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Le disavventure di Troiano Maffei




La lettera dedicatoria della Giusta statera ha la data del 13 maggio 1646. Qualche mese prima era uscita la Mal consigliata fuga del Cardinale Antonio. Il 13 luglio Troiano Maffei, che abitava nei pressi della Minerva, fu aggredito e sfregiato, apparentemente senza ragione, da due bravi che lo attendevano sotto casa. Un paio di settimane più tardi venne fatto bersaglio, mentre si affacciava ad una finestra di casa, di un’archibugiata: la palla lo sfiorò andandosi a schiantare sulla parete alle sue spalle.[1] La voce comune attribuì subito il duplice attentato, si trattasse davvero di tentato omicidio oppure di semplici (se pur pesanti) intimidazioni, indirettamente ai Barberini e direttamente ai cardinali Este e Grimaldi che a Roma guidavano il partito francese che allora faceva tutt’uno con la fazione urbana.[2] Troiano, spaventatissimo, si dette un gran da fare per cercarsi un nemico meno impegnativo a cui attribuire la responsabilità del fattaccio [3] e lo trovò in un orefice perugino, Tomaso Cerrini, che denunciò al tribunale del Governatore e che, in seguito alla denuncia, fu arrestato.[4]
Tomaso Cerrini era fratello del noto pittore Gio Domenico, la moglie del quale, Margherita Torrioni, a detta di Troiano, sarebbe stata all’origine di tutto.[5] Margherita Torrioni, diceva Troiano, era stata «per il passato donna famosa protetta da miei amici». Proprietaria di una comoda casa a Campo Marzio, con il matrimonio si era «messa in posto honorato». Un’allusione a quel meno onorato passato sfuggita a Troiano mentre parlava con un conoscente e casualmente giunta alle orecchie di Tomaso, avrebbe scatenato la reazione omicida di quest’ultimo, che dopo aver minacciato di farlo bastonare, aveva mandato a Troiano due suoi conterranei, il cavalier Meniconi e Ascanio Baldeschi, a chiedere soddisfazione. Troiano, che forse presumeva di sé più di quanto meritasse, sostenne di aver risposto ai due che «la mia conditione dalla sua essendo molto lontana non dà luogo a giustificationi». Il Meniconi, interrogato dagli inquirenti, asserì invece che dal colloquio con Troiano lui e Baldeschi erano usciti «veramente sodisfattissimi». Comunque sia andato quel colloquio, Tomaso, a detta di Troiano, avrebbe deciso di vendicarsi, ingaggiando i sicari che dovevano ucciderlo. «Il Tomaso», spiegava Troiano, «si piccò che li suoi amici sapessero di sua cognata, ma», commentava, aggiungendo offesa a offesa e, insieme, indebolendo non poco la sua tesi accusatoria, «li fatti pubblici non si possono occultare e se il parentado li dispiaceva doveva ammazzare il fratello e non Troiano, che lo disse a caso».[6]
Nell’insieme l’accusa imbastita da Troiano contro Tomaso Cerrini sembra  poco verosimile e, per quanto ne so, non ha alcun riscontro.[7] Credo invece che le voci che indicavano Troiano come autore dei due scritti antibarberiniani avessero qualche fondamento e soprattutto che fossero vere quelle che indicavano nei Barberini i mandanti del tentato omicidio. Troiano, ansioso di scrollarsi di dosso una fama pericolosa, mostrava di non credere assolutamente che i Barberini potessero avercela con lui. «I Signori Barberini», scriveva, «hanno altro da pensare che a vendette di scritture» e se dovessero uccidere tutti quelli che scrivono contro di loro, «dovrebbero tener macello a Roma» e altrove. «Sono facende da contarle la sera a ragazzi per non farli dormire», ribadiva. D’altra parte,

