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Fine di pontificato: 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m La mezza guerra lampo del Duca di Parma L’11 agosto 1642 il Papa annunciò finalmente in concistoro
la guerra e Taddeo fissò l’inizio dell’azione su Parma per il 13 dello stesso mese.[1]
Ma nonostante le ingenti spese già affrontate, era evidente l’impossibilità di
una seria iniziativa militare.[2]
«Pervenuto il Mattei maestro di campo generale all’esercito e riconosciutovi le soldatesche nol trovò
numeroso di più d’otto milla accresciuto dalla fama e forse dal soldo oltre a
ventimilla». Pare che Urbano si dicesse «tradito dal Prencipe Prefetto intorno al numero delle genti assoldate non in altro verificato
che nello sborzo dell’immensità del denaro uscito dalla Camera Apostolica» e si
lasciasse andare ad «aperte minaccie di voler costringerlo alla restituzione anche
con la vendita delli Stati».[3] «Le differenze tra il Papa e il Duca di Parma sono finalmente scoppiate in aperta rottura», scriveva il 19 settembre il Duca di Modena al suo agente a Vienna, «e S.A. che passò di qui venerdì prossimo passato con tremila buonissimi cavalli, tira alla volta di Roma allegramente e già s’intende che di molte miglia abbia passata Faenza».[7] L’avanzata del Duca nel territorio pontificio fu così facile che ancora una volta si affacciò il sospetto di un’intesa tra Farnese e Barberini per mascherare un colpo di mano diretto, invece che contro lo Stato di Milano, come s’era creduto in un primo tempo, contro il Regno di Napoli o magari contro qualche altro e più remoto nemico.[8] Una strana disfatta quella delle truppe pontificie, ritiratesi precipitosamente ai quartieri non appena il passo per Modena si era chiuso e la guerra era parsa rinviata [9] e una "guerra per burla", senza che mai si venisse alle mani, quella di Odoardo, come constatava un sonetto composto in quei giorni e raccolto (forse) da Vittorio Siri.[10] Comunque fosse, Roma, o almeno il Palazzo, era in preda al panico. «Tutta la Corte intenta dove fosse arrivato il Duca, se da nostri non fosse stato attaccato, che strada teneva. Ogn’uno a studiare il viaggio di Borbone, a riparar le mura, li passi, romper strade, introdur vettovaglie in Castello. Il Papa similmente, ancor che di settembre e con la stagione calda, si partì per stanziare a S.Pietro e queste cose atterrivano in modo la città di Roma che molti mandarono fuori le cose più pretiose, altri le donne et ogn’uno sospirava che si rendesse Castro».[11] Si chiamò il popolo alle armi, nonostante il timore che, al momento del bisogno, la plebe, invece di difender la città, finisse, per istinto proprio o per istigazione degli agenti del Farnese presenti in Roma, col metterla a sacco.[12] Si costituì una congregazione di guerra e il 22 settembre si tenne concistoro per cavar denari da Castel Sant’Angelo.[13] Ma i Barberini, a sorpresa, mostrarono di accettare l’ipotesi della restituzione di Castro con l’espediente, che avrebbe dovuto permettere alla Santa Sede di salvare la faccia, di un deposito temporaneo del Ducato in mani neutre.[14] Così, mentre Odoardo arrivava con le sue poche forze ad Acquapendente e vi si fermava, il Cardinale Spada riceveva l’incarico di negoziare con Lionne le condizioni del deposito.