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Micanzio e le buone penne: b1 b2 b3 b4 b5 Giulio Clemente Scotti Rimandare ai chiostri gli ingegni svegliati prima che
producessero scandali irreparabili, riportarli alla disciplina delle rispettive
religioni e agli studi teologici sottraendoli alle perverse lusinghe della
letteratura: un obbiettivo che il cardinale Barberini aveva indicato con
insistenza al povero Vitelli – nunzio in una città abituata a assicurare un
asilo relativamente sicuro ad ogni sorta di fuggiaschi, soprattutto se
letterati – ma che, mancato clamorosamente nel caso di Ferrante Pallavicino,
non era mai riuscito a pieno neppure in quelli, fortunatamente meno drammatici,
di Siri, Brusoni o Manzini.
«Si ritrova in questa città», scriveva a Roma da Venezia il nuovo nunzio Cesi nel settembre del 1645, «un Padre Giulio Scotto Piacentino de principali di quella città e casa. Questo è Giesuita professo, come dicono, del quarto voto, che, entrato in sospetto di esser perseguitato là dentro e che gli fusse machinato nella vita perché havea voluto proponere, anzi havea composto un libro per riformar li Giesuiti, mentre era dalla religione mandato (mi pare) superiore a Ravenna, mutò strada e se ne venne in Venetia in habito da prete secolare, facendosi chiamare l’abbate Scotti. Si è accostato a questi senatori particolarmente a quelli reputati de maggiori Republicani poco amici della Chiesa. Fa far instanza di entrar in altra Religione. Sin’hora non ha trovato chi lo voglia. Desiderarebbe gratia di ottener licenza di esser frate di S. Spirito di Sant’Antonio di Vienna. Supplico Vostra Eminenza a voler rappresentare a Nostro Signore che giudicarei bene di quietarlo in qualche religione perché è cervello da far male e potrebbe comporre e metter fuori opinioni plausibili, poiché qua ogni dì dà fuori scritture, et adeso componea per provare che non era apostata e che poteva star fuori absque scrupulo. L’anno passato uscì fuori un’altra volta e pur venne a Venetia e donò alla Republica un libro composto da lui di materie giurisdittionali pruriendo auribus et al gusto loro, che fu messo nella Biblioteca della Republica et a lui furono assegnati trecento ducati di provisione. Il Sig Duca di Parma si adoperò in maniera ancora con la propria autorità per cagione de parenti e lo fece tornar alla Religione. Quest’anno s’è nascosto da Sua Altezza mentre era qua et io che lo conoscevo da Giesuita procurai di parlargli. Vi si adoprarono quei cavalieri del Duca di Parma e non fu mai possibile. Come dico, se non si aiuta, può dare in grandi scartate. Lo rappresento perché veramente si può sperar poco bene da quest’huomo in questi paesi. E perché uno per metterli timore gli disse che li Giesuiti l’havrebbono fatto dichiarar apostata essendo tanto tempo fuori della religione, si diede subito a comporre un libro contro de Giesuiti e si va trattenendo da qualche homo da bene, ma con stenti».[1] Il caso di Giulio Clemente Scotti è presente nella corrispondenza del nunzio Cesi tra il ‘45 e il ‘46 come perenne fonte di preoccupazione.[2] Il 9 dicembre 1645, per esempio, dando relazione di un imprevisto incontro con lo Scotti, Cesi tornava a sollecitare una soluzione che evitasse un suo più aperto (e ogni giorno più probabile) schieramento col partito degli anticuriali: «Si trova ancora qui quel Padre Scotti del quale scrissi già a Vostra Eminenza e si fa chiamar Mons. Ill.mo Scotti. Ha preso ad insegnare a diversi giovani nobili in forma di Accademia, dove li suoi fautori vanno invitando della gente et ha qualche concorso, facendosi sentire in tutti li circoli di questi religiosi. È in qualche stima perché oltre al sapere, vien trattato come della casa e parente del Conte Ferdinando Scotto Tenente Generale della Cavalleria della Republica et è introdotto appresso molti senatori principali, col favor de quali, se gli riesce, aspira al carico di esser teologo della Republica, mentre mancasse Mastro Fulgentio