Fine di pontificato: 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Rumori di guerra

La pubblicistica di parte farnesiana ha attribuito ai nipoti di Urbano tutta la responsabilità della guerra. Ma a scorrere la corrispondenza dei Barberini, e pur facendo la dovuta tara delle molte doppiezze di cui possono essere infarcite anche le carte più riservate, si ha l’impressione che Francesco, Antonio e Taddeo Barberini fossero, per ragioni diverse (la cautela del primo, i legami del secondo con la Francia, l’inettitudine non del tutto inconsapevole del terzo), assai poco propensi, soprattutto in chiusura di pontificato, ad arrischiate avventure. Raffaele Della Torre era uomo di parte barberina, ma proprio per questo era bene al corrente di quanto si operava nella Casa e nella fazione e secondo lui era stato Papa Urbano, una volta tanto non per nepotismo, ma per difendere l’autorità e il decoro della Santa Sede, che considerava un bene primario per l’Italia, a insistere per una linea di intransigenza nei confronti del Duca di Parma.

«Negar non si deve testimonianza al vero in questo luogo», scriveva, «esser nata da malevolenza o da lusinghe la voce sparsa in questi tempi e celebrata da più scrittori, li danni tutti del Duca di Parma essere proceduti da persecutioni mossele contro dal Cardinale Barberino. Imperciocché, conceduto tutto il verosimile intorno a fomenti dati dal Cardinale alle novità de montisti, de Siri e de i Camerali, con l’amore del diritto haver havuto in Barberino la sua parte ancora l’odio di sentirsi malmenare con disprezzo e minaccie dal Duca, certa cosa è che al dar di piglio all’armi et al maneggiarle con tanto rigore per vendicare l’offesa Maestà Pontificia non hebbe la generosità d’Urbano bisogno di sprone, ma vi corse con ardore tanto più acceso quanto dalla sua benevolenza dimostrata al Duca Odoardo li pareva d’haverlo obligato a maggior ossequio».[1]

Il 5 gennaio 1642 Francesco trasmetteva a Taddeo il breve con cui il Pontifice gli affidava formalmente il compito di risolvere in un modo o nell’altro. per mezzo di trattative, se possibile, ma anche, se necessario, con la guerra, la questione di Castro. Poiché il breve escludeva esplicitamente da qualsiasi ipotesi di accordo l’eventualità di restituire «alcuna cosa delle giurisditioni del ducato di Castro», la scelta di Urbano era inequivocabile e Francesco, prendendone atto, non se ne mostrava per nulla entusiasta.[2] Semmai, pur nell’obbedienza alla volontà del Pontefice e come già era avvenuto per l’occupazione di Castro, tornava a porsi la questione degli obbiettivi e dei limiti della guerra imminente.

«Il negotio del Signor Duca di Parma», scriveva Francesco a Taddeo il 22 gennaio, «è necessario si conduca per uno dei due mezi. O con incorporare il Stato di Castro et quanto si è preso et fortificarlo con ridurre la soldatesca a segno che non ci consumiamo noi ma bastino per la difesa et per il contrario stando il Duca armato si consumi et per tedio venga a disarmare et accomodarsi. L’altro modo è di portarsi avanti et attaccare lo Stato di Parma e Piacenza [...]. Questo secondo ha quelle dificoltà che ricercano le imprese grandi e richiede i mezi proportionati per eseguirlo, che non si puol negare i fastidii l’accompagnano come non meno le necessarie spese per gli aparechi».[3]

Col passare del tempo le perplessità di Francesco circa la possibilità di una soluzione militare aumentarono. Il 5 febbraio un consulto con Giulio Buratti, generale dell’artiglieria, alla presenza del Papa non chiarì affatto le prospettive di azione. Buratti suggeriva in sostanza per risparmiar denari di licenziare la truppa (ma di nascosto e alla spicciolata in modo da tenere in allarme il Farnese) e insieme di conservare in servizio gli ufficiali per potere in caso di necessità riarmare rapidamente.[4] Il 12 febbraio venne decisa la costituzione di una commissione composta da Antonio e Francesco Barberini, dal Tesoriere e dal solito Buratti «per veder particolarmente la spesa che si fosse bisognato a condurre la campagna et fare la guerra offensiva». La commissione aveva la facoltà di optare senz’altro per la difensiva qualora i costi dell’impresa fossero risultati insostenibili o i rischi politici eccessivi.[5] Alla fine si adottò, principalmente su suggerimento di Buratti, una linea di “buona difesa”, sulla quale Urbano concordava pienamente anche perché, lasciando a Odoardo la prima mossa, prevedeva comunque l’invasione degli Stati farnesiani e cioè, alla prima uscita del Duca, un’immediata controffensiva contro Parma per la via di Modena. In questo modo, e comunque fossero andate le cose, il Duca avrebbe pagato un prezzo molto alto per la sua iniziativa e sarebbe forse riuscito all’esercito pontificio di tenere la guerra lontana dai propri confini.[6]




