Caduta e fuga: 2a, 2b, 2c, 2d, 2e, 2f, 2g, 2h

Il conclave

«Urbano non ancor raffreddato si svelano le giustificate male inclinationi di una città strapazzata, si parla, si scrive, si bestemmia senza ritegno e senza timore».[1] Una relazione del conclave parla di «contento indicibile» del popolo per la morte del Papa, un’altra di «applauso mirabile» e, aggiunge quest’ultima, «nel sentimento di allegrezza si accordarono in unisono i buoni et i cattivi».[2] Dei nipoti di Urbano, poi, tutti pregustavano l’imminente disgrazia: «tutta Roma è Medica o Farnesiana, trattandosi de Barberini come de nemici».[3] Francesco, mentre passava in carrozza per Borgo, l’indomani della morte dello zio era stato ricoperto d’improperi dalla gente.[4] Il Cardinale Antonio era «di più buon concetto del fratello appresso il popolo», ma, naturalmente, non più di tanto e Taddeo non lo era affatto. «Per la città non si sentiva che maledicenze et esclamationi con leggersi publicamente le satiriche e brutte compositioni così contro d’Urbano come contro di loro»[5].
Tutti i palazzi erano stati messi in stato di difesa, il che non era insolito alla morte di un Papa, occasione quasi sempre di turbolenze. Ma questa volta la situazione era più allarmante se non altro per la presenza in città di un gran numero di soldati sbandati o licenziati di fresco dal servizio della Chiesa o in attesa di vedersi liquidare il soldo.[6] In più, se il popolo mostrava una gran voglia di sfogarsi in qualche modo, la Corte, «satia et infastidita di così longo pontificato», non era da meno e i Barberini furono oggetto di insulti e strapazzi da parte di ogni sorta di autorevoli e meno autorevoli personaggi.[7]
Già nelle prime riunioni del Sacro Collegio in Sede vacante si percepì il ridimensionamento dell’autorità dei Barberini tra i cardinali. Il 30 luglio fu confermato Governatore di Roma Gio Girolamo Lomellini, nominato a quella carica nel gennaio e già vicelegato di Bologna con il Cardinale Antonio durante la guerra di Castro. Come Governatore del Conclave e di Borgo fu scelto, su suggerimento dello stesso Cardinale Antonio, il decano della Camera, mons. Buonvisi, già suo familiare e, come annotava Ameyden, «continuo suo commensale».[8] Ma il Generalato della Chiesa, fu confermato a Taddeo con l’esigua maggioranza di due voti su quaranta e con l’intesa di limitarne l’autonomia.
La conferma di Taddeo suscitò comunque le proteste dei Principi della Lega che minacciarono, se non vi si fosse posto efficace rimedio, di far scortare a Roma i loro cardinali, Medici ed Este, da «molta gente» armata (che in effetti il Granduca cominciò ad ammassare ai confini).[9] Il Collegio riunito, il primo di agosto, nella sua terza congregazione generale, ritenne opportuno accogliere nella sostanza le richieste dei Principi: Taddeo fu formalmente posto agli ordini di due cardinali, Lante e Roma. La proposta di esautorare Taddeo era stata approvata a maggioranza, ma con uno scarto abbastanza consistente - ventidue contro diciassette - «onde scopersero [i Barberini] che le creature loro gli vuotarono contro».[10]
Prima ancora della morte di Urbano i cardinali spagnoli, facendo accompagnare le loro richieste da minacciosi movimenti di truppe ai confini del Regno di Napoli, avevano costretto i Barberini ad iniziare il licenziamento dei soldati arruolati in Francia per la guerra di Castro. Analoghe sollecitazioni vennero in Sede Vacante dall’ambasciatore dell’Imperatore.[11] Fin dal 30 luglio il Sacro Collegio, riconoscendo che la presenza di tanti Francesi in Roma in occasione del conclave era inopportuna, aveva creato una commissione di cinque cardinali (tra i quali quelli che più avevano strepitato contro i Barberini) con l’incarico di concludere al più presto, d’intesa con i capi d’ordini e con il Camerlengo, il loro licenziamento. Lo stesso trattamento fu riservato ai comandanti chiamati a Roma dai Barberini: Buglione, che, deluso nelle sue ambizioni, si era ritirato a Bologna, fu confinato a Urbino e il marchese Villa, che aveva appena assunto il comando delle truppe delle legazioni, fu licenziato.[12]
Il 31 luglio, appena due giorni dopo la morte di Urbano Antonio Barberini assunse pubblicamente le funzioni di protettore della nazione francese «con haver anco nel medesimo tempo posto sopra la facciata del suo palazzo a Capo le Case l’arme di quel Re con quella del Popolo Romano a mano manca». L’iniziativa, scrivevano i cardinali Bragadin e Corner al Senato veneto, «havendo assai commosso l’animo delli Spagnoli, gli fa stare grandemente adombrati e ingelositi della Casa Barberina e tanto più mostrano di non fidarsene quanto più veggono essere li Signori Cardinali Francesco e Antonio unitissimi insieme in questa occasione».[13] Gli Spagnoli presero le dovute contromisure, cercando di coagulare nel Sacro Collegio un largo schieramento antibarberiniano.[14]
I lavori del conclave cominciarono il 9 agosto in un’atmosfera tutt’altro che serena. I cardinali si dividevano in due fazioni principali, la spagnola, guidata da Albornoz e la barberina, guidata dal Cardinale Francesco.[15] Ciascuna delle due però si divideva in almeno due sottogruppi. Nella spagnola dalla folla dei partigiani di Spagna propriamente detti si distingueva per molti rispetti il gruppo dei cardinali romani e quello dei Principi.[16] Nella barberina, dalle creature fedeli a Francesco si distingueva il gruppo dei seguaci di Antonio, a cui si erano uniti i partigiani di Francia.[17] Non erano rari, poi, i casi di doppia o incerta appartenenza, come quello del Cardinale de Lugo, che doveva dividere il suo affetto tra la Spagna e i Barberini, o quello del Cardinale Colonna, che lo stesso giorno in cui Antonio aveva alzato le insegne di Francia si era dichiarato di parte spagnuola, ma che era pur sempre imparentato con i Barberini, o infine quello del Cardinale d’Este, spagnolo dichiarato ma disposto, come il Duca suo fratello, a vendersi a chiunque e già d’accordo, a un tempo, con i Barberini e con la Francia.[18]
Almeno in teoria la fazione barberina era di gran lunga la più forte: oltre quaranta cardinali avevano ricevuto la porpora da Urbano VIII. Ma di questi solo una metà scarsa erano di sicura fede. Quanti erano sudditi o feudatari del Re di Spagna erano facilmente ricattabili nei titoli, nei beni e nelle rendite personali o di famiglia. Da questa parte le defezioni erano cominciate ancor prima dell’inizio del conclave: «Costaguta, Rondanino, Ceva e Gabrielli  sono dichiarati spagnoli dubitandosi anche de Verospi», si legge in un diario di quei giorni.[19] C’era poi un sostanzioso gruppo di cardinali “malcontenti”, ossia «quei che provisti d’entrata non erano stati da Barberini». Secondo Bernardino Spada, Francesco Barberini era stato sollecitato per tempo dai suoi collaboratori a pensare «a fortificare la sua fattione» e specialmente a fornire di rendite adeguate «alcuni cardinali poveri e perciò mal sicuri», ma senza effetto. Egli aveva continuato anzi «a governarsi con i propri consigli, senza aprirsi o mostrar confidenza con alcuno» mostrandosi «con tutti difficile et aspro, iracondo nel trattare, e nel far gratie più che mai ristretto».[20] E così, le creature di Urbano erano arrivate al conclave «per lo più povere e mal sodisfatte, quali le guadagneranno tutte facilmente li Spagnoli e camineranno con l’essempio de Theodoli, il quale, dichiarato francese per avvanzarsi nelle pensioni in utile della sua Casa [si trova] hora più povero che prima».[21]
La fazione barberina poteva esprimere, a scelta, un’anima filospagnola e una filofrancese, rappresentate rispettivamente da Panfili e da Sacchetti. Dei due candidati il più qualificato era Sacchetti, forse troppo qualificato per riuscire.[22] Naturalmente, poiché godeva dell’appoggio dei Francesi, la candidatura Sacchetti doveva scontare l’ostilità pregiudiziale degli Spagnoli, ma l’inverso valeva per Panfili.[23] La danneggiava di più, tutto sommato, l’età: secondo l’opinione di molti, Sacchetti era troppo giovane per succedere a Urbano, il cui pontificato era stato eccezionalmente lungo. Il conclave, diceva il Cardinale de’ Medici, vuole un Papa vecchio: i pontificati lunghi sono «tirannici».[24] Infine contro Sacchetti giocava la sua fedeltà alla Casa dei Barberini, di cui nessuno ignorava le aspirazioni, come si diceva, “monarchiche”, ossia di continuità nel potere:

«Discorrono li più che, quando riuscisse Papa Sacchetti, nessuno potrebbe levare la successione a Falconieri et forsi per la terza volta al medesimo Cardinale Barberino mentre tra l’odierne creature e le creande dal sudetto Sacchetti sarebbe tutto il Colleggio barberino». [25]

Tra i cardinali creature dei Barberini il solo apertamente contrario a Sacchetti era Mattei, leader dei romani. L’ostilità di Mattei nasceva un po’ dai legami con Panfili, concorrente di Sacchetti, e un po’ dalla rivalità che nel corso della guerra di Castro aveva opposto Cornelio Malvasia, uomo di Sacchetti, a Luigi Mattei.[26] Il principale artefice della sconfitta di Sacchetti fu comunque Carlo de’ Medici. Personalmente non gli era ostile. In conclave sembra anzi che gli avesse promesso, in cambio del ritiro della candidatura, di interporre per lui i suoi buoni uffici e quelli del Granduca  presso la Corte di Spagna, alludendo a una sua possibile ricandidatura nel conclave successivo.[27] Ma i Medici avevano sin dall’inizio puntato su Pamphili e, come si esprimeva Giminiano Poggi, conclavista del Cardinale d’Este, «qui s’è posto il chiodo».[28]
Per la fazione urbana il pericolo era che il gioco dei veti incrociati tra Francia e Spagna bruciasse entrambi i candidati, finendo per favorire personaggi di minore affidabilità o addirittura estranei alla fazione. Proprio per questo il Cardinale Antonio aveva evitato di rendere pubblica l’esclusione di Panfili da parte della Francia, nota ai cardinali solo in via ufficiosa. Francesco, da parte sua, aveva cercato di convincere Albornoz che pubblicare l’esclusione di Sacchetti significava «pregiudicare grandemente alle cose di Pamphilio».[29] Ma gli Spagnoli, che non si fidavano dei Barberini e non stravedevano neppure per Panfili (si diceva che il Re di Spagna «voleva bene averlo per amico, ma non per papa») si affrettarono a rendere pubblica l’esclusione di Sacchetti, sfidando la ritorsione francese.[30] Si era così determinata fin dall’inizio del conclave la situazione temuta: uno stallo che minacciava di durare indefinitamente e di logorare a poco a poco la fazione urbana.
Quella dell’esclusione era, anche in linea di principio, una questione assai delicata: fino a che punto era lecito a un’autorità laica, fosse pure la maggiore potenza del mondo cattolico, condizionare la scelta dei cardinali sostituendosi allo Spirito Santo? Il teologo del conclave, il gesuita Valentino Magnoni (o Mangioni), aveva dato una mano agli Spagnoli sostenendo la legittimità della pratica dell’esclusione, ma in molti cardinali permaneva qualche scrupolo di coscienza o quel che d’altro in quelle circostanze potesse passar per tale.[31]
In ogni caso Francesco, che pareva sicuro di controllare il conclave, ignorò il veto e candidò ufficialmente Sacchetti. Sul finire del mese ritenne o fece vista di ritenere di aver ormai raccolto sul suo nome più consensi di quanti fossero necessari e pare che, prima ancora di venire ai voti, facesse sapere a Taddeo che ai fratelli di Sacchetti conveniva dare, come congiunti del futuro Papa, il titolo di Eccellenza e ai fratelli di Sacchetti  “che levassero l’argento di casa per il timore del sacco solito darsi alle case de’ cardinali creati Papi”. La cosa, naturalmente, si riseppe e il 31 agosto, essendosi sparsa per Roma la voce dell’imminente elezione di Sacchetti, «non solo si mise sottosopra la sua casa ma si venne quasi alla pittura dell’armi». Allo scrutinio, però, Sacchetti non ebbe che cinque voti dei quarantasei che gli erano stati promessi.[32]
All’ultimo momento Medici aveva convocato un gruppetto di incerti, Cennini, Corner, Cesi, Bragadin, Monti, Durazzo e qualche altro, che aderivano al partito spagnolo in considerazione soprattutto dei «danni che sovrastavano a loro et alle loro case se a ciò non si fossero indotti» e li aveva richiamati con severità all’obbedienza. Lo stesso avevano fatto il Cardinale Albornoz e il conte di Sirvela, l’ambasciatore spagnolo giunto in Roma alla vigilia del conclave.[33] Il Cardinale de’ Medici si sarebbe vantato con il Granduca di essere riuscito a tenere «il bacile alla barba» di Francesco, capo della fazione di gran lunga più forte, pur non potendo contare, all’inizio, che su pochi voti.[34] Qualcuno disse che nel sostenere la candidatura di Sacchetti Francesco «con la pratica di un governo d’anni 21» si era comportato «a modo d’un novitio a cui fossero ignote le prime cure del negotio» [35] e tutti sottolinearono, in un modo o nell’altro, la scarsa intesa tra i due fratelli Barberini[36].
C’è però più di un indizio che le cose non fossero andate esattamente così. A quanto pare, infatti, Francesco aveva puntato sin dall’inizio su Panfili e la candidatura di Sacchetti era solo una finta.[37] Anche le voci lasciate trapelare in città sull’imminente elezione di Sacchetti e l’agitazione che ne era seguita rientrerebbero dunque nella manovra volta a disorientare gli avversari della fazione urbana e a far avanzare, coperta dal gran rumore suscitato intorno a Sacchetti, la candidatura di Pamphili.[38] Quanto ai due candidati, Sacchetti, con edificazione di tutti, non fece nulla per promuovere la propria elezione. È probabile però che vi fosse indotto, più che da naturale modestia, da un meno virtuoso gioco di squadra e dalla coscienza di non avere alcuna possibilità di successo.[39] Panfili invece, esercitava le sue note capacità di dissimulazione: «pare l’oracolo in conclave», si legge in un anonimo diario del conclave «parla poco et negotia meno persuadendosi di colpire alla stracca et escluse l’altre creature che potrebbero tenerlo indietro».[40] Ma, continuava il diario, «non manca intanto di aiutarsi con Donna Anna Colonna per mezzo del Padre Giuliano Giustiniani della Chiesa Nuova, confessore di detta Signora, offerendoli parentela, come già con i cognati e fratelli non manca d’adoperare, con le speranze di condurre di nuovo i suoi figli signori dell’imperio».[41]
Fuori della cerchia degli intimi si sapeva soltanto che Antonio, conformandosi alle indicazioni di Parigi, era contrario a Panfili a meno che, si diceva, - ed era un’eccezione significativa - non si arrivasse a concordare un legame matrimoniale tra le due famiglie. [42] La questione del matrimonio o dei matrimoni possibili in effetti era, ancora una volta, la chiave del conclave: sarebbe stato Papa chi fosse riuscito a offrire il miglior partito ai Barberini.[43]

