui perciò mando il ritratto, perché con quella prudenza e circospettione che è sua propria lo faccia riconoscere e si accerti se egli sia il frate Palavicino. L’involto del ritratto Vostra Signoria lo riceverà da mons. Vicelegato di Romagna per huomo a posta, non essendomi arrischiato d’inviarlo a dirittura per l’ordinario. Se il tristo ha dato nella trappola, merita il franzese che se gli paghi il promesso e non ricordandomi io precisamente quanto fosse, desidero di sapere s’a lei potesse sovvenire dalle lettere che le scrivea il Feragalli, non ricordandosene né meno lui» (BAV, Barb.lat. 7767, c.50r). E una settimana più tardi: «Aspetterò di sentire che Vostra Signoria habbia ricevuto il ritratto che dovrà esserle inviato dal Vicelegato di Romagna e che l’habbia fatto riconoscere per quel tristo frate Pallavicino. Vostra Signoria saprà molto bene come vanno fatti le ricognitioni che possino servire in giudicio. Parendomi che prima si debba procurare di truovar persone che dichino di conoscer detto frate e dopo haver discorso delle sue fattezze, interrogarli se vedendo il suo ritratto lo riconoscerebbero, e dicendo di sì, si fanno tre o quattro diversi ritratti e fra questi anche quello del frate, e poi si fa riconoscere. Ma già ho detto che ella saprà molto bene come va. Io solamente desidero che il negotio vada più segreto e coperto che sia possibile» (ivi, c. 52r-v). A proposito di Tomaso Tomasi: «Se a Vostra Signoria riuscirà di havere il libro stampato nuovamente del Divortio etc. lo vedrò volentieri, come ancora mi sarà caro che mi mandi l’Antibuccinata. Quanto alla ricognitione del Palavicino che Vostra Signoria scrive di mandare insieme con il ritratto al Vicelegato d’Urbino perché occorrendo si faccia riconoscere ancora dal Padre Tomasi, che hora si trova in Pesaro, devo soggiungerle che è necessario Vostra Signoria mandi dua testimonii omni exceptione maiores quali lo riconoschino personalmente in Avignone» (ivi, c.58r, 4 aprile 1643). Sempre sull’Antibaccinata e sul riconoscimento del Pallavicino: «Pretende l’amico del Pallavicino che l’Antibacinata fusse fatta da un confidente di esso Palavicino et che il medesimo ne gustasse per farli la replica. Però dubito fusse una vantatione del detto Palavicino. Il sudetto amico vorrebbe che si credesse che fusse scappato il Palavicino pensando così di poter egli levar via alcuni libri lasciati in un luogo dal Palavicino; io però sto persuadendolo che si contenti del fatto» (ivi, c. 62, 11 aprile 1643). L’ “amico del Pallavicino” dovrebbe essere Charles de Brèche, la cui testimonianza sul Tomasi mi sembra di qualche interesse. Charles de Brèche è nominato talvolta da Vitelli monsù Ciarlé o mons di Charles; mi domando se non sia da identificare con quel Chiarles di cui Ranuccio Scotti parla in un dispaccio del novembre 1639 come «intrinseco di Chavigny» e «agente di mons. Mazzerini» e sulla cui identità Blet, 1965, p. 189-190 palesa qualche incertezza. Il grosso della corrispondenza di Vitelli relativa a Ferrante Pallavicino è stata pubblicata da Adorni Mancini. Per le vicende del 1641-42, vedi anche Marchi, Corriero. Ma per tutto quanto riguarda Ferrante mi rifaccio sempre a Coci, 1983, 1986-88, 1992.