[15] [1] Nicoletti, IX, c. 251r. BAV, Barb.lat. 2933, Acta Concistorialia, cc. DXXv e sgg. Della Torre, Historie, II, pp. 676-677. [2] Siri, Mercurio, II, 1647, p. 1307. Nicoletti, IX, per es. cc. 285-286. [3] Della Torre, Historie, II, pp. 677-678. ASR, SV 572, Virgilio a Bernardino Spada, 13 agosto 1642: «Gionse un corriero del Sig. Principe Prefetto una di queste sere col quale si hebbe aviso che il Sig. Principe sarebbe entrato nel Parmigiano li X o li XI di questo con tanta gente. Il numero era tanto inferiore a quello che si credeva che restorno questi sbigottiti. Il Papa haveva già preso sonno, svegliare nol volsero, indugiare alla mattina per rispedirlo non arrivava in tempo, onde doppo molto combattere fra questi di consulta segreta si risolsero subito rispedire e poi in consideratione che non si movesse sino che non se li fosse mandato nuova gente, che pigliasse per pretesto del non muovere il lasciarsi vincere dalle preghiere de Prencipi che offeriscono di trattare col Duca di Parma aggiustamento». Sulla discordanza tra il numero dei soldati effettivamente in servizio e quello calcolato in base alle paghe vedi più avanti. [4] ASR, SV 563, p.12, Bernardino a Virgilio Spada, Castelviscardo 2 settembre 1642. Sul mancato passaggio delle truppe pontificie vedi Testi, 1566, 27 agosto 1642 («…e l’Altieri di sua bocca ha detto che non passeranno più fino a primavera». Sulla Lega: Siri, Mercurio, II, 1647, p. 1272; Fontenay, II, pp. 301-302; Nani, VIII, p. 698 (secondo il quale la Lega era nelle intenzioni del Granduca e di Venezia effettivamente diretta a mantenere la pace d’Italia «ma come dal canto de’ Principi e da quello de’ Barberini si credeva, col far apparire risolutioni e coll’avanzar passi di conseguirla, così ognuno caminando per la via degl’impegni s’inciampò nella guerra»). Il testo del trattato anche in Nicoletti, IX, c. 266. Sull’ostilità spagnuola verso la Lega vedi Simeoni, pp. 51-52, che si fonda sulle relazioni dell’agente di Francesco I in Spagna. In Italia il comportamento dei ministri spagnoli era sensibilmente diverso. Morone, che lamentava col nunzio in Spagna gli aiuti che ai Collegati venivano in continuazione e «alla scoperta» da Milano e da Napoli (Morone, cc. 4v, 7r, 8v, 19v ecc.), accusava in particolare il Viceré di Napoli di essere «il più acceso nimico che habbia il Papa e la Chiesa» (c. 19r) «in riguardo della moglie, cugina del Duca di Parma» (c. 21r) e ricordava il ruolo avuto, nell’agosto del 1642, dall’inviato del Viceré, Francesco Boccapianola, nel convincere il Granduca, piuttosto reticente, ad aderire alla Lega (c. 5v). Sul Boccapianola e le sue missioni al tempo della Lega vedi G.De Caro in DBI. L’ostilità del Viceré verso i Barberini è ricordata in diverse occasioni anche da Nani, VIII, pp. 680, 709, 738. [5] Della Torre, Historie, II, pp. 678-679. Sugli inutili tentativi francesi di volgere contro lo Stato di Milano le forze della Lega: Valfrey, pp. 52 sgg. [6] Siri, Mercurio, II, 1647, p. 806. Della Torre Historie, II, pp. 680-681. Muratori, Antichità, pp. 546-547. Da quando, sul finire di luglio, il governo di Venezia si era orientato a intervenire in suo favore, il Duca di Parma aveva ripetutamente proclamato la sua eterna devozione alla Repubblica, ma si era rifiutato di prendere impegni di qualsiasi genere. «Quanto all’unione con gli altri principi d’Italia», aveva scritto al suo rappresentante a Venezia, conte Scotti, «io non mi slontanerò mai dalli sentimenti della Republica, alla quale havendomi sempre rimesso il Signor Gran Duca di Toscana con dirmi ch’egli faria se la Republica volesse fare, parmi che simile trattazione dovesse stringersi fra la Republica Serenissima e detto Signor Gran Duca, già che io mi offero d’esser con la Republica e di voler correre sempre la sua fortuna mentre mi aiuti a rihavere il mio» (ASP, CFE, Venezia 517, 4 agosto 1642). Il conte Ferdinando Scotti fece in modo di ritardare sino al 9 settembre l’annuncio ufficiale al governo veneziano della prossima mossa del Duca contro lo Stato Ecclesiastico, al