servita che ha tal carico, vecchio di 75 anni e mal affetto. Io già gli feci intendere che se voleva entrar in un’altra religione claustrale era facil cosa che Nostro Signore vi fusse condesceso, come ne havevo già havuto qualche cenno, ma che bisognava levarsi di pensiero di entrare in religione militare o hospitalare, che era segno di voler libertà e che perciò fusse uscito dalla religione. L’altra sera mi fece intendere che desiderava parlarmi in abscondito, così l’ammisi circa le due hore di notte. Entrò con lungo discorso a dire che era intorniato continuamente da nobili che li conferivano quelle cose, massime in materia di quello havea scritto e che hora li davano a vedere il libro De electione etc. [3] stampato in Francia e lo facevano discorrer sopra quello che gli motivavano di farlo teologo della Republica e che dall’altra parte gl’era scritto di Francia invitandolo con dargli titolo di teologo del Sig Cardinal Mazzerino con mille e cinquecento scudi di provisione, che esso vorrebbe quietare, ma che sopra queste proposte desiderava sentire il mio parere. Gli risposi che dovea raccomandarsi a Dio e tornar alla sua religione e, se havea, come dicea, cause ragionevoli, eleggerne un’altra conforme. Soggiunse che non entrerebbe in altra religione claustrale, se non con esser sicuro di haver qualche Chiesa, in maniera che fra tre o quattro giorni dovesse uscirne, come sapeva che haveano fatto altri. Mi posi a ridere mostrandoli che era una vanità mettersi in queste pretensioni e che Nostro Signore in tal particolare non havrebbe fatto se non quello che havesse giudicato maggiore servitio di Dio; che però esso vi pensasse e si risolvesse perché così non poteva stare. Scrivo tutto ciò per intender il senso di Sua Santità e di Vostra Eminenza se comandano che io parli in Collegio perché come apostata non sia ammesso e più tosto scacciato, che io lo tratti acerbamente né me lo lasci comparir avanti, massime in publico, come sono in dispute, e che io procuri di snidarlo di qua. Son andato sin’hora con amorevolezza e dissimulando, sinché non sento il senso di Nostro Signore, perché veramente è cervello che può far del male se dà a traverso affatto, né vorrei haverne colpa. Ben è vero che non credo niente di quant’esso dice di esser chiamato in Francia o che qui gli sia stato dato a consultar quel libro, che non so se vi sia capitato, havendov’io fatta diligenza particolare e così mi par di cavar da alcune interogationi che io gli feci. Le ragioni sue sono che in coscienza sa di non esser apostata, che ha giusta causa di uscirne. A questo gl’ho risposto che la Chiesa non iudicat de occultis, si ha da guardare in foro exteriori. Secondo dice che vi sono altri esempi e particolarmente in Sicilia un altro Gesuita professo che entrò con facoltà apostolica ne cavalieri di Malta et altri religiosi ne frati di San Spirito. Attenderò il senso di Nostro Signore e di Vostra Eminenza».[4] Dopo aver aspettato senza gran costrutto istruzioni da Roma,[5] nell’aprile del 1646 Cesi riferiva dei non incoraggianti risultati delle pressioni che aveva messo in opera «et ancora per mezo d’altri» per convincere Scotti «a ritornar nella sua Madre religione» o a passare ad altra religione claustrale.[6] Cesi si diceva comunque assai scettico circa il buon esito dei suoi sforzi «perché si è accomodato allo stato secolare e lui vi ha ancora accomodata la conscienza». Per di più risultò che nessuna congregazione di Canonici regolari era disposta ad accoglierlo «anzi haveano data l’esclusiva tenendolo per cervello inquieto». A quel punto la sola cosa che contava, secondo il nunzio, era di mandarlo via da Venezia perché «qua, supponendosi litteratura in un soggetto, subito trova seguito e così si mantengono alcuni altri simili che vi sono».