«Qualcheduno della Corte», scriveva Taddeo a Francesco durante il conclave, «discorre che dovriano l’Eminenze vostre, tra tante difficoltà, formare et stringersi per il mezzo che più a loro paia opportuno con uno dei tre co’ quali vi potessi esser speranza d’imparentare et discorrono di Panfilio, Santa Cecilia et Rocci et quello guadagnare e condurre avanti che loro giudichino più facile ad esser ricevuto et a condursi al fine. Non ho nominate le tre per restringersi a queste sole, perché loro hanno molte creature et credo molte assai buone».[44]

Dall'inizio del conclave, Rapaccioli, su sollecitazione di Francesco, si era adoperato attivamente a favore della candidatura Panfili e aveva trattato con i due maggiori esponenti del partito francese, Bichi e lo stesso Antonio, la sospensione dell’esclusione. Analoghi uffici avevano rinnovato con Antonio e con Grimaldi i Cardinali Spada e de Lugo, Monti e Panciroli.[45] Senonché, a quanto pare, Antonio non aveva bisogno di essere convinto: fin dai primi giorni del conclave aveva prospettato all’ambasciatore francese Saint Chamond la candidatura Panfili come la sola possibile e, in funzione del previsto legame matrimoniale, la sola desiderabile.[46]
Quando la candidatura Sacchetti cadde per l’imboscata dei suoi falsi amici erano già passate tre settimane dall’inizio dei lavori. Il Vaticano era ritenuto, non a torto, luogo malsano e il caldo e il pericolo della malaria sconsigliavano una lunga permanenza. Il primo ad ammalarsi fu il Cardinale Bentivoglio (uno dei vecchi, che Mazzarino avrebbe preferito come Papa a Sacchetti), che abbandonò il conclave il 31 agosto e morì poco dopo.[47] Caddero poi ammalati i Cardinali de Lugo, Mattei, Gabrielli e, ai primi di settembre, lo stesso Francesco Barberini. C’era insomma una situazione di allarme e, tra i cardinali, una diffusa voglia di concludere.
Per l’indisposizione di Francesco la guida della fazione urbana passò ad Antonio, a cui si offriva così l’imprevista opportunità di fare il nuovo Papa, e di farlo da solo.[48] Ma quanto imprevista? Forse quella di Francesco era soltanto una malattia diplomatica o una indisposizione diplomaticamente ingigantita.[49] Se, come sembra, Panfili era stato sin dall’inizio il candidato dei Barberini, l’avvicendamento tra i due fratelli, dato il ruolo di Antonio alla testa del partito francese, rispondeva nella maniera migliore all’esigenza di aggirare l’unico vero ostacolo alla sua elezione: l’ostilità della Francia. Senza contare l’effetto di una candidatura portata al successo proprio da chi, almeno ufficialmente, ne era l’oppositore e dopo che la candidatura Sacchetti era caduta per la presunta insipienza di chi, pur essendo, come Francesco, politico navigatissimo, al momento giusto l’aveva avventatamente arrischiata.[50]
Antonio, che nelle prime settimane del conclave aveva tenuto i contatti con Saint Chamond per mezzo del suo familiare (e cognato di Mazzarino) Vincenzo Martinozzi, continuò a trattare con l’ambasciatore per il tramite del Cardinale Teodoli e di suo fratello, il marchese di San Vito.[51] In cambio dell’assenso all’elezione di Panfili Antonio offriva - riproponendo nella sostanza condizioni più volte discusse nel corso degli ultimi due anni e che Mazzarino aveva già mostrato di gradire - il passaggio dell’intera Casa Barberini al servizio della Francia, la nomina a cardinale di Michele Mazzarino e la creazione di un altro cardinale di nazione italiana gradito al governo di Parigi.[52]
A fondamento di tutto stava però la promessa di Panfili di unire la propria famiglia a quella dei Barberini, i quali avrebbero dunque continuato ad esercitare anche nel nuovo pontificato un’influenza preminente: «non solo tutta la Casa Barberina, ma anco la più numerosa fattione di cardinali che si sia mai vista da centinaia d’anni in qua verrà virtualmente a militare sotto le insegne della Francia».[53] Al Cardinale Bichi, amico personale di Mazzarino (il «più sviscerato e fedele che io habbi al mondo», aveva scritto quest’ultimo al fratello Michele) e coprotettore di Francia, il cui coinvolgimento avrebbe assicurato il successo dell’operazione, fu offerto un arcivescovato in Francia. Per i loro buoni uffici era previsto infine che il Cardinale Teodoli avrebbe ottenuto la chiesa di Imola e Saint Chamond una congrua somma di denaro.[54]
Saint Chamond, che personalmente dava «per rilevanti l’offerte e per degne di esser accettate dalla Corte di Francia», [55] si era riservato di consultare Parigi, ma di fronte al diffondersi delle infermità tra i cardinali e visti i primi inequivocabili segni di sfaldamento della fazione urbana, aveva convenuto sull’impossibilità di ritardare ancora la conclusione del conclave per attendere la risposta di Mazzarino. Si era perciò rimesso alle decisioni di Antonio, contando di non doversene poi assumere la responsabilità, esattamente come aveva sperato di poter fare Antonio quando lo aveva coinvolto nell’affare.
Nei confronti della Francia, però, l’ambiguo assenso dell’ambasciatore non era affatto sufficiente ad appianare ogni difficoltà. Bichi non solo per fedeltà agli ordini di Mazzarino, ma per personale disistima nei riguardi di Panfili («Signori», pare abbia detto in conclave alludendo a Olimpia Maidalchini, la chiacchieratissima cognata del futuro papa, «faremo una papessa!»[56]) si rifiutò di aderire in qualsiasi modo alla manovra di Antonio e nei suoi confronti passò rapidamente dalla grande cautela iniziale, alla diffidenza e infine a un’aperta rottura.

«Il Signor Cardinale Bichi», riferivano al Senato Veneto Corner e Bragadin all’indomani dell’elezione di Panfili, «non cessò di fargli l’esclusione per nome, diceva, di Francia, ma in effetto non ne mostrò mai l’ordine che allogava di haverne et all’incontro il Signor Cardinale Antonio Protettore sempre affermava [...] non vi esser ordine di esclusione alcuna e che Bichi si moveva per sue sole passioni e interessi».[57]

Il denaro destinato a Saint Chamond, sanzione e simbolo di tutta l'operazione, rappresentava un problema non piccolo, temendosi da qualcuno che «macchiasse la elezione o per lo meno la conscienza di chi vi aveva le mani».[58]
Otto cardinali a posta interpellati espressero unanimi l’opinione che «potevano i Barberini offerire qualche regalo all’ambasciatore con lode e senza alcun pericolo di offendere le leggi dell’elettione» e che anzi «corressero più tosto benemeriti della libertà del conclave» servendo quel denaro non a coartare la volontà dei cardinali, ma semmai a rimuovere un ostacolo alla sua libera espressione.[59]
D’altra parte quel denaro sospetto costituiva il più efficace mezzo per tutelare la Casa Barberini contro la prevedibile irritazione del governo francese e contro l’ingratitudine, sempre possibile, del nuovo Papa. Prima di dare il proprio appoggio a Panfili Antonio pretese dunque che gli fossero consegnati i biglietti passati per le mani dei fratelli Teodoli nel corso delle trattative con Saint Chamond e che erano una sorta di ricevuta del prezzo pagato per l’elezione. Gli servivano, asseriva, per «giustificare in ogni caso [con il governo di Parigi] i negoziati tenuti con l’Ambasciatore». Ma evidentemente gli servivano anche per tenere sotto controllo il nuovo papa con la minaccia di una documentata accusa di simonia.
In più, vista anche l’asprezza dello scontro con Bichi, Antonio pretese che, nell’eventualità tutt’altro che remota che Mazzarino volesse fargli pagare l’inosservanza delle istruzioni ricevute, la corona spagnola si impegnasse a prendere sotto la sua protezione i Barberini e a risarcirli di ogni danno. A soddisfare questa seconda richiesta provvide il Cardinale de Lugo, che ottenne dal capo della fazione spagnola, il Cardinale Albornoz, le necessarie assicurazioni. Alla prima provvide invece il Cardinale Rapaccioli, che non ebbe difficoltà a procurarsi i biglietti in questione né mostrò alcun imbarazzo nel consegnarli ad Antonio: Antonio, pare, «sopraffatto dalla prontezza inaspettata di quelle carte, disse al medesimo Rapacciolo: “Ora sì che Pamfilo è papa”».[60]


paragrafo precedente * paragrafo successivo * inizio pagina


[1] Malconsigliata, BAV, Barb. lat. 5393, c. 6.

[2] BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Quanto importi...”, c. 265r; BAV, Borg. lat. 106, incipit: “Urbano 8° appena...”, c. 191v. In BUG, ms. C.I.3, incipit: “Avvisai V.S...” c. 109 si legge che la notizia della morte di Urbano si diffuse «con tanto giubilo di tutta la città, infastidita di così lungo pontificato, che fu cosa di stupore». Di espressioni di questo genere sono piene le scritture di quei giorni. In una relazione di conclave fortemente ostile ai Barberini (BAV, Borg.lat. 106, cc. 198-203, incipit: “Di niuno huomo…”) e che parrebbe dipendere largamente da quella attribuibile al Card. Albornoz si legge: «Si può dire con verità che niun pontefice fu divenuto sì esoso al popolo christiano et desideratoli la morte come ad Urbano» (BAV, Borg. lat. 106, c.198v). BMV, ms. It. VII. 876 (8650), incipit: “La brevità di vita...” cc. 136-137 ricorda opportunamente che «le nozze et allegrezze di Roma sono ordinariamente la morte del Pontefice». Aggiunge però che «questa volta la Corte va in estasi»: non solo il popolo, dunque.

[3] BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinale de Medici...”, cc. 280-281. Il partito dei Medici era sempre stato molto forte in Roma e anche durante la guerra non erano mancati scontri con i seguaci dei Barberini: il conflitto, con i sacrifici che imponeva, non favoriva certo la popolarità del Papa. I Fiorentini di Roma, scriveva Gigli nel suo diario tra l'agosto e il settembre del '43, odiavano il Papa e la gente rideva delle presunte vittorie dell'esercito ecclesiastico. «In molti luoghi si vedevano le genti contrastare tenendo alcuni la difesa del Papa et altri de Fiorentini, ma si vedeva chiaramente che il Papa haveva molti contrarii in Roma» (Gigli, pp. 235-236).

[4] BAV, Barb. lat. 4669, incipit: “Quanto importi...”, BAV, Barb.lat. 4669, c. 265. L’episodio è confermato da BUG, ms. C.I.3, (incipit: “Avvisai V.S...”), cc. 115 (dove, però, anziché Borgo si dice la Longara) e 124 (dove invece si parla di via del Pellegrino). Gigli, p.252 situa l’episodio al Pellegrino ma lo dice avvenuto il 26 luglio e cioè prima della morte del Papa.