«contro tutti si leggono scritture delle quali gli medesmi offesi quando le leggono se ne ridono. Starebbe fresco il Collegio di Capranica, il Cavalier Bernino et altri non solo dicitori, ma molto aperti scrittori che non la perdonano al cielo et all’incontro i Signori Barbarini pieni sino alla gola de i proprii travagli havevano da pensare a Troiano per una scrittura la più modesta di quante ne compariscono contro di loro? Ma Troiano non la compose, né i Signori Barbarini possono confessarlo per vero, né alla loro conditione toccava di assassinare un innocente».[8]

In verità che i Barberini fossero suscettibili e assai reattivi agli attacchi dei libellisti non è una novità e Troiano, come tutti a Roma, doveva saperlo.[9] Quanto alle indagini svolte dal Tribunale del Governatore, portano dritto dritto al palazzo delle Quattro Fontane e al giro di bravi e scagnozzi che, al soldo dei cardinali Este e Grimaldi, avevano fatto la loro prova migliore il 29 aprile del ’46 nello scontro con l’Almirante di Castiglia. I due bravi che avevano attentato alla vita di Troiano alla fine furono, pare, identificati, ma, vedi caso, di uno dei due si erano ormai perse le tracce, mentre l’altro, un soldato catalano di 22 anni, membro della guardia del Cardinal Grimaldi, era morto all'improvviso alla fine di luglio, qualche giorno dopo il fatto, proprio mentre, convinto di aver finalmente ottenuto un beneficio in patria, si accingeva a prendere a sua volta il largo. Troppi intrighi, troppi misteri (e almeno un morto) per un semplice orefice offeso nell’onore della cognata.[10]
Ma chi era Troiano Maffei? Di sé diceva solo di essere originario di Melfi (e quindi suddito della Principessa Polissena Maria Landi vedova di Gio Andrea Doria, Principe di Melfi), buon letterato, cavaliere noto a Corte e intimo di importanti personaggi. Qualcosa di più dice di lui Innocenzo Fuidoro:

«Era in Roma un tal Troiano Maffei della città di Melfi il quale oltre l'essere dotato dell'arti liberali delle scienze della filosofia, dottorato in medicina e nelle leggi canoniche e civili, ma soprattutto era d'ingegno assai erudito ed elevato, questi, degenerando dal suo proprio essere, nobile della sua patria e originaria la sua famiglia di Solofra, la quale produsse, per così dire, un seminario di virtuosi, s'ingerì con l'ambasciator francese come poco sodisfatto de’ spagnoli, perché forse pretese (come suole avvenire all’ambiziosi che troppo caldamente si affuscano nella consecuzione de’ loro fini, senza professione di dovuto merito) ottenere troppo larghe mercedi per serviggi novizi, poiché questo soggetto fu raccomandato dal Principe Ludovisio, signore di Piombino, al duca d’Arcos, viceré del Regno, quale, inviatolo in Roma, mostrò segni della dovuta fede con li ministri del re cattolico. Ma deviando da quella, favorito dal marchese Fontané e da altri di quel partito nemico, aguzzò la penna contro Spagna e movendole guerra con varii scritti politici per farli penetrare in mano di gente inquieta in regno. Mi fu riferito da persona che in Roma lo conobbe che anco dalla bocca d’Innocenzio X pontefice fusse lodata la sua composizione e modo di scrivere, come da altri che n’avevano gustato la lettura, ma disapprovata la sua fallacia che lo ridusse in perdizione col proprio genio incostante nella fede del suo sovrano e legitimo signore, le false promesse solite ad ingannare de’ francesi, abbandonato in casa del cardinale di Valenzé, al quale era stato raccomandato in Roma nella partenza che fece da quella Corte l’ambasciatore Fontané, morendo in vilissima stanza, senza un minimo rinfresco, abbandonato fra le sporchizie della propria infermità. Questo dunque ancor lui faceva la sua parte con li ministri di Francia e con regnicoli scappati dall’obedienza austriaca e facendo penetrare in Napoli lettere, scritti, manifesti ed altri composizioni contro Spagnoli e contro la giustizia della sua obligazione dovuta al suo legitimo re e signore; delle quali cose era l’Oñatte assai ben avvertito, e si servì di spedire nelle province più corrieri a ministri regii ed a titolati confidenti, che erano entrati in regno molte persone con questa sorte di scritture per fomentare nuovi tumulti; e dall’Atripalda il principe d’Avellino fece arrestare un certo prete con queste scritture e portare con molta secretezza nel Castello novo».[11]

