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Ritorno in armi: 3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i Per farsi stimare da Sua Santità Se sul piano delle relazioni internazionali la questione dei Barberini si presentava per Innocenzo carica di pericoli, sul piano interno, e cioè sul terreno giudiziario, sembrava avviarsi ad esiti assai deludenti. Dalle inchieste stava emergendo infatti l’inconsistenza delle accuse mosse ai Barberini o, che era lo stesso, l’impossibilità di provarle. «Non venendosi a condanna, come saria di ragione, per la detta materia de conti», aveva scritto Contarini alla fine di febbraio, «si discorre che non vi sii fondamento per castigare li stessi Barberini, havendo havuto a dire meco delli medesimi giudici che se bene vedono l’intacco et è manifesto, tuttavia non possono trovare cosa bastante per convenirli [...].Un tale ritento a Bologna per il processo di quelle monache è morto nelli tormenti senza voler mai confessare cosa alcuna contro il cardinal Antonio, come si desiderava per aggiungerli nove colpe».[1] Anche da Rapaccioli, messo sotto accusa quale Legato presso l’esercito nella guerra di Castro, si sperava di estorcere ammissioni utilizzabili nel processo contro i Barberini. Ma Rapaccioli resisteva senza scomporsi alle pressioni degli inquirenti e confermava la sua lealtà ai Barberini. «Non mi ho a travagliare», scriveva al cardinale Francesco ai primi di febbraio, «se son certo che nei libri di la sù riusciran bene i miei conti quando per avventura ne i libri di qua le maniere che si tengono dovessero sortire altrimenti [...]. Molto bene intende che cosa vanamente da me si pretenda conseguire con un tal spaventacchio, ma vi s’inganna chi non apprende o non crede ch’io mi discorra di core come ne parlo e come ne scrivo, come s’inganna chi non crede che si trovino degl’animi che sappino anch’hoggi fare sì bella professione [...]. Persisteranno le mie persecutioni e Nostro Signore continovarà in negarmi la licenza di ritirarmi e vorrà che io viva qui tormentato nell’angustie nelle quali mi trovo e che sempre più mi si fanno maggiori, ma non giongeranno però mai a farmi fare quei mancamenti doppo i quali non potrei più vivere tre giorni».[2] Alle intimidazioni, naturalmente, si alternavano le lusinghe, anche perché, come faceva notare nel marzo a Francesco Barberini lo stesso Rapaccioli, accanirsi su di lui poteva essere comproducente: dopo tutto sarebbe stato «un sbrigare in qualche modo Vostra Eminenza e pigliarsela con chi non ha con che pagare gravatorie». E in effetti, aggiungeva, «tutto si fa meco in concia di buone parole, professando di haver ordini precisi di Nostro Signore di caminar meco con ogni urbanità, parola che ne fatti mi fa conoscere l’equivoco e ringratiar di core chi meco l’usa. Io fin qui non ho mai detto parola a Sua Santità de’ miei interessi, come forsi vorrebbe che io facesse raccomandandomi, per vendermi caro quel che la mia povertà per altro mi fa godere con ogni buon mercato, mentre non havendo io che perdere, altro non havrà che levarmi né che donarmi col lasciarmelo».[3] Ma senza la collaborazione di Rapaccioli l’inchiesta sulle spese di guerra, che all’inizio sembrava dovesse concludersi in poche settimane, non andava avanti. «Riguardo i successi della mia causa mi trovo la causa di Vostra Eminenza e de suoi signori fratelli in molto se non in tutto terminata, se pur Monsignor Commissario della Camera etc. lasciarà correre le risolutioni fatte nella Congregatione publicate dal cardinale Sforza e da chierici e sovvertite fin con loro meraviglia da chi tardi si è avveduto che io haveo superato la maggior parte o per dir meglio tutto quello che si può machinare ne’ conti dell’Eminenza Vostra e de gli altri di Sua Casa. Bella è che cercano partito e vorrebbero che io mi lasciassi condannare in quelle partite che sono essemplari per gli altri e nelle quali haveo per me e per tutti quei che sono nell’istessa nave ottenuto favorevoli risolutioni; vorrebbero che io mi contentassi delle gratie che il Papa mi farebbe et io non lo voglio perché nol posso permettere né con honore né con conscienza». Ad ogni buon conto Rapaccioli aveva preparato su tutta la vicenda una scrittura che fece