fine di eludere possibili veti dell’ultimo momento: «intorno al usire in campagna veramente ho oservato non solo in Sua Serenità, ma in tutti quei Signori Eccellentissimi un grandissimo discontento, anzi che Sua Serenità mi ha detto: E come vole il Signor Duca far questa mossa mentre aponto che il Signor di Leone parte per Roma con un ufficio così pieno [...] in nome del Re? Perché non aspetar almeno qualche risposta? Vole il Signor Duca che il Papa getta le armi a terra e che si agiusti così alle prime instanze? Bisogna pur anco conservarli la dignità». E aggiungeva Scotti: «Ho visto una gran renitenza in tutti quei Signori Eccellentissimi...» (ASP, CFE, Venezia 517, Il conte Scotti al Duca di Parma, 9 settembre 1642). Le parole del Doge sono riprese quasi alla lettera da Siri, Mercurio, II, 1647, pp. 1286-1287: una conferma, se ce ne fosse bisogno, di quanto affermava a p. 227 dello stesso tomo del Mercurio, esser cioè i discorsi inseriti nel suo racconto non ricostruzioni di fantasia, secondo una deprecabile moda, ma «estratti da me da gli originali registri nella loro sostanza e concetti e nelle precise parole ancora, quando la gravità de’ negotii lo richiede». Giandemaria, pp. 45-59, che di quella moda era invece un seguace, mette in scena con dovizia di parole il conflitto di opinioni tra i consiglieri del Duca circa l’opportunità della mossa d’armi. L'annuncio dell'imminente mossa di Odoardo suscitò sconcerto anche a Firenze: «è comparso nuovo corriero con le lettere di hieri che hanno portato nuova così inaspettata come è quella della vicina uscita in campagna del Sig. Duca di Parma», scriveva il 10 settembre G.B. Gondi al marchese Guicciardini, «che non pare credibile fino a che non si vegga, tanto sono pur vere le ragioni per dissuaderla che V. S. Ill.ma ha giudiziosamente discorse e puntualmente rappresentate» (ASF, MdP 3708). Nella lettera si accennava anche alla possibilità che le forze della Lega, qualora fossero riuscite a concentrarsi, sbarrassero con le armi la strada a Odoardo. Ma naturalmente le forze della lega non erano in grado di muoversi con la rapidità e la decisione necessarie e Odoardo poté agire indisturbato. [7] Testi, 1578, 19 settembre 1642. I tremila cavalli erano al comando del maresciallo d’Estrées. Entrando nello Stato Ecclesiastico Odoardo pubblicò un manifesto ingiurioso nei confronti dei Barberini. Il Cardinale Durazzo, creatura di Francesco Barberini, o non vide o fece finta di non vedere l’ingiuria limitandosi a rispondere «con aggradimento» a quella parte del manifesto che confermava la devozione di Odoardo verso la Santa Sede (Della Torre Historie, II, p. 682). Molto peggio si comportò ad Imola il card. Franciotti, che «spaventato, senza rompere il ponte, chiudere le porte, fare un poco di replica, fece aprir le porte, lo ricevé, lo abboccò, rinfrescò tutta la cavalleria et ad istanza del Marescial gli fece un passaporto per tutta la Romagna» (Morone, c. 7r). Sulle reazioni in Bologna alla mossa di Odoardo vedi “Venerdì notte…” e “Pretendeva il Pontefice...”, che sembra soprattutto preoccupato di allontanare dalla cittadinanza l’accusa di inerzia o, peggio, di scarsa fedeltà. Confortato dalla non resistenza degli ecclesiastici Odoardo proseguì e ottenne senza troppe difficoltà il passo a Faenza (dove era governatore mons. Girolamo Fieschi che, come racconta Siri, Mercurio, II, 1647, p. 1301, nonostante la chiusura delle porte della città, «sceso dalle mura col beneficio d’una fune, andò a trovare il Duca per testimoniargli la prontessa sua in servirlo») e a Forlì. Il comportamento di Durazzo e degli altri legati irritò fortemente Urbano ed essi pagarono con l’allontanamento