[5] BAV, Barb. lat. 4669, incipit: “Quanto importi...”, cc. 265-266. BUG, ms. C.I.3 (incipit: “Avvisai V.S...”), c. 115. «Pareva che fosse il giubileo delle satire et l’indulgenza delle maldicenze»: “Urbano 8°…” c. 191v-192r; cfr. Ameyden, Diario, BCR, ms. 1832, c. 68r, Gigli p. 254, 256-257. Di questo genere di composizioni esistono naturalmente diverse raccolte; una buona scelta in BAV, Chig. I.III.87, cc. 71-169. Le satire antibarberine fecero arrabbiare Taddeo: «Come che Roma è piena di scritture e compositioni non solo erudite ma anche ridicole, però Don Taddeo ha fatto reiterare istanze penali da mons. Governatore per il gastigo e così andorno li notarii con sbirri per molte copisterie alle quali hanno trovato scritture, conclavi e processi contro li Barberini e non gli hanno toccati, ma solamente alcun sonetto o compositione ingiuriosa e troppo sporca et in questa diligenza vi è inciampato qualche sfortunato, ma non si è visto modo vero, solo di semplice sodisfattione come che non si sia caminato con li rigori soliti e giudicata l’instanza puoco savia perché non mancherassi a far peggio già che le materie escono da Case grandi né il Governatore sa a chi servire né a chi diservire» (BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinale de Medici...”, c. 283). Tra le composizioni satiriche raccolte in BAV, Chig. I.III.87, a cc. 85-86 ce ne è una Per la carcerazione de copisti: «... Fuggite copisti / lo sdegno il furore / la rabbia e ‘l rancore di questi ateisti. / Fuggite copisti. / Taddeo non vuole / ch’alcun di voi facci / cotanti dispacci / de’ suoi mal acquisti. / Fuggite copisti /...». Cfr. Pastor, XIII, pp. 898-899.

[6] I disordini provocati dai reparti che venivano via via licenziati continuarono anche dopo l’elezione di Innocenzo; vedi in Bisaccioni, p. 520 il racconto dell’ammutinamento sedato per intervento del cavaliere Ferdinando Vecchiarelli. Molti particolari sull’insolita esplosione di criminalità seguita alla morte del papa in BUG, ms. C.I.3 (incipit: “Avvisai V.S...”), cc. 110-111 («come che la giustizia sta ritirata, resta campo aperto ad ogn’uno di vendicarsi de’ nemici, che però hieri furono fatti otto homicidii in diverse parti della città [...]. Chi non ha che fare non camina né più si cerca di godere il fresco della notte») e 121-123; BMV, ms. It. VII. 876 (8650), incipit: “La sede vacante...” cc.138-139 («forsi non ne sono successi tanti [eccessi e scandali] in dieci sedi vacanti come sono successi nelli pochi giorni della presente»). Cfr. Pastor, XIV, I, p. 13 che cita Petruccelli, III, p. 91, Eritreo, Epistolae, ep. LXVIII. Sui disordini che tradizionalmente seguivano la morte di un papa e sui saccheggi “rituali” delle proprietà del successore (talvolta solo presunto come nel caso di Sacchetti) vedi Ginzburg e Nussdorfer (quest'ultimo dedica particolare attenzione alla sede vacante del 1644). Ai saccheggi rituali va associata la tradizione che “autorizzava” - se così si può dire - i conclavisti a invadere e devastare la cella del cardinale scelto per Papa. Gregorio XV, ad esempio, fu costretto a passare la notte tra l'elezione e l’apertura del Conclave nella cella del Cardinal Borghese «poiché la sua era stata secondo il solito svaligiata dai conclavisti» (BAV, Barb. lat. 4696, incipit: “Era caminata la vita di Papa Paolo V°...”). Riferimenti a quest’uso anche nel Diario di Bastiano Casini conclavista, nel 1655, del Cardinal Capponi (incipit: “Nel tempo ch’io sono stato in Conclave...”).

[7] «I malcontenti del pontificato di Barberino», si legge in un avviso da Roma, «sparlano alla scoperta, malamente». Pare che in questa attività si distinguesse mons. Cesarini, a cui il Collegio finì per infliggere gli arresti domiciliari, scontati però nel palazzo del Farnese «ove sta componendo satire» (BUG, ms. C.I.3, incipit: “Avvisai V.S...” cc. 112-113, 116, 123; cfr. “Sin da sabbato...”, cc. 172-174, Ameyden, Diario, BCR ms. 1832, c. 53v, Gigli p. 254, Siri, Mercurio, IV, 1655, II, pp. 567-569, Chinazzi, p. 11). Il Cardinale de’ Medici, giunto a Roma l’antivigilia dell’inizio del conclave, aveva rifiutato di ricevere la consueta visita del principe Taddeo e del Cardinale Barberini e aveva fatto in modo che si sapesse.

[8] Ameyden, Diario, BCR, ms. 1832, c. 40v. BUG, ms. C.I.3, incipit: “Avvisai V.S...”, c. 116. Sul Buonvisi: M.Trigari in DBI. Governatore di Roma, Governatore del Conclave e di Borgo e Generale della Chiesa avevano il compito di vigilare sulla sicurezza del conclave e di assicurare l’ordine pubblico in città. Tra le molte testimonianze degli avvenimenti di questi giorni segnalo per qualità e abbondanza di notizie quella dei cardinali Cornaro e Bragadin in ASVe, DAS, Roma 121, cc. 40 sgg.

[9] L’eventualità di un intervento militare era prevista, pare, dagli stessi Barberini, che avevano preso per tempo le loro precauzioni acquistando monte di Santo Spirito, attiguo al Vaticano dove si sarebbe svolto il conclave, e facendolo fortificare: così almeno sostiene un pronostico di conclave scritto nei primi mesi del 1644 (BAV, Barb. lat. 4675, incipit: “Io voglio pur credere...”, c. 51v).

[10] BUG, ms. C.I.3, incipit: “Avvisai V.S...”, cc. 118-119. ASVe, DAS, Roma 121, cc. 50-51. «Mi è stato doglioso», avrebbe scritto da Genova Matteo Peregrini al Cardinale Barberini, a conclave concluso, «l’haver veduto tanti beneficati pagar di sfacciatissima ingratitudine i grandissimi honori e gratie ricevutene» (BAV, Barb. lat. 10039, c. 37, 24 settembre 1644).

[11] «Il Cardinale Barberino», scriveva il 2 agosto, a Mazzarino, Giannettino Giustiniani che sorvegliava da Genova per conto della Francia il flusso delle truppe licenziate dai belligeranti dopo la conclusione della pace, «sbigottito dalle minaccie de cardinali spagnoli c’hanno bravato d’introdurre in Roma il Vicerè di Napoli armato se ritteneva tanta soldatesca francese, ha licenziato le truppe che passavano sotto nome d’Avignonesi, et di qua sopra di polacche e tartane ne sono di già passate sino al numero di mille, gente elletta e bellissima. Ne passeranno anche più d’altri mille ch’erano di già imbarcati a Civitavecchia, quali tutti vanno in Provenza a spese del medesimo Cardinale Barberino, essendo d’ordine suo stati proveduti in questo nostro porto di rinfreschi e tutt’altro necessario. Alcuni capitani m’hanno detto di dover passare al servitio di Sua Maestà, e veramente non è soldatesca da lasciarsi scappare» (AAE, CP, Gênes 4, cc. 158-159bis).

[12] ASVe, DAS, Roma 121, cc. 44v, 52r. Cfr. BUG, ms. C.I.3, incipit: “Avvisai V.S...”, c. 117.

[13] ASVe, DAS, Roma 121, c. 50r, Bragadin e Cornaro al Senato, 6 agosto 1644. Il futuro Alessandro VIII annotava il 30 luglio nel suo diario: «rumor erat Cardinalem Antonium Barberinum declarasse se acceptare Protectionem Regni Galliarum et fuit verum» (incipit: “Ego Petrus Otthobonus…”, BAV, Ott. lat. 1073, c.19v).

[14] Albornoz, cc. 165 sgg. conferma il gran lavorio suo e dell’ambasciatore di Spagna prima e durante il conclave per comprare i cardinali della fazione avversa. Analoga testimonianza per il Cardinale Montalto «che in tutte le cose si dimostra nemico de’ Barberini» in BUG, ms. C.I.3, incipit: “Avvisai V.S...”, cc. 128-129. Il Cardinale Barberini si sarebbe lamentato con il Cardinale Colonna (suo cognato, ma militante nella fazione spagnola) «che il Trivultio li andava a poco a poco con pensioni et in contanti levando tutte le creature del zio non ostante li benefitii ricevuti dal detto suo zio, che è cosa che non si deve fare così scopertamente in conclave che sarebbe come vender lo Spirito Santo per denari» (BUG, ms. C.I.3, incipit: “Avvisai V.S...”, c. 135). L’autore di “Io voglio pur credere...” già alcuni mesi prima del conclave aveva sollecitato il governo spagnolo ad assicurarsi con congrui regali il voto di quanti più cardinali fosse stato possibile. Per quelli della fazione urbana consigliava di procedere con discrezione, il che avrebbe anche permesso di risparmiare qualcosa: «a molti cardinali bisognosi che non vorranno impegnare la propria riputatione sarà sempre più grato ogni anno il sussidio o una borsa di mille scudi d’oro a quattr’occhi che la pompa di un’abbadia di duemila in Concistoro». Era quel che aveva fatto la Francia «l’ultima volta che Papa Urbano stette male con pericolo di vita», e cioè nel 1637, quando Cœuvres aveva distribuito «fra cardinali sessantamila scudi [...]. E sarebbe per avventura meglio condur in oro grossa somma in conclave e dispensarla colà conforme l’occasione et merito, come appunto voleva far fare nel medesimo tempo dal cardinale suo zio il Granduca di Toscana» (BAV, Chig. I.III.87, c. 60r-v: analoghi i precetti ricordati da Signorotto, p.115, n. 60). Pare che nella stessa direzione si impegnasse il principe Borghese recando «danno notabile a gl’interessi del Cardinale Sacchetti» (BAV, Barb. lat. 4669, incipit: “Quanto importi...”, c. 267r). Rapaccioli indicava come attivo in questi maneggi un mons. De Rossi  (che non so se sia Gian Domenico, il giudice a cui fu affidato il processo per il rapimento e l’uccisione della monache di Bologna, o Pier Francesco, avvocato fiscale, già autore di scritture in difesa dei diritti della Santa Sede contro le pretese di Odoardo Farnese), legato ai “borghesiani”, con cui, scriveva Rapaccioli, «Cennino e i suoi ministri hanno grandissima confidenza» (BAV, Barb. lat. 8745, c. 298r, Rapaccioli a Francesco Barberini, 5 agosto 1644).

[15] ASVe, DAS, Roma 121, Bragadin e Cornaro, 20 agosto 1644, c. 60: «In due sole fazioni principalmente apparisce diviso il Sacro Collegio, nella Spagnola e Barberina, con la quale pare siano uniti li pochi franzesi che ci sono, per essersi, come già l’avvisammo, dichiarato Protettor di Francia il Signor Cardinal Antonio Barberino. Però non potendo l’una senza l’altra fare il papa mentre i capi di esse non s’accordano, si teme di lunghezza». L’articolazione e la nomenclatura delle fazioni sono, come sempre, incerte. Un Discorso sopra  la Corte di Roma fatto verso la fine del Pontificato di Urbano VIII (BAV, Ferrajoli 270, cc. 119-120) individuava nel sacro Collegio tre fazioni principali: la barberina (le creature di Urbano più i cardinali di obbedienza francese); «l’altra che hebbe la prima forma in vita del Card.le Ludovisi di molte sue creature e che portava il nome suo, oggi è chiamata la fazzione de Malcontenti. In questa entrano non solo le creature di Ludovisi che sono ridotte a poche, e le dependenti dagli Aldobrandini, ma molte di Barberino, da cui o per disgusti ricevuti o per altre private cagioni si sono andate, quando l’una quando l’altra, staccando. Questa è fortificata da i cardinali spagnoli»; la terza, quella dei borghesiani, era la meno numerosa ma contava diversi papabili («discorderà sempre Borghese da i concetti di Aldobrandino», ma «del Cardinal Barberino da un tempo in qua non è pienamente gustato»); ostentatamente non allineati con alcuno perché «attaccati al proprio interesse» erano infine gli “imbarcati” ossia i pretendenti al papato (non tutti i papabili, ovviamente, lo erano). Una rassegna delle fazioni presenti in conclave datata 4 agosto 1644 (incipit: “Prima le creature barberine...”) chiama “borghesiani” non solo le creature di Paolo V, ma genericamente tutti gli avversari dei Barberini. L’Instruzione al Sig. Cardinale d’Este per lo conclave dopo la morte d’Urbano Ottavo (incipit: “Egli è veramente cosa strana...”) oltre alle fazioni urbana e spagnola ne contava due altre, «i suggetti cioè del collegio vecchio e i cardinali obligati al Gran Duca, ma», precisava, «possono amendue chiamarsi rami e dipendenze della spagnola».

[16] I cardinali veneziani, Cornaro e Bragadin, si erano uniti al partito di Spagna su istruzione del loro governo (B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, cc. 290-291).