giungere a Francesco e che, diceva, «publicarò al mondo se non si mettono i ministri camerali su le cose del dovere».[4] [1] ASVe, DAS, Roma 123, c. 221r, 24 febbraio 1646. Come detto in precedenza, fu Carlo Possenti a morire sotto tortura senza confessare alcunché. [2] BAV, Barb. lat. 8746, cc. 2v-3r, 4 febbraio 1646. Cfr. Ameyden, Diario, BCR, ms. 1832, c. 203: citato a restituire trentottomila scudi, Rapaccioli «fu subito dal computista della Camera dicendo che non haveva trent’otto mila quattrini, che egli non haveva maneggiato cosa alcuna, anzi che restava creditore delle sue provigioni...» [3] BAV, Barb.lat., 8746, cc. 6v-7r, 10 marzo 1646. [4] BAV, Barb. lat. 8746, cc. 10v-11r, 20 maggio 1646. Sul modo di condurre la revisione dei conti scriveva: «chi maneggia simili affari non tanto è poco prattico delle maniere militari e dalle leggi e Dottori approvate ne’ conti di guerra, quanto d’ogni maniera di tener conti e d’ogni notitia che dovrebbero havere per distinguere i ministeri degl’officiali ch’hanno operato». Quando, dopo i primi successi francesi ad Orbetello, il Pontefice si era visto costretto a raccogliere «tumultuariamente» soldatesche, Rapaccioli si rallegrava che anche lui avesse «cominciato a provare quanto siano impratticabili quelle forme di maneggiare e di registrare la spesa le quali la sua congregatione [quella della revisione dei conti, presieduta dal cardinale Sforza] predicava e giudicava per le più proprie e per tanto trasandate nel precedente Pontificato, avertendo Vostra Eminenza che la confusione et il disordine d’hoggi è d’altro carato e d’altra lega che quello da essi criticato. Ma quel che più giova e consola si è il sapere ch’il Papa ogni giorno più s’avvede ch’i conti fatti su le dita de denari che bisognano non riescono e che fuori delle di lui aspettationi e de suoi calcoli i denari si dileguano, toccando con mano quel che non volea credere e forsi havrebbe volsuto vedere prima di cominciare con altri a domandare i conti» (BAV, Barb.lat., 8746, cc. 6 e 8, 10 marzo e 4 maggio 1646). Analoghe le osservazioni di Bidaud: «qui la soldatesca fastidisce», scriveva il 20 agosto del ‘46 a Francesco Barberini, e se la mobilitazione fosse durata ancora un po’ il Papa sarebbe stato costretto a ricorrere come il suo predecessore al tesoro di Castel Sant’Angelo «dal che io dico che chi vuole fare l’eccellentissima Casa Barberina debitrice della Camera doverà conoscere la giustitia et innocenza della causa loro et la falsità et malvaggia dell’accusatione» (BAV, Barb. lat., 8013, c. 24r). Tra le prime richieste avanzate da Arnauld nel maggio c’era appunto quella che i Barberini potessero presentare i loro conti secondo le procedure usate con i comandanti di eserciti in guerra e non secondo quelle assai più rigide della Camera in tempi normali. [5] ASVe, DAS, Roma 123, c. 209, 17 febbraio 1646 e Roma 124, c. 16r, 16 giugno 1646. [6] «I servitori di Vostra Eminenza», scriveva Girolamo Grimaldi a Francesco Barberini il 3 febbraio, «stanno di buona voglia et i Signori cardinali amici si dimostrano tutti di buona intentione» (BAV, Barb. lat., 8723, c. 50). La situazione però sarebbe presto peggiorata. «Li ministri anco del cardinale Francesco come Cancelliero sono tutti deposti non venendoli più corrisposti suoi assignamenti» (ASVe, DAS, Roma 123, c. 209, Alvise Contarini, 17 febbraio 1646). Il canonico Marinucci, Maestro di Casa del cardinale Francesco aveva dovuto cercare rifugio in Trinità de Monti (BAV, Barb. lat., 8806, 24 febbraio 1646). «In proposito di metter al coperto li nostri servitori che sono rimasti in Roma», scriveva Antonio a Francesco da Parigi il 4 febbraio, «qui si considera che se l’auttorità regia fosse colà stimata come si dovrebbe, havria giovato a noi più di quello è fin’hora seguito, però conviene che anch’essi si raccomandino a Dio e supportino il martirio fin che questa Maestà giunga con le sue forze a ristorar tutti» (BAV, Barb.lat., 8801, c. 8). [7] ASVe, DAS, Roma 123, c. 189r, 26 gennaio 1646. [8] Lacour-Gayet, pp. 147 sgg. [9] Anche il nunzio Bagni aveva informato la Corte di Roma che in Francia si stava allestendo una grossa armata di mare, forse destinata a colpire proprio lo Stato Pontificio (ASV, Segr. Stato, Francia 94, Cifre del Nunzio Bagni, cc. 7-8, 5 gennaio 1646) ma, come ho detto più volte, Innocenzo e i suoi non credevano a Bagni. |
Claudio Costantini Fazione Urbana * Indice Premessa Indice dei nomi Criteri di trascrizione Abbreviazioni Opere citate Incipit Fine di pontificato 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m Caduta e fuga 2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h Ritorno in armi 3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i APPENDICI 1 Guerre di scrittura indici Opposte propagande a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7 Micanzio b1 b2 b3 b4 b5 Vittorino Siri c1 c2 c3 c4 2 Scritture di conclave indici Il maggior negotio... d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7 Scrittori di stadere e1 e2 e3 A colpi di conclavi f1 f2 f3 f4 f5 f6 3 La giusta statera indici Un'impudente satira g1 g2 g3 g4 g5 L'edizione di Amsterdam Biografie mancanti nella stampa 4 Cantiere Urbano indici Lucrezia Barberini h1 h2 Alberto Morone i1 i2a i2b i2c i2d i2e i2f i2g i2h i3 i4 Malatesta Albani l1 l2 * * quaderni.net |