[7] La stabile integrazione di Giulio Clemente Scotti nell’ambiente veneziano appariva a Cesi una iattura. [1] ASV, Segr. Stato, Venezia 69, cc.114r-115r, 16 settembre 1645. [2] Così, il 4 ottobre 1645 il nunzio manifestava il timore di possibili nuove “scartate” del gesuita: «Il Padre Giulio Scotti […] camina con un fondamento che esso non sia tenuto di entrar in altra Religione, onde eleggendo lui d’entrare se li deva per così dire far il ponte d’oro, giaché pretende mostrare di non esser obligato et allega in questa parte dalla sua un Padre Encofer fiammengo, che è consultore della Congregatione de propaganda fide teologo insigne, che chiamato da Vostra Eminenza dirà li suoi motivi. Veramente non trova sin’hora Religione claustrale che lo voglia. Lo rappresento per attender li comandamenti di Nostro Signore e di Vostra Eminenza perché è cervello grande tentato e temo, se vede contro di sé monitorii o cedoloni di censure, che non dia in grandi scartate. Se il generale di S. Giorgio d’Alega non fusse partito per questa volta haverei operato che lo pigliasse nella sua Congregatione» (ASV, Segr. Stato, Venezia 69, c. 156). [3] Potrebbe trattarsi di Francesco Hallier, De sacris electionibus et ordinationibus ex antiquo et novo Ecclesiæ usu, Parigi, Sebastiano Cramoisy, 1636, oppure di Martino Bonacina, Tractatus de legitima Summi Pontificis electione iuxta Summorum Pontificum præsertim Gregorii XV et […] Urbani VIII constitutiones […], Lione, L. Durand, 1637. È assai più probabile, però, che si trattasse del libello De simoniaca Innocentii X electione, stampato appunto nel 1645 che non ho mai visto, ma che trovo citato per es. da Ameyden, Innocenzo (BCR, mss 1336, c. 781r e 1846 c. 403v), e a cui faceva, credo, riferimento Battista Nani quando, nel giugno 1645 scriveva al Senato di Venezia: «qualche voce pur odo che le stampe commincino a correr contro l’elettione del Papa, incerto però se nel Regno o di fuori sii il male prodotto, ma le penne d’heretici et d’altri vorranno far il lor volo e nella corruttion de’ tempi non mancherann’applausi et fomenti» (ASVe, DAS, Francia 102, c. 259r). [4] ASV, Segr. Stato, Venezia 69, c.272r-274v. [5] ASV, Segr. Stato, Venezia 70, cc. 21-22, 26. [6] «Con farlo ancora persuadere da persone sue confidenti et ancora con timori, finalmente si ridusse a dire ch’entrarebbe in una di Canonici regolari co quali parimente ho mosso trattato massime con quelli di S.Giorgio d’Alega, ma non ne ho ancora havuta risposta» (ASV, Segr. Stato, Venezia 72, c. 180). Tra gli amici impiegati a persuadere il sempre più reticente Giulio c’era anche Vittorio Siri, «che vi ha qualche confidenza per causa del Conte Scotti Tenente della Cavalleria» a cui Siri era legato. Alle insistenze di Vittorio Siri Giulio Scotti rispose alla fine per iscritto, con un biglietto che il nunzio trasmise a Roma (ma che non ho ritrovato né tra le carte della Segreteria di Stato né tra quelle dei Barberini) e dal quale sembrava a Cesi di poter concludere che l’eventuale rientro di Scotti nella Compagnia avrebbe solo significato «una continua inquietudine per li Padri Giesuiti» (ASV, Segr. Stato, Venezia 72, cc. 208, 282). [7] ASV, Segr. Stato, Venezia 72, cc.180, 208, 282. |
Claudio Costantini Fazione Urbana * Indice Premessa Indice dei nomi Criteri di trascrizione Abbreviazioni Opere citate Incipit Fine di pontificato 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m Caduta e fuga 2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h Ritorno in armi 3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i APPENDICI 1 Guerre di scrittura indici Opposte propagande a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7 Micanzio b1 b2 b3 b4 b5 Vittorino Siri c1 c2 c3 c4 2 Scritture di conclave indici Il maggior negotio... d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7 Scrittori di stadere e1 e2 e3 A colpi di conclavi f1 f2 f3 f4 f5 f6 3 La giusta statera indici Un'impudente satira g1 g2 g3 g4 g5 L'edizione di Amsterdam Biografie mancanti nella stampa 4 Cantiere Urbano indici Lucrezia Barberini h1 h2 Alberto Morone i1 i2a i2b i2c i2d i2e i2f i2g i2h i3 i4 Malatesta Albani l1 l2 * * quaderni.net |