[17] Tra i seguaci di Antonio, oltre ai cardinali del partito francese, Richelieu, Bichi e Grimaldi, c’erano Teodoli, Maculano, Valençay (BAV, Barb. lat. 4669, incipit: “Quanto importi...”, cc. 268v-269r; cfr. Pastor, XIV, I, p. 17) e, forse, Gabrielli che altre fonti danno però per passato al partito spagnolo ancor prima del conclave. Bentivoglio, che era un papabile gradito alla Francia, come creatura di Paolo V era annoverato tra i “borghesiani” (“Prima le creature barberine…”), e perciò, almeno in teoria, poco amico dei Barberini (il Conclave fatto nella sede vacante d’Urbano VII, incipit: “Molti e vari…”, BAV, Ott. lat. 2434, c. 125r, 132r, lo collocava addirittura tra i cardinali di Albornoz). Era in ogni caso ostile a Sacchetti, tanto che alcuni attribuirono alla falsa notizia della sua elezione il primo attacco del male di cui di lì a poco morì (“L’anno del Signore 1644…” c. 211r: «s’accorò di maniera che uscì dal conclave […] aggravato di febbre»). Tra i francesi Valençay, pur godendo di sostanziose pensioni del Re e nonostante la scarsa confidenza con la lingua italiana, diceva di sentirsi più italiano che francese, ma soprattutto di essere prima di ogni altra cosa, uomo dei Barberini: aveva dichiarato apertamente che «il n’auroit point d’autres intérêts que ceux de la Maison Barberine» e aveva limitato le sue offerte di servigi alla Francia «aux choses qui ne seroient pas directement contraires à la Maison Barberine». In conclave Valençay «suivit entièrement les pensées des Barberins» e solo dopo l’elezione di Panfili espresse il desiderio di essere aggregato al partito francese (Arnauld, I, pp. 80-82). Come ho già detto, però, Valençay era uomo di Antonio, non di Francesco: di questo, anzi, secondo Carlo de’ Medici, era nemico dichiarato (Petruccelli, III, p. 108). Di certo fra i due i rapporti non erano facilissimi. In occasione della fuga da Roma di Francesco e Taddeo Barberini, Valençay, che era malato, non solo non ebbe parte alcuna nell’impresa, ma non fu neppure messo al corrente delle sue modalità. Francesco, giunto in Francia, si era affrettato a scusarsene, ma come gli ricordava scherzosamente (ma quanto?) Valençay, era stato lui stesso a volere che «non si havesse havuta a servire della mia persona, perché, oltre che si poteva scoprire, io le dissi di haver conosciuto ch’Ella haveva qualche diffidenza di me» (BAV, Barb. lat. 8792, c. 17, Valençay a Francesco Barberini, 20 gennaio 1646). Grimaldi confermava: «Il Signor Cardinale di Valancay rimase sodisfattissimo di non esser stato avisato antecedentemente alla partenza già che non poteva per la sua infirmità servire e Vostra Eminenza havrà ricevuta una sua spiritosa lettera in risposta» (BAV, Barb. lat. 8723, c. 51r, 3 febbraio 1646).

[18] Nella citata Instruzione al Sig. Cardinale d’Este (“Egli è veramente cosa strana...”) si legge tra l’altro: «Se bene V.A. non può non essere dichiaratamente del partito spagnolo, mentre questa è la strada che notoriamente calca il Capo della Casa, il Sig. Duca suo fratello, Ella sta così bene con tutti gli altri, che può egregiamente rappresentar le parti d’una persona indifferente (senza però professarlo apertamente) e mettendo l’abito di mezzano e di conciliatore, sopir le difficoltà, unir gli animi, sedar le controversie e senza pericolo di perdere guadagnar molto, senza disgustar alcuno obbligar tutti». La Casa d’Este, filospagnola ma non invisa alla Francia («havendo saputo il Sig. Duca gran tempo fa obligarsi parzialmente l’affetto del Sig. Cardinale Mazzarino [...] et essendosi colla sua inarrivabile avvedutezza e disinvoltura cattivato di maniera l’animo del Sig. Cardinale Bichi e di molt’altri ministri di quella Corona nella trattazione ancor fresca della pace») stava recuperando rapidamente un’intesa anche con i Barberini: come si legge sempre nell’Instruzione, «la pratica dell’introdotto aggiustamento, il congresso tenuto dal Sig. Duca col Sig. Card. Antonio, la lettera ultimamente scritta a Sua Eminenza, l’obligo che da quelle parti se ne professa a Sua Altezza, la sincerità usata in dare così minuta informazione dello stato del zio, la speranza di poter anche conchiudere il parentado e il bisogno d’un autorevole appoggio che sostenti e protegga la Casa loro da tanti e così qualificati nemici danno assai certa o ben ponderata speranza d’amorevole disposizione».

[19] BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinale de Medici...”, c. 280v. Sembra che in conclave durante un litigio con il Cardinal Barberini, che lo accusava di ingratitudine, Costaguta rispondesse «publicamente non tenere obligo a nessuno che al suo denaro speso» (ivi, 284r). Petruccelli, III, p. 104, racconta pressappoco lo stesso aneddoto: «-Vous oubliez le chapeau que vous avez reçu de mon oncle - lui reprochait un jour Barberini. - Non - repondit Costaguti - car je me rappelle l’argent que je l’ai payé». BUG, ms. C.I.3, incipit: “Avvisai V.S...”, cc. 127 e 129 sembra confermare: «si dice (salvo il vero) che Costaguto gl’habbi turbati e dicchiaratosi che ‘l suo capello gli vale scudi centomila». Cfr. “Sin da sabbato...”, cc. 171v-172r. In verità, a giudicare dalle lettere di Costaguta ai Barberini dopo la morte di Urbano l’aneddoto parrebbe inventato o almeno largamente gonfiato. Su Ceva, che in realtà restò fedele alla fazione urbana, vedi G. De Caro in DBI.

[20] B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, cc. 259r, 263r, 293, 295v. Nel luglio del 1644, però, ossia negli ultimi giorni di vita di Urbano, una ventina di cardinali “poveri”, recenti creature dei Barberini, erano stati forniti, come ho accennato a suo luogo, di rendite e pensioni.

[21] BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinale de Medici...”, c. 281v. Sui cardinali malcontenti, sui cardinali poveri e in particolare su Teodoli vedi “Quanto importi...” (BAV, Barb.lat. 4669, c. 269r), B. Spada e soprattutto l’istruzione, più volte citata, a Rinaldo d’Este (incipit: “Egli è veramente cosa strana...”): vi si prevedeva qualche defezione tra le creature dei Barberini «avvegnaché in tanto numero alcuni ve ne saranno che pretendendosi o abbandonati o maltrattati da que’ Signori volteranno in là. Alcuni come sudditi si professeranno per debbito di vassallaggio obligati alla Corona [di Spagna] et altri finalmente o vinti dalla necessità o spinti dall’avidità si lascieranno comperar con denari, con badie, con pensioni, con titoli e dignità et altre cose fatte mercedi». L’istruzione giudicava però che a questo inconveniente i Barberini avessero provveduto “mirabilmente”, «faccendo assegnare a nove delle loro creature poco benestanti la parte di cardinal povero in ragione di cento scudi d’oro al mese». In più, osservava, i Barberini erano «così ricchi di contanti, così doviziosi di rendite ecclesiastiche e secolari, così morbidi di argenterie, di gioie, di suppellettili che molto meglio e più facilmente d’ogni altro potranno ingrassar i magri, satollar gl’ingordi, riguadagnar i perduti e tener in fede i vacillanti»: una previsione ragionevole, ma, come si vedrà, smentita dai fatti. L’autore dell’istruzione (che certamente si giovava delle informazioni e dei giudizi di Francesco Mantovani) segnalava tra i malcontenti Pallotta (del quale, scriveva, col Cardinale Barberini «si può dire che i disgusti habbiano di gran lunga superate le soddisfazioni») e Spada («è suggetto di valore ma ha grande opinione di se medesimo. Pretende d’haver ricevuti molti disgusti da’ Barberini» tra l’altro per la brutta parte che gli avevano fatto fare a Castelgiorgio). Tra i cardinali poveri annoverava Gabrielli («malproveduto anzi abbandonato da Barberino [...] lascierassi facilmente comperare da chi vorrà beneficarlo»), Mattei («lasciato in poca comodità») e Rapaccioli («si muore dalla fame, e dalle querele che n’ha fatte n’ha ritratto mortificazioni in vece di rimedio»). A dire il vero non tutti i cardinali “poveri” erano malcontenti: in particolare, come si vedrà, Giori e Rapaccioli, a dispetto di quanto affermato dall’autore dell’istruzione, mostrarono a più riprese di essere contenti e orgogliosi della propria povertà e grati ai Barberini della carriera fatta.

[22] L’agente di Modena, Francesco Mantovani, scriveva di Sacchetti nell’imminenza del conclave: «gode un’aura grande e forse si parla troppo di lui» (Pastor, XIV, I, p. 15 n. 1). Come risultò anche dal conclave del 1655, l’eccesso di prestigio di cui Sacchetti godeva lo favoriva nelle previsioni, ma lo predisponeva alla sconfitta.

[23] Che Panfili fosse filospagnolo era notorio. Braccini nel 1635 lo aveva detto «tutto inchinato alla fazione spagnuola, come è Panzirola suo allievo» (“Il governo ecclesiastico…” BAV, Barb. lat., 4657, c. 122r). L’esclusione di Sacchetti risaliva al Conte Duca, ma era stata confermata ad Albornoz da un dispaccio del governo spagnolo del 13 giugno 1644; quella di Panfili risaliva a Richelieu (B. Spada, BAV, Barb. lat. 4670, cc. 264r, 280) ma era stata confermata nel febbraio del 1644 e ribadita alla morte di Urbano (Coville, pp. 5-6). Secondo de Lugo l’inopportuno entusiasmo dei Francesi per Sacchetti lo aveva seriamente danneggiato (De Lugo, c. 255). Pare però che l’opposizione a Sacchetti venisse, più che dalla Corte di Spagna, dai cardinali spagnoli e in particolare proprio dal Cardinale de Lugo (BAV, Barb. lat. 4669, incipit: “Quanto importi...”, c. 271). Anche B.Spada (BAV, Barb.lat. 4649, cc. 130-136) dice che l’ambasciatore Sirvela, giunto a Roma la vigilia della chiusura del conclave, «mostrò non esser il Re né il Consiglio tanto contro il Cardinal Sacchetti, che non se gli potesse levare l’esclusiva […] essendogli particolarmente trovate false molte cose scritte contro di lui» gettando lo scompiglio tra i cardinali del partito spagnuolo. Particolarmente dura pare sia stata la reazione di Albornoz e quella dell’ambasciatore cesareo, Savelli, che accusava  Sirvela di segrete intese con i Barberini.

[24] Petruccelli, III, p. 101. Si diceva che la vecchiaia o la cattiva salute potessero costituire per un papabile una chance in più e per questo, si legge in BUG, ms. C.I.3, incipit: “Avvisai V.S...”, c. 114, «Panfilio si tiene per sicuro il pontificato e si finge esser gobbo affatto. Ceva crolla più del solito la testa e dà ad intendere ch’è vecchissimo». La questione dell’età fu naturalmente affrontata nella fazione urbana. Su incarico di Francesco, Rapaccioli aveva compilato una «nota dell’età de’ cardinali sue creature che passano li 50». Avendone parlato con Mattei ai primi di agosto, Rapaccioli ne riferiva a Francesco l’opinione: «non bisogna assolutamente lasciarsi imprimere la massima di voler un vecchio, per non haver con essa a sdrucciolar fuori delle creature di Vostra Eminenza» (BAV, Barb. lat. 8745, c. 296r, Rapaccioli a Francesco Barberini, 5 agosto 1649).

[25] BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinale de Medici...” c. 290r. A testimonianza del legame di Sacchetti con i Barberini Pastor, XIV, I, p. 15 ricorda, tra le altre cose, la decorazione della villa di Castel Fusano, dove per l’abbondanza dei riferimenti encomiastici alla famiglia di Urbano «si crede quasi di trovarsi in un possesso dei Barberini». Vedi Fosi, Barberini, specialmente le pp. 139-152, dedicate agli insuccessi di Sacchetti nei conclavi del 1644 e del 1655. In Albornoz si racconta che in conclave circolavano due scritture «molto ben composte», di una delle quali era autore «l’auditore del Cardinal Sacchetti» (credo che la si debba identificare con “È molto facile l’addurre...”) che non si capacitava come «gli Spagnoli potessero escludere il suo Padrone essendo stato già nuntio in Spagna e che portava tanto affetto a quella Corona». Nessuno poteva rimproverare a Sacchetti un qualsiasi atto che contraddicesse questo affetto e «solo una causa potevano gli Spagnoli apporre per escluderlo, qual era l’esser troppo intrinseco di Barberino». Ma questo significava che «gli Spagnoli non volevano altro Pontefice che qualcuno che gli [i Barberini] mortificasse, che fosse loro nemico». Albornoz giudicava queste «parole discomposte», ma è verissimo che il conclave era cominciato e si stava svolgendo nel segno di una scomposta revanche antibarberiniana. L’altra scrittura di cui si parla in Albornoz era il Discorso intorno al futuro Conclave  (incipit: “Facciasi quanto si vuole...”) di cui era autore il Cardinale Spada che trattando dei soggetti «che a suo parere sarebbero stati ottimi per il pontificato [...] lui stesso si poneva il primo, scolpandosi di tutte le oppositioni che gli si davano», particolarmente «che lui havesse molti parenti dicendo esser meno di quello che il volgo diceva e che gli tenesse tutti bassi senza che gli stimasse». Albornoz non coglie di questo singolare manifesto elettorale quello che a me pare il tratto fondamentale, il fatto cioè che lo Spada, creatura dei Barberini e che si sarebbe presentato, sia pure con qualche ambiguità, come loro amico anche negli anni della disgrazia, si proponesse come il candidato antibarberiniano per eccellenza: «per far passaggio ad un Pontificato tutto al rovescio loro», si legge nel Discorso, «non vi sarebbe soggetto più adeguato». L’insofferenza per l’antico governo barberino era dunque una componente importante, quasi ossessiva, nel conclave, presente anche nei membri meno ostili ai Barberini del Collegio cardinalizio. Il Discorso dello Spada ebbe una polemica Risposta (incipit: “Roma che è un ristretto del mondo…”) da parte di mons. Albizzi, che era stato attaccato nel Discorso come uomo di Cesare Monti (lo aveva servito, infatti, come uditore nelle nunziature di Napoli e di Spagna; vedi A. Monticone in DBI). Nella sua relazione del conclave Bernardino Spada parla di sé come di un convinto sostenitore di Panfili e sostiene che, per essere «creatura di grand’autorità e di cui grandemente il Cardinale Antonio si fidava», aveva potuto efficacemente adoperarsi per un accordo tra i fratelli Barberini. La stessa relazione riporta la voce che Spada aspirasse a diventar papa, ma, senza far parola del Discorso, la attribuisce a personaggi «o emoli di Spagna o male informati» (B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, cc. 336r, 359-360). Vedi in appendice Scritture di Conclave

[26] BAV, Barb. lat. 4669, incipit: “Quanto importi...”, c. 288r. Prima ancora dell’inizio del conclave Mattei aveva detto a Rapaccioli che sarebbe stato un errore impegnare la fazione con Sacchetti, che, data l’opposizione degli Spagnoli - e nonostante i suoi molti meriti - non sarebbe riuscito mai (B. Spada, BAV, Barb. lat. 4670, c. 295). BUG, ms. C.I.3, incipit: “Avvisai V.S...”, c. 164: «il Cardinale Mattei è stato l’antesignano dei rubelli che si scoperse contro Sacchetti con grandissimo biasimo di tutta Roma, non perché ogn’uno non desiderasse male al Cardinale Barberino, ma perché si oppose ad un soggetto il più plausibile et il più desiderato da tutti». Sui doppi e tripli giochi di Mattei vedi B.Spada, BAV, Vat. lat. 12187, cc. 144-147.