dagli incarichi lo scarso coraggio di cui avevano dato prova in questa occasione (cfr. Ameyden, Diario, BCR, ms. 1831, c. 233: se non furono destituiti immediatamente fu solo per l’intervento di Francesco, che volle ritardare e sdrammatizzare il provvedimento). [8] «È stato detto che di concerto con Sua Santità il Duca sia passato», scriveva per esempio il nunzio Vitelli a Francesco Barberini il 20 settembre (ASV, Segr. Stato, Venezia 66, c. 190v). Secondo Della Torre Historie, II, p. 656 in Inghilterra si pensava addirittura che quella sceneggiata guerresca potesse coprire la preparazione di una grossa spedizione in soccorso dei cattolici d’Irlanda. [9] Secondo Morone, c. 6r, che il Duca di Parma si accingesse a entrare nello Stato Pontificio era cosa risaputa, il che rende ancora più inspiegabile l’inerzia dei comandi: il Duca, raccontava il primo di novembre a Panciroli, «ordinò la marcia per li 12 di settembre sì publicamente che fino a Roma lo sapessimo et io dal Papa istesso una mattina l’udii, ma però qui a Roma non era più tempo a poter rimediare. Nel campo li nostri capi dell’essercito a Bologna non vollero mai credere né vollero trasferirsi o far ricognitione per informarsi, come dovevano, né richiamare la gente da quartieri. Anzi il Forte Urbano era così debole che se lo cingevano in due o tre giorni si perdeva, non vi essendo da mangiare se non per 4 giorni precisi, né vi erano più di 400 soldati, non bastanti a difendere le fortificationi di fuori. Avverta V.S.Ill.ma che quanto scrivo è verissimo...». «La gente del papa», scrisse Lorenzo Guicciardini il 13 settembre ai negoziatori toscani della lega, Zati e Pandolfini, «né per forza né per amore si è mai voluta mettere insieme et ha uno spavento così grande che ha dell’impossibile. Così vanno le cose del mondo» (ASF, MdP 3708). Sul «passaggio del Duca di Parma per lo Stato del Papa armato con esercito» furono raccolte testimonianze per aprire formalmente contro Odoardo il processo, che poi si concluse con la condanna, ma c’era chi supponeva che oggetto dell’inchiesta potesse essere lo stesso don Taddeo «per non essersi opposto come doveva col suo esercito al passaggio del Duca» e Urbano intendesse condannare il nipote e poi subito graziarlo, in modo da estinguere l’azione penale e impedire che potesse essere ripresa dal suo successore (ASM, CA, Bologna 9, fasc. Luigi Mattei 1642-1643: l’autore della nota è un informatore del Duca di Modena nel seguito del Mattei). Il processo contro Odoardo è in ASV, Misc. Arm. X, 199-200.In BMV, ms. It. VII. 877 (8651) cc. 232-234, 236-237, 239-240, 243 c’è una Relatione del viaggio dell’armata del Ser.mo Duca di Parma dalli confini di Modona fino a Forlì li 17 settembre 1642, …da Forlì ad Arezzo, …da Arezzo a Castiglione del Lago, …da Castiglione del Lago alla Città della Pieve (incipit: “Partì S.A. alli 3 [sic, ma 13] che fu sabbato…”). La prima parte di questa relazione si legge anche in Birago, Ponderatione, pp. 74-81. Vedi anche l’avviso in BAV, Ott.lat. 2435, cc. 121-122 (incipit: “Marcia l’esercito del sig. Duca di Parma…”). La reazione di Urbano alla mossa di Odoardo pare sia stata furiosa: a detta del Gigli pp 212-213, se la prese soprattutto col Cardinal Barberini e con mons. Poli, che pensava gli avessero mentito sulla situazione dell’esercito pontificio «et commandò sotto pena di scommunica che dovessero tutti dirli la verità di tutte le cose». [10] Si burla o pur da vero si fa guerra? in BUB, ms. 1058 (1692) c. 357; il codice è il Tomo settimo di varie miscellanee [...] sino all’anno 1642 raccolte e scritte da me Don C.M.C.M.M.O. et havute da luoghi buoni e veraci personaggi, di cui esiste nella