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[1] Della Torre, Historie, II, p. 491. Nello stesso senso vanno le testimonianze dell’Ameyden, Diario (BCR, ms. 1831, cc. 109, 142 (circa la reazione del Papa alle dichiarazioni di Ottaviano Raggi a favore della pace) e 235 (a proposito dei negoziati di Castel Giorgio: «Si leggeva [...] in faccia del Cardinal Francesco speranza buona et nella del Papa travaglio di mente più per l’aggiustamento da farsi che per la guerra intrapresa») e di B. Spada (BAV, Vat.lat. 12187, c. 118: in occasione di un pronunciamento della maggioranza a favore della pace in una Congregazione di Stato pare che Urbano, levatosi in piedi «tutto turbato», avesse detto: «Più presto che render Castro ci lasseremo tagliare a pezzi su questa sedia!»). Dice Ameyden, Diario (BCR, ms. 1831, c. 124r, 28 dicembre 1641; l’annotazione è ripetuta a c. 130r, 4 gennaio 1642) che «la Signora Donna Anna Barberina fu dal Papa a supplicarlo che volesse accomodare la differenza di Parma, con poco frutto rispondendo Sua Santità di volere in tutti li modi che il Duca si umilii e si raccomandi, che in tal caso gli farà ogni habilità, altrimente si tirarà alla peggio». Naturalmente anche il Pastor (XIII, 880) ha ripetuto la favola di Urbano “trascinato” dai nipoti in guerra, confutata oltre che (come è ovvio, visto che lavorava per Francesco Barberini) dal Nicoletti, dal più recente Moroni (X, p. 227). Ma il Pastor, incline a scambiare qualsiasi papa per Nostro Signore, era restio a riconoscere le dirette responsabilità dei pontefici in vicende, come la fin troppo deplorata guerra di Castro, che gli apparivano di dubbio valore morale o di scarso profitto per la Chiesa. Eppure, in questo caso, era proprio della dignità della Santa Sede e degli interessi dell’Italia che si trattava. Interessante, a questo proposito, la testimonianza di Lionne, in una lettera del febbraio del 1642 al Duca di Parma: «Castro è della Sede Apostolica», gli aveva detto il Papa, «non bisogna parlarne in maniera nessuna. Se Voi vorrete trattar per Parma e Piacenza per levar tutte le gelosie ai Principi si potrà far qualcosa in gratia del Re di Francia; di Castro poi si farà giustitia». La prospettiva che i Principi si schierassero con Odoardo non lo spaventava affatto: «havranno da renderne conto a Dio», aveva detto. Quanto al Cardinale Barberini, aveva orgogliosamente dichiarato: «La mia Casa non può esser mai memorabile se non per una gran caduta. Ci basta che serviamo a Dio». E Lionne commentava: «V.A. nous fera grace [...] de n’imputer rien aux entremetteurs au cas qu’ils ne reussissent pas à persuader des gens qui prennent si volontiers des resolutions contre leur propre advantage et le bien de leur maison» (ASP, CFE, Roma 422, 24 febbraio 1642). Che nella questione di Castro fossero in gioco non gli interessi dei Barberini, ma quelli della Chiesa e d’Italia Odoardo lo sapeva molto bene. Ma Odoardo sapeva anche che la cosa avrebbe preoccupato i Principi d’Italia più di quanto non potessero le sue personali disgrazie (il che suona conferma di quanto andava sostenendo la pamphlettistica filopontificia: vedi per es. [di Fioravante Martinelli?] “Eccomi obediente…”) e perciò aveva raccomandato al suo rappresentante a Venezia, Ferdinando Scotti, impegnato a sollecitare aiuti di qualsiasi natura dalla Repubblica, di convincere il Doge «che il Papa voleva incorporare quel Stato alla Chiesa e non a nepoti, come era concetto d’alcuni» (ASP, CFE, Venezia 517, Ferdinando Scotti al Duca di Parma, 15 ottobre 1641). Quel “concetto d’alcuni”, fu tuttavia largamente utilizzato dalla propaganda dei Principi e, come ho già avuto modo di rilevare, è stato generalmente accolto (come altri temi di quella propaganda) dagli storici.

[2] BAV, Barb.lat. 8813, c. 45, Francesco a Taddeo Barberini, 5 gennaio 1642.

[3] BAV, Barb.lat. 8821, Cifre di Francesco a Taddeo Barberini, c. 34. Cfr. Fontenay, II, pp. 300-301.