[27] Petruccelli, III, p. 108. Conclavi 1691, vol. II, p. 431. Eletto Panfili, però, il Cardinale de’ Medici avrebbe voluto che il Papa procedesse sollecitamente a una nuova larga promozione di cardinali proprio «per fare ostacolo, quando venisse il caso, a Sacchetti» (ASVe, DAS, Roma 122, c. 32, Angelo Contarini, 7 gennaio 1645).

[28] A Firenze, in viaggio per Roma al seguito del Cardinale Rinaldo d’Este, Francesco Mantovani aveva avuto occasione di parlare con mons. Bonvisi, e dai discorsi fatti aveva tratto la convinzione che «la maggior premura del Gran Duca per l’esaltazione al Pontificato consiste nel Card. Pamfilio, ove qui s’è posto il chiodo» (ASM, CA, Roma 247, fasc. Giminiano Poggi, 1° agosto 1644).

[29] B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, cc. 301-305. All’inizio del conclave le due fazioni si erano accordate per non trattare «con efficacia di far Papa» nei primi cinque giorni, il che per i Barberini doveva significare che nessuna esclusione sarebbe stata resa pubblica. Era un modo di non pregiudicare, con la pubblicazione dell’esclusione di Sacchetti, la candidatura Panfili (De Lugo, c. 255). Ma Albornoz o non capì o fece finta di non capire che Francesco era davvero «intento e fermo nel Cardinale Panfilio» e con la scusa che l’accordo riguardava l’inclusiva (il “far Papa”) e non l’esclusiva ruppe la tregua. È possibile, come sostiene Bernardino Spada, che Albornoz puntasse sull’elezione di Altieri o di Cennini (B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, cc. 293, 317-318).

[30] Furono comunque i cardinali romani, alleati degli spagnoli e guidati da Mattei, a pronunciarsi per primi contro Sacchetti e a rendere di dominio pubblico l’esclusione di Panfili da parte della Francia (Petruccelli, III, p. 106; cfr. Rapaccioli e Della Torre, Fuga p. 54 che lo riprende). B.Spada conferma che il governo spagnolo era tutt’altro che entusiasta della candidatura Panfili, anche perché, morto Richelieu, che era stato il primo autore della sua esclusione, i Medici da un lato e Antonio Barberini dall’altro avevano cercato di riaccreditarlo a Parigi come amico della Francia, né si sapeva quale esito avessero avuto i loro interventi. In realtà la mossa di Antonio in favore di Pamphili era servita soltanto a far nascere dei dubbi sulla sua affidabilità quale autorevole riferimento della Francia a Roma e il governo francese gli aveva chiesto di licenziare il segretario a cui diplomaticamente era stata attribuita la paternità dell’iniziativa. Antonio, con uno dei suoi consueti scatti di fierezza, aveva risposto «che egli era per conservare la sua libertà con la quale servirebbe con più decoro a S. M. e che in ciò non conosceva d’haver bisogno né di precetti, né d’ammaestramenti altrui». Antonio si sarebbe comunque acconciato alla conferma dell’esclusione se Francesco non gli avesse raccomandato per mezzo di Rapaccioli  di «non far perdita così facilmente del Cardinale Panfilio, potendo presentarsi congiuntura di cose tali che gli bisognasse eleggerlo Papa» (B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, cc. 264r, 309-310).

[31] Pastor, XIV, I, pp. 17-18. Cfr. BAV, Ott. lat. 2434, Conclave fatto nella sede vacante d’Urbano VII (incipit: “Molti e vari…”) c. 129. La tesi del Magnoni era che fra le molte qualità di un Pontefice la più importante fosse appunto «che sii grato e confidente di tutti i Principi Christiani». Pare che sia stato il Card. Mattei a convincere il Magnoni a pronunciarsi a favore della pratica dell’esclusione, dopo di che «tutti della fattione di Spagna gli usarono infinite cortesie» (Racconto del successo intorno la scrittura fatta da P. Valentino Magnoni S.I. confessore del conclave, incipit: “Il Signor Cardinale Matthei…”; pubblicato in Wahrmund 1890, pp. 8; non ve ne è traccia nel Sommervogel). Oltre al parere del Magnoni Wahrmund pubblica diverse altre scritture sullo stesso argomento redatte in occasione di successivi conclavi, tra cui il Discorso sopra il modo di creare il Sommo Pontefice di Francesco Albizzi; la Scrittura responsiva a quella che camina sotto nome del Card. Albizzi se sia lecito al prencipe laico escludere un cardinale dal Pontificato; la Risposta al [...] discorso [dell’Albizzi] sopra l’esclusiva che danno i Re ai cardinali ecc. Cfr. Wahrmund 1888 e 1892 e Eisler). Sull’Albizzi e il suo ruolo nei conclavi del 1644 e, soprattutto, del 1655 vedi Ceyssens pp. 103 sgg.

[32] BAV, Ott. lat. 2434,  incipit: “Di niun huomo…”, c. 172v e BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinale de Medici...”, c. 287r. Cfr. “Quanto importi...”, BAV, Barb. lat. 4669, cc. 271 sgg; B. Spada, BAV, Barb. lat. 4670, c. 340; BUG, ms. C.I.3, incipit: “Avvisai V.S...” c.171; “L’anno del Signore 1644...” c. 209v. «Dalla gran gente quale era per le strade dalla Chiesa di San Pietro alla casa di Sacchetti non si poteva in maniera veruna passare se non con molta difficultà et a casa di Sacchetti havevano posto un buon numero di sbirri per diffesa di essa e davano da bere a tutti per allegrezza» (“Molti e vari…”, BAV, Ott. lat. 2434, cc. 134v-135r).

[33] “Quanto importi...”, BAV, Barb. lat. 4669, cc. 272 sgg. Pastor, XIV, I, p. 18. Su Sirvela ricorda però quanto si è detto circa la sua contrarietà all’esclusione di Sacchetti. Cesi nel 1653 fu attaccato violentemente dall’ambasciatore di Francia Henri de Valençay (“Roma che ne’ tempi passati fu Regina...”) per l’ingratitudine mostrata nei confronti dei Barberini durante (e dopo) il conclave e replicò con la nota lettera a Luis de Haro  (“L’ambasciatore di Francia partito ultimamente...”). Su Cesi  vedi Marco Palma in DBI. 

[34] “Quanto importi...”, BAV, Barb. lat. 4669, cc. 270-271. Lo sfaldamento della fazione barberina è bene riflesso dai dispacci che il conclavista di Rinaldo d’Este faceva uscire dal conclave per il Duca di Modena (ASM, CA, Roma 247, fasc. Giminiano Poggi agosto-novembre 1644). Il 13 di agosto: «In fretta. Sono cinque giorni che siamo in conclave. I Barberini s’aviluppano, la loro fazione è divisa, disgustano le loro creature colle diffidenze [...]. Sacchetti non sarà Papa perché i Barberini non hanno saputo negoziare...». Il 21: «I Barberini più che mai superbi [...]. Hanno opinione d’essere tuttavia padroni assoluti e di poter al loro modo creare il Papa [...]. Hanno per massima che il beneficio del tempo non possa se non facilitarli i loro disegni e non s’accorgono che vanno perdendo delle creature...»

[35] BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinal de Medici…”, c. 289r.

[36] Petruccelli, III, p. 107. BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinale de Medici...”, c. 289r. Che i Barberini potessero arrivare disuniti al conclave era previsione diffusa. Un Giuditio sopra li soggetti papabili in tempo di N.S. Urbano VIII (BAV, Barb. lat. 4696, cc. 215-224, incipit: “Temeraria e malagevole impresa...”) rilevando le troppe divergenze esistenti tra i due fratelli cardinali - tutto francese Antonio, incline alla Spagna Francesco, generoso e imprudente l’uno, diffidente, incerto e tortuoso l’altro, - concludeva che solo la paura di favorire l’elezione di un comune nemico li avrebbe tenuti assieme in Conclave. In un altro pronostico di Conclave si legge: «si vedranno in conclave li dui fratelli Barberini inimici e ben che per verità siano di genio assi differenti e di spiriti contrarii, non mancaranno però nel ristretto d’andare uniti al mantenimento della loro Casa» (“È materia troppo ventilata...”, BAV, Vat. Lat. 7098, c. 301r).

[37] Nani, IX, pp. 10-11. Sembra che Malatesta Albani nella sua missione in Francia avesse avvertito lo stesso Mazzarino della propensione di Francesco per Panfili «e tutto egli, tornato da Parigi affermò a noi»: B.Spada,Vat. lat. 12187, c. 100v. Francesco aveva proposto subito ad Albornoz la candidatura Panfili, ma Albornoz, forse temendo una manovra, aveva preteso l’esplicito assenso di Antonio, che, naturalmente, non poteva e non voleva darlo in quella forma. A de Lugo, che lo sconsigliava di insistere su Sacchetti «perché sarebbe fare una rottura con Spagnuoli senza frutto perché non poteva riuscire», Francesco aveva confidato già il 30 agosto che «personalmente desiderava più che niun altro» Panfili e de Lugo si era affrettato a riferire la cosa ad Albornoz. «Sarebbe la maggior grazia che mai fosse venuta a Spagnuoli in conclave», pare avesse commentato Albornoz. De Lugo, incoraggiato dalle favorevoli disposizioni dei capi delle due fazioni opposte, prese a lavorare alacremente a un’intesa. Le diffidenze reciproche bloccarono per il momento le trattative: Antonio per concorrere all’elezione di Panfili chiedeva che da parte spagnola fosse ritirata l’esclusione pronunciata contro Sacchetti, condizione a cui forse si sarebbe acconciato Albornoz, se il timore di cadere in una trappola non lo avesse trattenuto. Il Cardinale Barberini, scrisse poi de Lugo, credeva che gli Spagnoli avessero «la mira a far uno che non fosse creatura sua», gli Spagnoli temevano viceversa «che ancora li Barberini vole[ssero] spuntare Sacchetti». Quanto a de Lugo «sapeva certissimo esser falso l’uno e l’altro e procurava assicurare tutti due in tutte le occasioni» (De Lugo, cc. 255-256).

[38] Prima del conclave nessuna indiscrezione era filtrata circa le intenzioni dei Barberini, ma Francesco, a detta di Rapaccioli, mentre non aveva mai parlato con Sacchetti di una sua possibile elezione, lo aveva fatto (e quando era ancora vivo Urbano) con Panfili: Rapaccioli, BAV, Vat. lat. 13418, p. 2. Cfr. Della Torre, Fuga, p. 52 (che però dipende dallo stesso Rapaccioli).