[2] Brusoni  1654, p. 12: «Si ruppe intanto la guerra tra Barberini e ‘l Duca di Parma onde il Pallavicino, o per racquistare la grazia di quel Principe, che si chiamava per altro mal sodisfatto della sua penna per le cose scritte di sua persona ne’ Successi dell’anno 1636 e nel medesimo Corriere svalliggiato, o pure per vendicarsi di questa sua prigionia contro chi ne presumeva autore, scrisse la Bacinata all’armi pontificie…». Della mala soddisfazione di Odoardo parla lo stesso Ferrante nella lettera XLIII del Corriero indirizzata al fratello Pompeo, cortigiano di Odoardo: respingendo l’accusa di aver in qualche modo denigrato il Duca nei Successi del Mondo dell’anno MDCXXXVI (Venezia, 1637), Ferrante si candidava, aspirante storico ma già esperto panegirista, a «descrivere le glorie» di quello che non mancava di indicare, da buon suddito, come «il mio Padrone». La lettera è un po’ fuori posto nell’opera e potrebbe ben essere un mero espediente per allontanare dal Duca il sospetto di essere l’ispiratore di un libello scabroso.

[3] «Tali machinationi del Duca - scrive Nicoletti - destarono le lingue e le penne di molti a scrivere contro la Santa Sede libri e componimenti con titoli di Manifesti, di Memoriali, di Baccinate, di Divortii e la principal fucina d’onde uscirono questi parti abominevoli fu la Città di Venetia [...] Basti il dire che il contenuto delle sopradette opere è una perpetua oppugnatione dell’imperio temporale e spirituale de Pontefici» (Nicoletti., IX, c. 121). Brusoni 1661, p. 375 parla di “enormi scheccherature”. Cfr. Pastor, XIII, p. 1035.

[4] Laura Coci ha rilevato, tra l’altro, come nelle esposizioni di Vitelli al Collegio la questione di Pallavicino fosse per lo più legata a quella di Castro (Coci 1986, p. 322-323; 1987, p. 304). Sulla paternità delle altre opere vedi Coci 1983, 1992 e, soprattutto per il Divorzio celeste e il Dialogo […] tra due gentilhuomini acanzi, Coci 1988, pp. 237 sgg. Confesso che mi dispiace un po’ non poter attribuire con sicurezza la paternità del Divorzio (magari con il concorso di quell’amico, di cui si parla nella nota finale) a Ferrante.

[5] Coci 1992, p. CIV. Coci 1988, pp. 255-263 pubblica integralmente il consulto di Micanzio. La sua trascrizione e la mia differiscono un poco anche per la diversità dei criteri adottati. Non presumo affatto che la mia trascrizione sia migliore della sua: l’adotto per pura comodità. A Laura Coci non è sfuggita l’importanza anche simbolica della presenza di Micanzio nella vicenda di Ferrante: una presenza, ha scritto, che «si carica di ulteriore significato a posteriori, quando si tratterà di inabissare un processo (quello al Pallavicino) che non vi è alcuna volontà politica di celebrare» (Coci 1986, p. 320).

[6] BAV, Berb.lat. 7720, c. 40.

[7] ASVe, CI 46, cc.90-91, 1° ottobre 1641; Coci 1988, p. 256 (Barzazi, n. 613).

[8] Segue cancellato: questa volta.

[9] ASVe, CI 46, cc.90v; Coci 1988, pp. 256-257.

[10] ASVe, CI 46, a c. 91r da In soma a palesi; a c. 93r il resto.

[11] Come è noto, L’istorico politico indifferente (scritto in polemica con Il politico soldato monferrino di Vittorio Siri e a cui lo stesso Siri avrebbe risposto tra il dicembre del ‘40 e il gennaio del ‘41 con Lo scudo e l’asta del soldato monferrino e con le Osservazioni sopra l’istorico politico indifferente) è stato di volta in volta attribuito al Padre Cesare Spadafora, confratello di Siri, (Affò, Armellini) o a Birago Avogaro (Mazzucchelli, Tiraboschi, p. 576, Melzi e soprattutto V. Castronovo  nella voce Birago Avogadro in DBI); Morandi, p. 101, non si pronuncia. L’ambasciata spagnola a Venezia era un noto centro di produzione di scritture di propaganda: «Il Conte della Rocca in Venezia ardì d’intimare al Concilio e procedere innanzi con parole vi è più scandalose con Mons. Vitelli Nunzio Apostolico a quella Republica, si sono divulgate scritture irreverenti sotto simulato nome di Lodovico Zambeccari che si riconobbero escire da Spagnoli e in specie esser composizioni del med.mo Conte della Rocca Ambasciatore al Senato Veneto» (BAV, Ferr. 270, Discorso sopra la Corte di Roma fatto verso la fine del Pontificato di Urbano VIII, incipit: “La constitutione di questa Corte…”, cc. 140v-141r). Della tipografia del Della Rocca parla anche Brusoni.