Una storia sfortunata, quella di Troiano, in cui forse la stesura della Giusta statera, con le rappresaglie barberiniane e la scarsa efficacia della tutela, da lui pubblicamente invocata, delle autorità pontificie e dei maggiori esponenti del partito spagnolo in Roma (i Pamphili, i Ludovisi, i Cardinali Odescalchi, Carafa, Trivulzio), segnò il punto di svolta.



[1] La vicenda, piuttosto complicata, si può ricostruire sulla base delle risultanze di un’indagine giudiziaria che, per quanto ne so, non ebbe mai una conclusione, probabilmente perché, intervenuta nel frattempo la pace tra Pamphili e Barberini, per il Palazzo, in questo come in altri casi, non era più conveniente arrivare a un giudizio. La documentazione è in ASR, Trib. Crim. Governatore, Processi, 400 (1646), cc. 783-896. La denuncia presentata da Troiano il 26 luglio, è a cc. 827-834. Ci sono i verbali degli interrogatori di molte persone informate dei fatti, tra cui il barbiere che aveva medicato Troiano dopo la prima aggressione, quelli di Margherita Torrioni, di Tomaso Cerrini, di Marc’Antonio Meniconi, di Ascanio Baldeschi ecc. e diverse perizie (sull’archibugiata, ecc.). Importante l’interrogatorio di Francesco Pacconcelli (anche lui perugino, come il Meniconi, il Baldeschi e i fratelli Cerrini) amico dei fratelli Zaccaria di cui tornerò a parlare. Una seconda e assai più ampia scrittura (incipit: “Troiano Maffei ha pubblicato giudicialmente...”) che riprendeva i temi dell’esposto fu messa in circolazione da Troiano non molto tempo dopo. Si trova in BAV, Chig. I.III.87, cc. 388-403, senza titolo e senza altre indicazioni. È in questa seconda e più ampia scrittura che Troiano parla della Giusta statera; nell’esposto al Tribunale viene menzionata solo la Mal consigliata.

[2] BAV, Chig. I.III.87, c. 396v: «i cicalamenti cortegiani», scriveva Troiano, «sono però tutti fermati sopra il Sig. Card. d’Este non si sa con qual fondata ragione». A proposito delle violenze di cui era stato vittima il Maffei, Meniconi, uno dei testimoni, dichiarò di aver «sentito dire che era successo a questo Troiano per occasione di non so che scritture che lui havesse date fuori contro signori grandi che non li potrei dire precisamente da chi l’ho inteso dire e perché sia cosa publica a tutta Roma...». Analoghe le dichiarazioni di altri testimoni (ASR, Trib. Crim. Governatore, Processi, 400, cit.)

[3] Come lo stesso Troiano ammette, fu solo la gran paura di essere annoverato tra i nemici dei Barberini che lo indusse a denunciare alle autorità gli attentati subiti, un gesto ch’egli considerava, in condizioni normali, indegno di un cavaliere e che «alla sua nascita et alla sua conditione ben conosce non convenirsi…» (ASR, Trib. Crim. Governatore, Processi, 400, c. 827).

[4] Troiano aveva conosciuto Tomaso Cerrini quale mediatore nelle trattative per il matrimonio di una sua figlia decenne. Sembra però che avesse accettato con sufficienza, se non con aperto fastidio, la designazione, fatta dalla controparte, del Cerrini in quel ruolo, «non essendo la sua conditione», a detta di Troiano, «capace per entrare a maneggi nelli quali vi si ricerca autorità».