[39] Ameyden, Innocenzo, (che si basa sulle confidenze dei Cardinali Rocci e Spada) conferma che, dopo la morte del Cardinale Bagni, il solo vero candidato di Francesco era stato Pamphili, sulla base della promessa di un solido (e forse duplice) legame matrimoniale tra le due famiglie. «Se Dio Ott. Max. havesse mandato un angelo a Barberino», scrive Ameyden, «con commandarli che altro che il Panfilio havesse eletto al Papato, non l’haverebbe obedito […]. Né si dica che con Francesco concorsero Antonio, li Spagnoli e la fattion de Romani, perché tutto questo concorso fu veramente tutta machina di Barberino che condusse tutti a quello che egli voleva» (BCR, ms. 1846, cc. 401v, 403); «magna», invero, «simulationis arte» (BCR, ms. 1336, c. 778r), visto che Panfili era inviso praticamente a tutti. Anche Fontenay,  II, p. 311 dice esplicitamente che Sacchetti sarebbe stato eletto se Barberino l’avesse voluto. Con lui (e con Ameyden) concordano Cesare Magalotti, («nel passato conclave l’istesso Barberino non ostante c’havesse stabilita nell’animo suo l’esaltazione di Panfilio, si prese gusto di riempir la scena con la persona di Sacchetti e li Spagnoli credendo che Barberino dicesse da vero contro ogni ragione l’esclusero […] Non havea Barberino motivo veruno di burlar in quella maniera Sacchetti»: Osservazioni sopra la futura elezione del Sommo Pontefice, incipit: “Quanto a gli huomini…”, BAV, Chig. C.III.60, c. 37) e l'autore di “Non era se non cosa…” che, a proposito della candidatura Sacchetti, accusa Barberino «di haverne fatto alla palla» (BAV, Barb.lat. 4695, c. 270v e BAV, Barb.lat. 5681, c. 119); per entrambi vedi nell'appendice Scritture di Conclave le note dedicate a Magalotti. Secondo “Il Signor Cardinal de Medici…” (BAV, Barb. lat. 4669, c.289r) la sconfitta di Sacchetti sarebbe stata invece determinata proprio dagli errori del capofazione. Difende Barberino dall’accusa di mala fede, ma non da quella di imperizia l’autore di “Niuna cosa è più importante…”, BAV, Barb. lat. 4681, c. 262r: «Fu anco notato Barberino il quale con tanta celerità e vehemenza all’hora contro tutte le buone regole praticate ne conclavi portò questo soggetto che a qualche d’uno fece credere che la sua mira veramente non fusse che al Cardinal Pamfilio, ma la verità è che nel Cardinal Barberino non fu difetto per volontà ma per troppa confidenza di sé medesima». La stessa tesi negli Aforismi politici del Cardinal Azzolini (pubblicati in Leti 1668, ma faccio riferimento alle copie ms. in BAV, Barb. lat. 4679, cc. 58-63 e 64-77, incipit: “È si grande il credito…”; per questo testo e i suoi numerosi mss. vedi Signorotto, pp. 129-133). Imperizia, dunque, o mala fede, quella di Barberino nell’avanzare la candidatura Sacchetti? «Non si è trovato ancora una sfinge che habbia saputo discifrare questa cabala» si legge in “Giustamente si duole…”, BAV, Barb. lat. 4675, c. 174r. Cerca di scagionarlo da entrambe le accuse Rapaccioli (cito da ASV, Fondo Bolognetti 21, cc. 261-264; vedi in appendice Scritture di Conclave). In conclave, racconta, erano numerosi i cardinali che si dichiaravano partigiani di Sacchetti e che volevano andare alla conta. Naturalmente «il Cardinal Barberino diffidava di molti, li più pronti e disposti, perché la Bolla [di Gregorio XV, ossia le norme che garantivano la segretezza del voto] portava adito alli Cardinali di far mostra di fede e di gratitudine nel di fuori, ma di dentro d’attender solo al proprio interesse rispetto alli politici, et alla propria coscienza rispetto alli zelanti». Ma alla fine si era deciso a rischiare la candidatura Sacchetti  «considerando tra l’altre cose che riuscendo per avventura bene ne resultava alla sua fattione gloria e non riuscendo haverebbe più liberamente potuto disporsi degli amici di Sacchetti». «Fino 46 Cardinali promessero gran cose e se 38 dei 46 corrispondevano aggiustatamente Sacchetti era Papa» (ASV, Fondo Bolognetti 21, c. 261r). Il giorno delle votazioni, secondo Rapaccioli, Francesco che «sapeva doversi temere della fede di molti che non averebbero poi fatto quel che dicevano», aveva destinato allo scrutinio i diciannove cardinali di cui meno si fidava, riservandosi di portare all'accesso i ventisette più sicuri (un accorgimento reputato prudente e già adottato dai grandi elettori di Urbano VIII: Conclave nel quale fu creato Urbano 8° li 6 agosto 1623, incipit: “La fortuna in ogni tempo…”). In più, per controllare il voto dei cardinali, aveva mescolato opportunamente nello scrutinio voti sicuri e voti dubbi, ma l’espediente non riuscì. Per un risultato utile Sacchetti avrebbe dovuto raccogliere nello scrutinio almeno undici voti. Averne raccolti appena cinque era una débâcle di proporzioni imprevedibili: tre cardinali su quattro avevano tradito la promessa fatta. Il dubbio sulla buona fede di Barberino tuttavia resta: se, come pare, il suo unico e vero candidato era Pamfili, l’aver arrischiato la candidatura Sacchetti sarebbe l’esatta applicazione degli ammaestramenti del Lottini: «Far prova d’eleggere nel principio del conclave alcuno de suoi cardinali papabili con tutto che non sia per seguitarne l’effetto non è male» (Lottini, p.505, ma cfr. la copia ms. in BAV, Barb. lat. 4679, c.127r rubrica a margine: «Saggio avedimento di capi di fattione è il procurar subito nell’ingresso del Conclave di proponere alcuno della sua fattione perché s’acquista l’obligo di quello et il seguito degl’altri e scopre paese con poco pericolo»). Sta di fatto che tanto Panfili quanto Sacchetti avevano chiesto a Barberino di non essere cimentati per il momento: Barberino aveva accontentano il primo e sacrificato il secondo. Resta da dire che, se gioco è stato, Barberino e lo Squadrone volante (di cui Barberino era alleato) lo hanno ripetuto con Sacchetti in modi assai simili nel conclave del ’55: con scarsa fantasia, dunque, ma anche con poca spesa, trattandosi di una candidato bruciato in partenza in forza del principio semel exclusus semper exclusus. Cfr. la Relatione di tutto il trattato e negotiato fatto per l’assontione di Sacchetti al Pontificato (incipit: “Domenica 28 d’agosto…”).

[40] BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinale de Medici...”, c. 292r. Come avrebbe detto Contarini nella sua relazione, «tre cose l’havevano fatto Papa: il parlar poco, il simular assai e il far niente» (Barozzi Berchet, Roma, pp. 68-69); ma su Contarini «discepolo docile» del solito Sarpi vedi Pastor, XIII, 1055-1059.

[41] BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinale de Medici...”, c. 292r; l’autore aggiungeva però che non c’era da fidarsi delle profferte di Panfili, perché egli stava trattando in contemporanea con altre case principesche e una volta diventato Papa avrebbe sicuramente scelto queste altre, non i Barberini. Gli stessi sospetti nutrivano l’ambasciatore Saint Chamond e Vincenzo Martinozzi: «il principale avvantaggio ch’ella trovi in questo affare», scriveva il primo ad Antonio, «è fondato sopra un matrimonio sì dubbioso [...]. Il signor Martinozzi e me siamo stati questa mattina tre hore insieme a parlare di Pamphilio, ma dopo haver ben pesato et esaminato tutte le ragioni e considerationi che vi si possono apportare io non trovo di protettione per la vostra Casa, solida, che quella del Re» (Siri, Mercurio, IV, 1655, II, pp. 651-652). Il Cardinale Ceva, filospagnolo ma creatura dei Barberini, aveva scongiurato sino all’ultimo Antonio di non cooperare alla riuscita di Panfili ricordandogli l’odio da questi nutrito per la Casa e la probabilità che, una volta eletto, concorresse alla sua rovina. Ma Ceva, teoricamente un papabile, parlava anche pro domo sua e Francesco era convinto «che in Panfilio tornato sarebbe a vivere Urbano». Quanto ad Antonio riteneva assicurazione sufficiente contro la prevedibile ingratitudine di Panfili il possesso della documentazione che in caso di bisogno avrebbe potuto dimostrare il carattere simoniaco dell’elezione del Papa (B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, cc. 351v, 360v). Alle speranze deluse dei Barberini irrideva l’autore della Malconsigliata: i Barberini, scriveva, pensavano di potersi assicurare «il commando hereditario [...]. Volevano Innocenzo in un gabbinetto racchiuso, dal loro puro arbitrio dependente» (BAV, Vat. lat. 7098, c. 284). Sulla mediazione dell’oratoriano Padre Giustiniani, confessore di Anna Colonna e Olimpia Panfili, vedi Petruccelli, III, p. 127. Secondo Bernardino Spada, BAV, Barb. lat. 4670, c. 310-311, confermato da Paolo Aringhi, Vita del P.Giuliano Giustiniani (BVR ms. O.59, c. 186r-v) era stato Francesco a mandare, ancor prima del conclave, il Padre Giustiniani, «in cui molto si confidava», da Panfili per assicurarlo della buona disposizione sua e di Antonio nei confronti della sua candidatura.

[42] Marchesan, p. 24.

[43] Proprio per questo, secondo l’Aviso per li ministri del Re Cattolico, i nemici dei Barberini e i partigiani di Spagna avrebbero dovuto stare molto attenti a che «non succeda né s’impegni parentado tra il futuro pontefice et li Barbarini, essendo questo l’ancora su la quale si promettono a prodare la nave dell’infiniti loro mancamenti, come all’incontro sarebbe l’unico abbassamento della monarchia spagnola [...]. Tutto il sforzo doverà indirizzarsi per lasciare li Barbarini senza parentado pontificio e in ciò si dilongharà il mio discorso come essentiale e profittevole» (“È materia troppo ventilata...”, BAV, Vat. lat. 7098, c. 296r). La scrittura, che sembra riflettere il punto di vista dei Medici, era tutta a favore della candidatura Panfili (purché, si capisce, non stringesse accordi matrimoniali con i Barberini) e già preannunciava, per quel che riguardava i legami matrimoniali del futuro pontefice, la soluzione Ludovisi: «dandosi una sua nepote al principe Ludovisio l’impegnarà ad esser sempre spagnolo» (ivi, c. 305). La politica matrimoniale è una delle chiavi per interpretare gli eventi del conclave e non solo per quello che riguarda le scelte dei Barberini. L’Instruzione al Sig. Cardinale d’Este (incipit: “Egli è veramente cosa strana...”) era tutta costruita sulla matrimoniabilità dei nipoti dell’eligendo. L’obbiettivo era di conciliare il servizio di Dio e il beneficio della Chiesa con l’interesse della Casa d’Este (che «altro non è che il venire o in tutto o in parte una volta a capo delle sue pretensioni»): egli doveva dunque puntare su un candidato che avesse una famiglia da benificare e con la quale fosse possibile stabilire una solida alleanza. Il candidato di Rinaldo doveva essere uomo di temperamento (altrimenti non sarebbe stato in grado di superare le molte resistenze che le rivendicazioni della Casa d’Este avrebbero incontrato in Curia e altrove), non troppo giovane (i giovani «presumono che non sia mai per mancar occasione di migliorare le cose loro», mentre le aspirazioni della Casa d’Este potevano o trovare soddisfazione in tempi brevi o non trovarla affatto), ma neppure troppo vecchio («e che gioverebbe il fare un parentado o il contraere un’amicizia stretta quando per mancanza di tempo non se ne potesse godere il frutto?»), non legato ad altri potentati italiani («che potesse preferire la parentela di quello al matrimonio che se gli offerisse da questa parte. E sovvenga a V.A. che il Sig. Duca di Parma tien’ancor egli e figlie e sorelle da maritare e che ha grand’interessi, benché differenti, colla Chiesa»). Bisognava soprattutto che fosse fornito di nipoti sufficientemente ambiziosi: «Il Cardinal Ludovisio se fosse vivo sarebbe fatto a pennello per lo caso nostro: voleva diventar grande ma haveva animo grande. Per lo contrario il Cardinal Barberino» era un pessimo esempio: «in tant’anni di pontificato non ha saputo con tutte le sue fortune esser mai se non piccolo. Rifletta V.A. alla congiuntura del Ducato d’Urbino e ne cavi la conseguenza». Se si bada al peso determinante che nel conclave avevano le differenti possibili combinazioni matrimoniali studiate per i nipoti dei papabili, ognuna delle quali, naturalmente, configurava una diversa aggregazione di potere, appare meno singolare il fatto che i capi delle fazioni contrapposte, Carlo de’ Medici e Francesco Barberini, nemici irriducibili, sostenessero lo stesso candidato e che, essendo probabilmente fin dall’inizio del conclave tutti d’accordo (Cardinale Antonio compreso, come si dirà) sulla persona del nuovo papa, il conclave stesso durasse così a lungo: il problema vero era individuare i matrimoni giusti e renderli poi, per quanto possibile, ineludibili. In che modo? «Col far gl’interessi comuni», ebbe a rispondere Mario Calcagnini al Cardinal Barberini, che, nel luglio 1644, al momento di accordarsi con la Casa d’Este pretendeva chissà quali altre garanzie. In effetti nell’impossibilità di formalizzare e rendere pubbliche le intese per l’elezione del Papa, ogni negoziato restava esposto ai raggiri e alla malafede delle parti, come ebbero a sperimentare nel modo più crudo proprio i Barberini con Pamphili. Ma le trattative tra Barberini ed Este (con Rinaldo nella parte del gabbato, almeno nelle intenzioni dei Barberini) ne sono un altro buon esempio (vedi le citate corrispondenze di Mario Calcagnini e Giminiano Poggi prima, durante e dopo il conclave in ASM, CA, Roma 247 e Bologna 9). Sul ruolo delle alleanze matrimoniali nei conclavi vedi Fosi-Visceglia.