[12] Segue cancellato: per mano del boia.

[13] «Quando la Corte haveva ancora qualche riguardo di non offendere», si legge a c.91r in una diversa redazione dello stesso brano. Il Concilio di Costanza figura nell’ultimo volume dei Concilia generalia Ecclesiae Catholicae Pauli V Pont. Max. auctoritate edita, 4 voll., Roma, Tip. Vaticana, poi della Rev. Camera Apost., 1608-1612. Per il Friuli Venezia ebbe a scontrarsi soprattutto con il Concilio di Basilea, i cui atti però (pare per intervento di Bellarmino, ma, certo, non per fare piacere alla Repubblica) non furono accolti nell’edizione romana. Sulla questione del Friuli vedi Pio Paschini, Storia del Friuli, III, Udine, 1936, pp. 144, 155-157, Fabio Cusin, Il confine orientale d’Italia nella politica europea del XIV e XV secolo, Milano, 1937, I, pp. 281, 392-393, II, pp. 11-12, e, limitatamente al secondo dei due Concili, Antonio Niero, L’azione veneziana al Concilio di Basilea (1431-1436), in Venezia e i Concili, Quaderni del Laurentianum, Venezia, 1962, pp. 3-46.

[14] ASVe, CI 46, c. 90. Delle conclusioni esiste un’altra versione, non dissimile ma più completa, a c. 91 (Coci  1988, pp. 258-259). Vi si ricorda tra l’altro che «il Contiloro, scrittura che tanto offende la dignità veneta preludio al scanzelamento dell’elogio, pare stampato in Parigi, ma è stampato in Roma ove anco è composto et si crede dalla frase con il genio et la mano del medesimo Pontefice». Si tratta, naturalmente, della Concordiae inter Alexandrum III S.P. et Fridericum I imperatorem Venetiis confirmatae narratio, che però Franca Petrucci in DBI conferma esser stata stampata a Parigi nel 1632.

[15] Paulus Quintus Burghesius … A. Bzovii polonii …, Roma, Stefano Paulini, 1624, poi accolto in Platina.

[16] Squitinio della libertà veneta nel quale si adducono anche le ragioni dell’Impero Romano sopra la città e Signoria di Venezia, Mirandola, Giovanni Bennincasa, 1619. Sullo Squitinio e i suoi confutatori vedi Foscarini, pp. 91-93 note 249-253 e Eco O. G. Haitsma Mulier, The mith of Venice and Dutch republican Thought in the seventeenth Century, Van Gorcum, 1980, cap. III, pp. 77-119.

[17] Alcuni esemplari della collezione recano la data del 1628, ma non si tratta di una nuova edizione, né di una ristampa: nuovi sono soltanto i frontespizi. Sulle edizioni dei Concili (e in particolare sulla romana) vedi H. Quentin, Jean-Dominique Mansi et les grandes collections conciliares…, Parigi, 1900 e S. Kuttner, L’édition romaine des Conciles généraux et les actes du prenier Concile de Lyon, Miscellanea Historiæ Pontificiæ, n. 5, Roma, 1940.

[18] Sono le parole del consulto (qui già citato) dedicato alle persecuzioni di cui si diceva vittima, per aver militato dalla parte della Repubblica nella recente “guerra di scrittura”, Giambattista Birago Avogaro: ASVe, CI 48, c. 80, 10 giugno 1644 (Barzazi, n.823).


Claudio Costantini

Fazione Urbana

*

Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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