[4] BAV, Barb.lat. 8821, Cifre di Francesco a Taddeo Barberini, c. 58. Giulio Buratti è l’architetto a cui si devono, tra gli altri, i lavori voluti da Urbano nel porto di Civitavecchia, in Castel S. Angelo e a Castelfranco (G. Baglione, pp. 178 e 182). Una sua relazione sulle fortezze dello Stato Ecclesiastico (con belle piante a colori) in BAV, Barb.lat. 6333. Sue lettere a Carlo e poi a Taddeo Barberini dal 1624 al 1644 in BAV, Barb.lat. 9289-9295. Lorenzo Magalotti lo cita più volte nelle sue lettere da Ferrara tra il 1628 e il 1631 (BAV, Barb. lat. 8729-8732). Sul Buratti, che non compare in DBI, vedi Chiovelli (e la nota dello stesso Chiovelli e di E. Petrucci in “Boll. Dell’Istituto Storico Artistico Orvietano", XLII-XLIII, 1986-1987, pp. 261-262) e Guglielmotti, VII, 188-189. Promis, pp. 350-355, che cita Lodovico Siena, Storia di Sinigaglia (Sinigaglia, Stefano Calvani, 1746) e Santini, Picenorum Mathematicorum elogia, Macerata 1779, riporta il testo dell’iscrizione dedicata al Buratti in Santa Maria della Vittoria a Roma ma non aggiunge quasi nulla alle informazioni che vi si leggono. Buratti è ricordato quale Conservatore in Ameyden-Bertini, I, 222 e in Gigli, pp. 199-200.

[5] Chi attacca per primo, scriveva Francesco a Taddeo Barberini il 19 aprile, gode indubbiamente di molti vantaggi, ma se le truppe del Papa prendessero l’iniziativa e assalissero Parma offrirebbero un’ottima opportunità ai Principi per intervenire. Molto meglio, dunque, aspettare che fosse Odoardo a fare la prima mossa (BAV, Barb.lat. 8822, Cifre di Francesco a Taddeo Barberini, cc. 14-16). Quanto ai costi, sembrava ampiamente desiderabile ridurre per quanto possibile, secondo l’iniziale suggerimento del Buratti, anche le spese correnti. «La Santità di Nostro Signore», aveva scritto Francesco il 15 marzo, «persiste nella risolutione di ridurre la soldatesca et ora stanno trattando mons. Tesoriero et il Signore Giulio Buratti del modo che non aparisca e non faccia strepito questa ridutione, ma più presto sia come la licenza a molti soldati che dimandano di tornar alle case loro. Io dubito che ciò non sarà così facile, ma quest’è il pensiero del Sig. Giulio Buratti con ritenere tutti gl’offittiali» (ivi 8821, c. 83; cfr. anche cc. 69 e 78). La preoccupazione di evitare ogni spesa superflua e soprattutto ogni “strepito” circa il licenziamento di soldati era ribadita da Francesco il 21 aprile quando era ormai evidente la necessità di aumentare e non diminuire la soldatesca, almeno dalla parte di Bologna: ivi 8822, cc. 18-19.

[6] L’invasione degli Stati del Farnese, sosteneva Giulio Buratti, con il quale concordava il Papa, doveva essere tentata, in risposta al previsto attacco di Odoardo, anche a rischio di far intervenire Venezia e i Principi. Si prevedeva che Odoardo attaccasse dalla parte di Modena puntando su Bologna oppure (ed era l’ipotesi più temuta) sulla frontiera di Castro dalla Toscana. Il problema era preparare una risposta tempestiva e sufficientemente energica da spostare la guerra sui territori del Farnese o di chi avesse concesso alle sue truppe il passo. «Non che Nostro Signore voglia che si vada a preoccupare il Duca di Parma attaccandolo in casa sua», scriveva Francesco a Taddeo, capo designato dell’esercito, «né entrando prima di lui nello Stato di Modena et Reggio; ma quando egli vi entri con le sue genti [...] gustarebbe Nostro Signore che si procurassi tratenerlo dentro al medesimo». D’altra parte «Nostro Signore gustarebbe non meno che Vostra Eccellenza, massime ne’ primi incontri non si ponessi in luoghi ne’ quali Ella fussi forzata senza nostro grande vantagio di venir a giornata». Insomma, come lo stesso Urbano si era espresso qualche giorno innanzi, «bisognava usar dell’arte di Fabio Massimo con Anibale. Ma non per questo», precisava Francesco, «Sua Santità vieta a Vostra Eccellenza di combatter il Duca quando si vedesse un chiaro avantagio per le armi di Sua Santità» (BAV, Barb.lat. 8822, Cifre di Francesco a Taddeo Barberini, cc. 19, 25, 39, 47, rispettivamente 21, 22, 30 aprile e 7 maggio 1642). Ad illustrare questa linea di condotta Buratti dedicò diverse scritture più volte citate nelle lettere di Francesco a Taddeo Barberini. Cfr. quanto scriveva ancora nel luglio Alberto Morone a Panciroli: sembrava che tutto dovesse ridursi a far spendere il più possibile in armamenti al Duca di Parma con la minore spesa possibile per il Papa (Morone, c. 3r).


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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