[44] Pecchiai, Barberini, p. 180. A proposito di Pamphili nell’istruzione per il Cardinale d’Este citata nella nota precedente si legge: «Si mormora che in caso della sua esaltazione, Barberino ci habbia tirato lo squadro per una figlia di Don Taddeo» e cioè per Lucrezia, che avrebbe dovuto sposare Camillo. Anzi destinando Costanza Pamphili a Carlo figlio di Taddeo Barberini, avrebbe potuto uscirne un doppio legame matrimoniale. Era una eventualità da scongiurare, perché avrebbe tagliato fuori la Casa d’Este. Si sarebbe dovuto puntare, invece, a una soluzione a tre, quale era stata prevista nei pourparler con i Barberini. Taddeo nel suo memorandum riferiva della profferta di doppio legame avanzata a nome di Panfili dal marchese Paolo del Bufalo. Trovava però il progetto incerto (già si diceva che Camillo aspirasse più che ad accasarsi, a diventar cardinale) e soprattutto poco conveniente: mentre la dote di Lucrezia sarebbe stata, per forza di cose, molto elevata, quella di Costanza non poteva che essere modesta. Tra i papabili a Gio Domenico Spinola erano comunemente attribuite buone possibilità di successo. «Per esser di poca letteratura», si legge in “Avanti questo conclave...” (BAV, Chig.I.III.87 cc. 182-188), «si agiuta grandemente a far la scimia con i Barberini». Un Pronostico del conclave degli inizi del 1644, forse di Cesare Magalotti (incipit: “Io voglio pur credere...”; Conclavi 1691, p. 326-328; vedi l'appendice Scritture di Conclave), indicava però nell’essere genovese «il più gagliardo ostacolo che sia per incontrare nel conclave» lo Spinola, «che per altro non ha intoppo di consideratione». Riprendendo un diffuso pregiudizio sulla faziosità genovese prevedeva infatti che la sua candidatura avrebbe avuto «contrari li cardinali compatriotti che per esser tutti del corpo della nobiltà nuova non vorranno maggior essaltatione nella fattione degl’emoli». D’altra parte, continuava, il Cardinale Barberini «considerando tutte l’altre città o nemiche o poco sicure stima che Genova libera e forte li sarebbe ritirata sicura [...] e perciò applica ad obbligarsi quella natione e quella Republica, la quale sola, fra tutti li potentati d’Italia, ha pur dato a’ Barberini in queste sue calamità qualche segno di partialità [...]. Converrà dunque Barberino in Santa Cecilia se però non l’atterrisce la spiritosa e bizzarra natura dell’abbate Gio Battista che fra le falangi di tant’altri nepoti è stato eletto dal cardinale per il più caro o per genio o per capacità. È giovane letterato, generoso e perspicacissimo e nel poco tempo che è stato in Roma ha la Corte riconosciuto in questo soggetto un ritratto del Cardinal Lodovisio»: il soggetto ideale, parrebbe, per i progetti di Casa d’Este. Che l’essere genovese potesse risultare di danno alla Spinola è confermato da un’altra scrittura (“È materia troppo ventilata...”, BAV, Vat. lat. 7098, c. 305v) ma per ragioni assai diverse: «al nome genovese si congiunse il cattivo governo di mons. Raggio, Thesoriere di Santa Chiesa, il quale con il titolo specioso di trovar danari per compir alli bisogni della guerra ha desertato la Camera con l’usure et aumentato il mal concetto alla natione con li consigli di tante impositioni e gabelle». L’istruzione a Rinaldo d’Este conferma la fama di scarsa cultura dello Spinola (Paolo V, ricordava, «non volle mai portarlo al cardinalato allegando che non conveniva vestir di porpora un bue») senza però negargli altre qualità: «egli è [...] flessibile e maneggiabile contra il consueto degli ignoranti»; quanto all’abate Gio Battista  «supplirebbe coll’eminenza de’ suoi talenti alla debolezza e poca abilità del zio». Su Gio Domenico Spinola vedi Moroni e la voce di Pio Paschini in Enciclopedia Cattolica. Quanto a Rocci, che era imparentato con Bernardino Spada (un nipote del quale aveva sposato la figlia di sua sorella), se eletto, si legge nell’istruzione a Rinaldo, «sarebbe il pontefice, ma Spada il governante».

[45] Albornoz, c. 181; B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, cc. 328, 343-344; De Lugo, cc.255v, 259r; Della Torre Fuga, pp. 58-61; Petruccelli, III, p. 106; Pastor, XIV, I, p. 18. Virgilio Spada  attribuiva la conversione di Antonio alla candidatura Pamphili all’azione di persuasione svolta nei suoi confronti dal Cardinale Bernardino e a riprova portava la minuta di suo pugno del documento-chiave di tutta la vicenda, la lettera inviata da Antonio a Saint Chamond il 26 agosto (V.Spada, XXX, 17).

[46] La corrispondenza intercorsa tra Antonio Barberini e Saint Chamond nel corso del conclave è pubblicata in Siri, Mercurio, IV, 1655, II, pp. 632 sgg. Del carteggio si era già avuta ampia notizia quando, di fronte alla violenta reazione di Mazzarino all’elezione di Panfili, Antonio Barberini e l’ambasciatore avevano cercato di scaricarsi a vicenda le responsabilità di quanto era avvenuto.

[47] Chinazzi, p. 43.

[48] Era l’argomento con cui de Lugo aveva cercato di convincere un forse già convinto Antonio ad abbracciare la candidatura Panfili: «haveva occasione ottima di farsi il Papa di mano sua et obligarlo a sé, sapendo tutti che Pamfilio per lui solo non era Papa e che da lui solo riceveva il Papato se si faceva» (De Lugo, c. 255v). Ameyden, Innocenzo, attribuisce più o meno le stesse parole a Panciroli (BCR, ms. 1336, c. 778v. L’episodio ritorna nella vita di Panciroli, nello stesso codice a cc. 745 sgg) e Virgilio Spada  al fratello Bernardino (V.Spada, XXX, 14).

[49] Si trattava, a quanto pare, di «dolori e convulsione di stomaco», un disturbo di cui Francesco ebbe a soffrire un nuovo accesso una settimana dopo la fine del conclave (ASVe, DAS, Roma 121, c. 77v, Cornaro e Bragadino, 24 settembre 1644). Albornoz attribuisce i dolori di Francesco al risultato dello scrutinio in cui Cennini, considerato nemico di Antonio, raccolse inopinatamente un gran numero di consensi, il che era sicura conferma dello sgretolamento progressivo a cui era soggetta la fazione urbana: Albornoz  c. 179. Su Cennini vedi G. De Caro in DBI. Secondo de Lugo Francesco «pigliò quest’occasione [dell’indisposizione] per far capo [della fazione barberina] in luogo suo Antonio, perché così con maggior riputazione sua potrebbe trattare di Panfilio e questo gli resterebbe più obligato». In effetti, mentre Antonio portava avanti, con scarsa convinzione (ma riuscendo a creare qualche scompiglio sia nella fazione spagnola sia in quella francese, che su questo mostravano di potersi spaccare), la candidatura Maculano, Francesco Barberini e de Lugo badavano a raccogliere i voti necessari a Panfili (De Lugo, c. 256v). Rapaccioli sembra voler accreditare la tesi della malattia diplomatica. Francesco, sottolinea Rapaccioli, aveva accusato il male in un momento in cui, per le crescenti pretese di Saint Chamond, i negoziati erano stati interrotti e la pratica di Panfili sembrava finita in un vicolo cieco: la malattia e il cambio nella guida della fazione urbana permetteva di ricominciare tutto da capo, senza sacrificare  quel che già si era stabilito. La malattia era necessaria: che Antonio subentrasse nella guida della fazione, passaggio fondamentale di tutta la manovra, «non poteva Barberino concedere con riputatione essendo sano». Infine la malattia non impedì a Francesco di continuare a controllare e dirigere tutte le azioni del fratello (Rapaccioli, ASV, Fondo Bolognetti 21, c. 270; BNR, FVE, 984, c. 139). Giminiano Poggi aveva avvertito la svolta che stava per prodursi in conclave tra il 7 e l’8 settembre: «Questa notte passata sono andato attorno e ho havuto de contrasegni grandi che Barberino voglia promover la pratica di Pamphilio e questa mattina me ne sono accertato perché ho inteso per sicuro che Barberino ha tirato nel suo parere Antonio» (ASM, CA, Roma 247, fasc. Giminiano Poggi agosto-novembre 1644). Un avviso dal conclave del 10 settembre che dava come imminente l’elezione del nuovo pontefice, conferma la data dell’8 settembre come momento della svolta, contrassegnata dalla presunta malattia di Francesco e dal passaggio delle consegne ad Antonio: «Il Cardinale Francesco trovandosi a letto con l’uscita et inappetenza et di più reiterati accidenti che tal volta hanno messo in dubbio la di lui salute [...], giovedì [ossia l’8 settembre] doppo pranzo si dichiarò con Antonio che si lavava le mani del maneggio dell’elezione del futuro Papa et lasciava a lui tutte l’incumbenze. [...] Il medesimo li replicò hiermattina venerdì con tutto che si ritrovasse in qualche miglioramento essendo nel rimanente ostinato di non voler sì facilmente uscire, ma più tosto rendere lo spirito in conclave». Antonio aveva messo subito in circolazione la voce che se non fosse riuscito Maculano sarebbe stato costretto «per non morir tutti in conclave» a formulare una ristretta rosa di candidati da cui si sarebbe dovuto poi eleggere il Papa. Inutile dire che tale procedura era «tanto desiata dalli Spagnoli» perché, aggiungendo i propri voti a quelli della fazione urbana, sarebbero stati in effetti i soli a scegliere il Papa. Della rosa avrebbe fatto parte, con Rocci, Santa Cecilia e San Clemente, GB Pamfili (BAV, Vat. lat. 13456, Discorso uscito di Conclave, incipit: “Essendosi finalmente...”, c. 47v).

[50] Non era di questo avviso il Cardinal Cornaro, secondo il quale «nelli trentotto giorni che è durato il conclave si è conosciuto chiaramente che li Signori Cardinali Barberini haveriano voluto Papa principalmente il Signor Cardinal Sacchetti e però non si è atteso la maggior parte del tempo che si siamo stati dentro che a procurare di superare la contrarietà et esclusione aperta che sin dal primo giorno che vi si entrò gli facevano gli Spagnoli, né mai si è da detti Signori Barberini applicato veramente l’animo ad altro soggetto sin che la lunghezza del tempo non ha portato delle malattie gravi etiam nella persona del medesimo Cardinal Barberino e non ha mostrato per pericoloso il persistere col voler solamente Sacchetti, che le creature medesime più affettionate, stancate dall’incomodo di tanta lunghezza dannosa del conclave venissero a risolutione di far papa qualche vecchio non creatura, come ne diedero segno una mattina che il Signor Cardinal di S. Marcello improvvisamente senza pratica alcuna arrivò a venticinque voti» (ASVe, DAS, Roma 121, c. 66). Sarebbe stata insomma la paura dei malanni a cui i cardinali erano esposti per il prolungarsi del soggiorno in un luogo malsano come il Vaticano a sbloccare la situazione e a determinare l’insperata conversione di Antonio alla candidatura Panfili. La tesi non dispiaceva al nuovo Papa, perché alleggeriva sensibilmente il debito di riconoscenza contratto con i Barberini e conferiva un che di provvidenziale a tutta la vicenda. Ricevendo in udienza lo stesso Cornaro, Innocenzo «entrò a discorrere delle cose successe intorno la sua elettione mostrando che tutto era stato sola opera di Dio benedetto e concludendo che in tutte le cose, ma in quella particolarmente della elettione del suo Vicario ha la principal sua parte e che muta le direttioni et i pensieri de gl’huomini in un subito, quando manco se l’aspettano» (ivi, c. 73, 24 settembre 1644). Anche il Cardinale Harrach, austriaco, considerava il successo di Panfili (per opera o a dispetto di Antonio) una sorta di miracolo: Pastor, XIV, I, p. 20. La stessa tesi in Brusoni 1664 p. 31: «ammirossi dal mondo l’influsso potentissimo del celeste concorso, mentre l’apparecchio delle seconde cause era in tutto alieno e ripugnante all’effetto che ne risultò».

[51] Il nome di Vincenzo Martinozzi ricorre più volte nella corrispondenza tra Antonio e Saint Chamond  (Siri, Mercurio, IV, 1655, II, pp. 632 sgg) e il suo ruolo nelle trattative è ricordato tra gli altri da B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, c. 320 e da Rapaccioli, BNR, FVE, 984, c. 128.  Cfr. Brusoni 1661, pp. 428-429, che però confonde Fontenay con Saint Chamond (e l’errore si ripete in Brusoni 1664, p. 31): Brusoni riconosceva nella nota al lettore premessa alle Historie di aver commesso nelle sue opere precedenti «moltissimi errori» e contava con la nuova opera di correggerli, ma la precisione non era il suo forte (Bertelli, pp. 213 sgg).

[52] A Parigi si faceva gran conto sulla confluenza della fazione urbana, guidata da Francesco Barberini, con la francese, guidata dal Cardinal Antonio e da Bichi. Di tale confluenza, come ho avuto modo di dire, si era parlato nel corso dei negoziati di Malatesta Albani a Parigi e si sarebbe dovuto parlare nella prevista missione a Roma di Grémonville, ma la morte di Urbano aveva lasciato ogni cosa in sospeso. Sul finire di agosto si ricevevano da Roma notizie confortanti: «li ministri francesi scrivono restar assai contenti de’ Barberini, li quali non potendo fidarsi de’ Spagnoli da loro offesi altamente et essacerbati dal Card. Montalto et altri di quella fattione per l’oppositioni aperte che hanno contraposto a loro interessi, si spera restino astretti a sinceramente legarsi alla protettione e servitio di questa Corona». Ma già una settimana più tardi Mazzarino si lamentava con l’ambasciatore veneto Battista Nani di Barberino, che, diceva, «con la massima sua di formare un terzo partito tra quelli delle Corone» rischiava di rovinare «se medesimo et il negotio». In quei giorni Malatesta Albani era partito per rientrare in Italia e nel licenziarsi aveva consegnato a Mazzarino lettere «di mano propria» di Francesco, «che versano in lunghi complimenti senza toccare il principal punto ch’è il stringersi sodamente con la Francia». L’indecisione dei Barberini irritava Mazzarino che non mancava di formulare neppure troppo vaghe minacce all’indirizzo di Antonio, il quale, diceva, «non poteva senza perdita dell’abbatie et pensioni che opulente gode in Francia disdirsi dalla prottetione nella quale s’era in vita del zio con la fede e tant’altre dimostrationi già molto tempo impegnato». «Col Card. Francesco» continuava Nani, «non trovo incontro che stipulato si sii ancora alcun accordo, ma a lui sta l’avanzarlo, tutt’è per trattarsi costì dentro il conclave medesimo, dove già si sono espedite le direttioni et il contante». Le direttive, però, non potevano arrivare in tempo a Roma, data l’accelerazione impressa ai lavori del conclave da Antonio; quanto al contante, semplice “causa seconda” delle scelte di conclave, era partito anch’esso in ritardo rispetto a quello degli avversari. «De Spagnoli», aveva scritto Nani il 6 settembre, Mazzarino «si dolse che procedono con violenza, sperando comprarsi un Papa a danari contanti, de’ quali n’habbino presi a Napoli da partitanti sino a quaranta per cento. Di qua essersi convenuto spedirne pure buona summa per fare contraposto all’arti loro, se bene», aveva commentato Mazzarino, «essendo la creatione del Papa opera dello Spirito di Dio, doverebbe la Francia, che ha il solo oggetto del bene del Christianesimo, lasciar operare alla causa prima, ma l’abuso de’ tempi et la malitia de gl’huomini rendere tollerabile il concorso delle seconde etiamdio» (ASVe, DAS, Francia 101, cc. 359r, 370r-371r, 380r, Battista Nani, 30 agosto, 6 e 13 settembre 1644).