[5] Pascoli (1730 e 1732) dice che Gio Domenico per conservare la sua libertà non volle mai né moglie né allievi. F.F. Mancini nella voce dedicata a Gio Domenico in DBI gli attribuisce, invece, ma solo in tarda età, una giovane moglie. In realtà Gio Domenico aveva sposato, con buona dote, Margherita (che aveva già un figlio) nel febbraio del 1646 ed era andato ad abitare in casa di lei. Pare che quando Tomaso venne arrestato, Gio Domenico si fosse, per ogni evenienza, “allargato” (BAV, Chig. I.III.87, c. 395).

[6] ASR, Trib. Crim. Governatore, Processi, 400, c. 829.

[7] Dopo aver affermato di essere stato «due volte assassinato con ordine di Tomaso Cerrini e con saputa (non dico precetto) del Sig. Baldeschi e Miniconi» Troiano concludeva il suo esposto un po’ a sorpresa dichiarando che «non fa instanza contro nessuno ma solamente ha scritto tutto ch’è passato, acciò si sappia la verità del fatto, et il torto che ha ricevuto senza fallire, mentre si è trovato impossibilitato per tentare le altre strade alla sua riputatione più dovute» (ASR, Trib. Crim. Governatore, Processi, 400, c. 833r). L'accusa di Troiano a Tomaso Cerrini  era stata accolta con scetticismo negli ambienti romani: «Non sono mancati de i belli ingegni cortegiani li quali hanno voluto assottigliarsi in dire che Troiano per sua buona politica ha negato il suo male esser derivato dalli sopradetti Signori Cardinali per non obligarli a risentimenti maggiori e la sottigliezza non si rende in parte alcuna degna di chi vivendo in Roma sia divenuto forbito, già che se Troiano havesse per certo quanto essi vanamente dicono se ne sarebbe andato da Roma senza cercare nuovi nemici mettendo in mezzo Cerrini, Meniconi e Baldeschi» (BAV, Chig. I.III.87, c. 401).

[8] ASR, Trib. Crim. Governatore, Processi, 400 (1646), c. 832r-v. Espressioni del tutto simili nella scrittura in  BAV, Chig. I.III.87, c. 393r.

[9] La cattura e l’assassinio di Ferrante Pallavicino erano fatti ben noti. Dei propositi di far fare la stessa fine a Vittorino Siri (almeno fin quando i Barberini non si ritrovarono con lui sotto la protezione della Corona di Francia) ho parlato a suo luogo (vedi nell'appendice Guerre di scrittura le note dedicate al Siri).

[10] ASR, Trib. Crim. Governatore, 400, cc. 891 sgg. Nella deposizione di Francesco Pacconcelli si parla dei cinque fratelli Zaccaria (Giovanni Battista, “secretario italiano del Re di Francia”, Stefano, Francesco, Zaccaria e Giuseppe) che vivevano tutti insieme alle Quattro Fontane. Il Pacconcelli era amico degli Zaccaria «essendo stati a scola assieme»: dopo aver partecipato con loro alla giornata dell’Almirante era rimasto in casa loro per tre mesi durante i quali aveva accompagnato Giovanni Battista ad Orbetello per portare a Saint Nicolas carte venute di Francia. In casa Zaccaria il Pacconcelli aveva conosciuto diverse persone tra cui un mastro di casa del card. Grimaldi, un dottore catalano, un certo Raffati (?) dottore e canonico, un dottor Solier «et altri giovenotti catalani et italiani» tra cui i due bravi, entrambi di nome Francesco, sospettati di essere gli attentatori di Troiano. Ma lo stesso Pacconcelli era fortemente sospetto: aveva lasciato la casa degli Zaccaria più o meno un mese dopo la denuncia presentata da Troiano Maffei al tribunale del Governatore ed era stato scovato dagli inquirenti nella vigna di uno zio, dove tutto lascia credere che si fosse nascosto e dove, a suo dire, essendosi ammalato, era stato assistito dagli Zaccaria.

[11] Fuidoro, pp. 35-36.




Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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