stessa biblioteca un altro tomo, segnato 1069 (1707). Frati 1906 suggerisce che i due codici abbiamo qualche relazione con le scritture politiche che Siri, come segnala l’Affò, inviò al Granduca, divise in sette volumi, nel 1684. Frati indica anche il Siri come possibile autore di alcune rime contenute nei due volumi basandosi però su una nota che, semmai, lo rivela autore della raccolta; la grafia, in ogni caso, non è del Siri. [11] Morone, c. 7v. Cfr. Simeoni, p. 38 in nota, per i dispacci dell’agente estense a Roma e Valfrey, p. 61, per quelli di Lionne; Ameyden, Diario, BCR, ms. 1831, cc. 230-231; Gigli, pp. 214-215; Rinalducci, p. 237; V.Spada, XXI, 1-12. [12] Della Torre Historie, II, pp. 684-686. Ad ogni buon conto non si distribuirono armi. Si fece invece un’armeria al Quirinale e le milizie, scriveva Alberto Morone, quando «devono essercitarsi vengono qui a prender l’armi e poscia essercitati che si sono, le riportano, non volendo il Papa che il popolo stia con le armi in casa» (Morone, c. 15v). [13] Della congregazione facevano parte i cardinali Sacchetti, Spada, Pamphili, Pallotta, Gabrielli, Macchiavelli, Francesco e Antonio Barberini e i monsignori Ceva, Maraldi, Bichi, Paolucci, Panciroli e Contelori che ne era segretario (Nicoletti, IX, c. 288 sgg.). Al Concistoro del 22 settembre parteciparono 22 dei 24 cardinali presenti in Roma: BAV, Barb.lat. 2933, Acta Concistorialia, cc. DXXIIv sgg. [14] Ma, scriveva Fulvio Testi, «se in questa forma i Barberini vengono all’aggiustamento è la maggior viltà che mai si sia sentita; né il mio cervello sa accomodarsi a credere che il Papa, la cui natura è così alta e presumente di sé medesima, debbia venire a un atto di tanta abbiettezza per non dir di vituperio» (Testi, 1588). [15] Sembra che ad attirare il Duca ad Acquapendente, già occupata dalle truppe pontificie, sia stato il Buratti, per ritardare o interrompere, come di fatto avvenne, la sua marcia su Roma: Morone, c. 9r. Fermandosi l'esercito di Odoardo, i cui successi erano in larga misura dovuti alla sorpresa di cui era stato fattore essenziale proprio la sua mobilità, doveva alla lunga liquefarsi per effetto delle continue diserzioni e della guerriglia contadina. «Si trattiene ancora il nemico tra il Ponte Centeno e Proceno con tutto il grosso», scriveva Malatesta Albani a Francesco Barberini il 21 ottobre. «Da villani», aggiungeva, «ne viene ucciso ogni giorno qualcheduno, essendo essi allettati dalla preda e spinti dalla vendetta per li danni ricevuti. L'altro hieri un villano ne atterrò uno il quale haveva 100 doble et un belissimo cavallo. Questi paesani stanno nelle selve alla posta non altrimenti che se attendessero gli animali» (BAV, Barb.lat. 7369, c. 68r). |
Claudio Costantini Fazione Urbana * Indice Premessa Indice dei nomi Criteri di trascrizione Abbreviazioni Opere citate Incipit Fine di pontificato 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m Caduta e fuga 2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h Ritorno in armi 3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i APPENDICI 1 Guerre di scrittura indici Opposte propagande a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7 Micanzio b1 b2 b3 b4 b5 Vittorino Siri c1 c2 c3 c4 2 Scritture di conclave indici Il maggior negotio... d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7 Scrittori di stadere e1 e2 e3 A colpi di conclavi f1 f2 f3 f4 f5 f6 3 La giusta statera indici Un'impudente satira g1 g2 g3 g4 g5 L'edizione di Amsterdam Biografie mancanti nella stampa 4 Cantiere Urbano indici Lucrezia Barberini h1 h2 Alberto Morone i1 i2a i2b i2c i2d i2e i2f i2g i2h i3 i4 Malatesta Albani l1 l2 * * quaderni.net |