[53] «L’istesso incorporarsi della nuova famiglia papalina con la nostra», scriveva Antonio a Saint Chamond il 18 agosto, «è un segno di futura buona corrispondenza con la Francia», tanto più che, se l’operazione si fosse conclusa felicemente, Francesco avrebbe lasciato a lui definitivamente la guida della fazione, «amando egli di attendere alla quiete et allo proseguimento degli studi e sue solite congregationi» (Siri, Mercurio, IV, 1655, II, pp. 636-637).

[54] Secondo Battista Nani, a Saint Chamond erano state offerte diecimila pistole, portate poi a quindicimila, e un cappello cardinalizio per il figlio (ASVe, DAS, Francia 101, c. 513v, 22 novembre 1644. Cfr. Fontenay, II, pp. 315-316; Coville, pp. 40 sgg; Tornetta 1941, III-IV, p. 93 n.). B.Spada (per es. BAV, Barb. lat. 4670, c. 358) e Rapaccioli (per es. ASV, Fondo Bolognetti 21, cc. 268-269) parlano di ventimila doppie e dell’arcivescovato di Avignone per un parente dell’ambasciatore.

[55] Arnauld, I, 28 minimizza l’interesse francese per le condizioni negoziate da Antonio «qui consistoient à peu près au mariage de Dom Camille avec la fille du Préfet, que le P. Maitre du Sacré Palais seroit fait cardinal sans la nomination du Roi, que toute la Maison Barberine se mettroit ouvertement sous la protection de Sa Majesté, outre quelques autres graces peu considerables que Sa Sainteté devoit faire à cette Couronne».

[56] Coville, p. 31. Quasi tutti i pronostici di conclave indicavano nell’equivoco rapporto con Donna Olimpia il più importante ostacolo all’elezione del Cardinale Panfili. Cfr. per es. il già citato Giuditio sopra li soggetti papabili (“Temeraria e malagevole impresa...” BAV, Barb. lat. 4696, c. 222r): «Panfilio, di faccia austera, ha per ostacolo e la troppa affettione che mostra alla cognata et l’insipidezza del fratello predominato dall’altera moglie». L’istruzione per Rinaldo d’Este (“Egli è veramente cosa strana...”) diceva di Panfili che «Panciroli è ‘l cuore e l’anima sua», ma che «la cognata, donna fiera, il domina a sua voglia e questa sarebbe la papessa». Ameyden, Innocenzo, (BCR, ms. 1336, c. 774 e ms. 1846, c. 399), pur protestando di non crederci, ha raccolto ogni sorta di voci circa i rapporti tra Innocenzo e la cognata («lusus, aleæ et omnis civilis et incivilis conversatio»). È inutile ricordare le innumerevoli pasquinate che circolarono sul tema della papessa. Su Donna Olimpia: Rossi 1928, Brigante Colonna e Chiomenti Vassalli.

[57] ASVe, DAS, Roma 121, c. 67v-68r. Sulla rottura tra Bichi e Antonio Barberini, preceduta da continue incomprensioni, insidie e reciproche scorrettezze, la testimonianza più ampia sembra quella di B. Spada, BAV, Barb. lat. 4670, cc. 330, 354, 362 sgg. La crisi tra i due precipitò quando Antonio avanzò la candidatura Maculano, che sapeva invisa a Bichi (e a Mazzarino), nella speranza che Bichi gli opponesse il veto, rinunciando così automaticamente all’esclusione di Panfili. Bichi riuscì però, all’insaputa di Antonio e d’intesa con i cardinali di parte francese, a far cadere la candidatura Maculano senza dover ricorrere all’esclusione (Pastor, XIV, I, p. 18; B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, c. 350). Di qui l’irritazione di Antonio, che, secondo alcuni, avrebbe scelto Panfili solo dopo il fallimento di Maculano e proprio per vendicarsi di Bichi (così è detto, ad esempio, in “Quanto importi...”, BAV, Barb. lat. 4669, cc. 274-275: sappiamo però che la scelta di Panfili da parte di Antonio risaliva al mese precedente). A detta di B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, c. 299r, Bichi avrebbe dichiarato a Rapaccioli «che non sarebbe stato lontano dall’ammettere qualche trattatione secreta per essaltare il Cardinale Pamphilio istesso se solamente havesse potuto havere il concetto e l’honore di promotore», e cioè se il merito non fosse andato al solo Antonio: c’è però da dubitare dell’attendibilità di una simile diceria. Bichi rappresentava sin dai tempi dei negoziati di pace il tramite confidenziale del Duca e del Cardinale d’Este con la Francia e Giminiano Poggi, conclavista di Rinaldo, poté seguire da vicino il crescere della sua irritazione verso i Barberini, sino alla furia finale. «Il Cardinale Bichi con cui tratto ogni sera», scriveva il 13 agosto, «sta arrabbiato contro Barberini et ieri sera mi disse: “Questi gagliofi pensano di farne la burla a noi altri, ma ce la pagheranno”». E il 10 settembre, quando ormai era chiaro che Antonio era passato alla parte avversa: «Bichi combatte gagliardamente Antonio per imbrogliarlo che non venghi in Pamphilio». L’ultimo giorno, in un estremo tentativo di fermare l’elezione di Panfili, Bichi aveva «messo sottosopra» il conclave e ammonito formalmente Antonio a non dimenticare i suoi obblighi con la Francia (ASM, CA, Roma 247, fasc. Giminiano Poggi). Il 17, a elezione conclusa, Bichi scriveva a Vittorio Siri: «Credo che V.P. non resterà sorpresa nell’avviso dell’attione usata dal Card. Barberino nel conclave d’haver mancato al dovuto servitio del Re et d’haver impedito gl’altri di ben servir a sé, perché ricordo ch’Ella mi si mostrò molto ben informata di quanto potesse promettersi la Francia da questo personaggio». Va notato però che qui Bichi parla del Cardinale Barberino e non di Antonio, il che parrebbe indicare che al primo e non al secondo attribuiva la responsabilità effettiva di quanto era avvenuto e che, sebbene i negoziati avviati da Malatesta Albani per l’unione della fazione urbana con la francese non si fossero conclusi con un accordo formale, i francesi confidavano che Barberino si attenesse ugualmente a quella linea. La lettera di Bichi prosegue: «Io gli dirò nondimeno per sua consolatione che io spero che haveremo [un] Papa tanto ben affetto alla [Francia] quant’alla Spagna. S’esplica chiaramente di voler esser tale et di già lo professa in buona forma. Quanto poi alle persone particolari del Sig. Card. di Lione et per me, che siamo stati quelli che habbiamo soli oppugnata la sua esaltatione et che siamo stati nel meglio abandonati dal Card. Antonio, riceviamo da Nostro Signore dimostrationi benignissime d’affetto et di stima. Stiamo nondimeno per hora ritenuti in dimandar gratie…» (BPP, CS, cas. 141)

[58] Rapaccioli, BNR, FVE, 984, c. 132r.

[59] B. Spada, BAV, Barb. lat. 4670, cc. 356 sgg.

[60] Rapaccioli, BNR, FVE, 984, c. 148. Concorda nella sostanza B.Spada, BAV, Barb. lat. 4670, c. 362. Sul ruolo determinante di Rapaccioli: Petruccelli, III, pp. 106, 115-117, 121 (che però dipende largamente dal conclave scritto dallo stesso Rapaccioli). Il giorno stesso dell’elezione i Cardinali Cornaro e Bragadino comunicavano al Senato veneto l’imprevista (secondo loro) conclusione del conclave. «Sono più giorni che veniva da diversi Signori Cardinali persuaso il Signor Cardinale Antonio Barberino a concorrere nella persona del Signor Cardinale Pamphilio per farlo Pontefice e iersera finalmente, quando manco si credeva, il medesimo Signor Cardinale Antonio si dichiarò di volerlo e con li cardinali sue creature ne passò vivi, sinceri et aperti offici onde fu in brevissimo tempo acclamato Papa e come tale riverito alla propria cella da quasi tutti i cardinali non ostante che il Signor Cardinale Bichi solo gli facesse publicamente l’esclusione e questa mattina de 15 di settembre in Cappella è stato legittimamente, conforme alla Bolla, eletto con 48 voti di 54 che erano li elettori. Questa elettione è stata applaudita con infinito giubilo di ogni ordine di persone, perché, sia detto con pace di tutte le creature barberine, questi era di tutte il più qualificato et il più ornato di quei talenti che possino più render capace un cardinale di tanto peso e di tanta grandezza. Noi ce ne rallegriamo con Vostra Serenità perché sappiamo d’haver in ciò incontrata la sua pia e religiosa intentione d’haver procurato che sia fatto un buon papa di soddisfattione de Prencipi, amatore della pace, benissimo affetto verso la Serenissima Republica e tutto il nome veneto e nostro amico particolare, tanto più ch’egli sa che noi habbiamo desiderato lui sopra ogni altro e che sempre siamo stati pronti a concorrere come habbiamo fatto con ogni pienezza d’affetto alla sua elettione. Diamo conto di tutto ciò a Vostra Serenità, come è nostro debito, con la presente per corriero espresso havendola scritta in conclave subito fatto il Papa e fattola havere a mons. Otthoboni che subito la spedisca. Gl’altri particolari gli significheremo a Vostra Serenità con le lettere dell’ordinario. Intanto sappia che a questa elettione sono concorsi non solamente li Cardinali Francesco e Antonio Barberini d’accordo, ma li Spagnoli con Montaldo e Medici e Este e li franzesi di Lion, Valenzé e Teodoli e solo Bichi a questa elettione si è mostrato contrario [...]. Alla quale aggiunghiamo che di 54 votanti il papa ne ha havuti a favore 15 nello scrutinio e 33 nell’accesso, cinque sol[i] ne ha havut[i] contrari[...] e più il suo proprio voto. Et ha pigliato il nome di Innocentio decimo»: ASVe, DAS, Roma 121, cc. 64-65. Il 17 settembre Cornaro e Bragadin aggiungevano diversi particolari e ad esempio che le trattative per il passaggio di Antonio tra i sostenitori di Panfili erano iniziate «la sera del martedì passato» (ossia il 13) «e si fece in modo che il mercordì seguente se ne rese disposto a segno che la sera stessa lui medesimo parlò a tutte le creature assicurandole che non v’era esclusione di Francia che gli facesse ostacolo e che lui che n’era Protettore ne haveva l’arbitrio». L’accordo con gli Spagnoli «fu che la mattina seguente li Spagnoli con li loro aderenti gli dessero il voto nello scrutinio, nel quale gliene promisero quattordici et il resto sino al numero di 36 che erano necessarii per li due terzi si riserborno li Signori Barberini di darli nell’accesso» (ASVe, DAS, Roma 121, cc. 67r-v). Il voto in più ottenuto da Pamphili nello scrutinio è quello di de Lugo, che ci si attendeva votasse con la fazione barberina e che fu criticato per averlo fatto con la spagnola. Del conclave Giannettino Giustiniani scriveva a Mazzarino: «Delle cose di Roma, non intieramente state ben condotte da nostri, non ne scrivo a Vostra Eminenza, perchè di colà so che ne riceverà pienissime informationi, non voglio però lasciare di dirle che le inclinationi naturalmente spagnuole del Papa vengono grandemente accese da i ministri di quella Corona, havendo io saputo in confidenza dal nostro Doge, mio cugino, che hieri essendo stato seco in un longo congresso l’ambasciatore cattolico qua ressidente e parlandogli delle cose succedute nel conclave, le disse: Noi habbiamo fatto il Papa, ricusandolo li Francesi, e Dio lodato egli è spagnuolo, ma quando non lo fosse non lascerà d’esserlo, per essere troppo grandi li partiti che gli si fanno per parte del Re mio signore» (AAE, CP, Gênes 4, cc.148-149, senza data). Un resoconto di parte spagnola è “Chi dubita che la curiosità...” dove naturalmente non si fa alcun cenno delle trattative con Saint Chamond e dove l’esito del conclave è attribuito (oltre che allo Spirito Santo) all’abilità dei capi della fazione (non ultimo il Cardinale Colonna). Tra gli storici recenti Poncet 2000, pp. 324-325 non dà alcun peso al carattere quanto meno discutibile dell’elezione di Innocenzo, le cui ombre, però, si allungarono su tutti i primi anni del suo pontificato condizionandone pesantemente l’azione.


Claudio Costantini

Fazione Urbana

*

Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


*

HOME

*

quaderni.net

 
amministratore
Claudio Costantini
*
tecnico di gestione
Roberto Boca
*
consulenti
Oscar Itzcovich
Caterina Pozzo

*
quaderni.net@quaderni.net