Fine di pontificato: 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

La lega dei Principi

Per tutta la prima metà del 1642 la speranza di una composizione pacifica della vertenza si mantenne viva. L’energico richiamo alla pace rivolto dal governo di Genova al Papa per il tramite del neocardinale Ottaviano Raggi, per quanto ufficialmente poco gradito a Urbano, segnalava l’esistenza di larghi margini di trattativa. Perfino le gravi misure prese da Roma contro Odoardo dopo la sentenza di mons. Theodoli potevano essere interpretate come un artificio diplomatico per indurre l’altra parte a un accordo.[1] Nell’aprile Francesco, pur manifestando qualche scetticismo, accennava con Taddeo a una possibile mediazione del Duca di Modena:

«Al Montecuccoli qui è uscito qualche cosa di bocca di qualche plenipotenza al Duca di Modena, senza venir agl’individui [...]. Parla dell’aggiustamento come di cosa facile, et la medesima facilità la suppone a pagar i debiti et alla restitutione. Io gl’ho detto che non paga i soldati; che vi vuol tempo a pratticar gl’aggiustamenti supposti da lui...»[2]

Ancora nel maggio Montecuccoli, per incarico del suo Duca e d’intesa con il governatore di Milano, si adoprava per un accordo, mentre continuava il lavorìo dell’inviato di Richelieu, Hugues de Lionne.[3] L’agente della Repubblica di Lucca, che se ne congratulava col Cardinal Barberini, dava per scontato «che il tutto fussi per accomodarsi stante la dispositione del Duca di Parma a pagar i debiti».[4] Il guaio era che la disposizione del Duca riguardava al più le rate degli interessi non ancora pagate dei Monti Farnese, laddove a Palazzo si voleva ormai l’estinzione dei monti stessi.[5]
Tra i cardinali presenti a Roma prevalevano consigli di moderazione e di pace, anche se poi, invitati a esprimere per iscritto il proprio pensiero e di fronte alla manifesta impraticabilità d’un negoziato, finirono tutti (tranne uno) per pronunciarsi per la guerra.[6] Francesco fece mostra di essere determinato all’azione e infastidito per le esitazioni e i dubbi di cui era circondato a Corte.[7] Ma in concreto l’impresa contro Parma di cui si parlava da mesi, non fu formalmente decisa che all’inizio dell’estate e, anche rispetto ai più modesti propositi del Buratti, nella più completa disorganizzazione. L’estate, poi, si consumò in stravaganti azioni diplomatiche, un insistito gioco degli inganni, senza che alla progettata invasione si desse neppure un inizio di attuazione.[8]
Al centro di quel gioco furono le trattattive con il Duca di Modena per la concessione del passo alle truppe pontificie dirette contro Parma. Ufficialmente era stato incaricato di presentare la richiesta al Duca il conte Ambrogio Carpegna, un uomo di Francesco Barberini. Ma a Modena lo precedette in veste rigorosamente privata il genovese Gio Agostino Marliani, uditore del Cardinale Durazzo, allora Legato di Bologna. Marliani, era «soggetto assai destro e capace, ben cognito e grato alla Corte di Modena» [9] e Raffaele Della Torre congettura che Francesco, ostile alla guerra, lo avesse mandato in avanscoperta proprio nella speranza di trovare nel Duca un’opposizione abbastanza ferma da consentirgli di fronte al Papa di rinviare l’impresa o di rinunciarvi del tutto. In ogni caso anche l’inviato ufficiale, Carpegna, pare che facesse a gara col Duca di Modena nel mandare per le lunghe le trattative: la richiesta del passo fu consegnata ufficialmente solo il 18 luglio e l’accordo non fu concluso che il 26.[10]
Nel frattempo il Senato veneto, il Granduca di Toscana e lo stesso Farnese erano stati informati dal Duca di Modena delle trattative in corso.[11] Il Granduca non mancò di esprimere al nunzio a Firenze le sue preoccupazioni per il precipitare degli avvenimenti, il che poteva anche interpretarsi come un monito a non oltrepassare certi limiti.[12] Il governo veneto fece pressappoco lo stesso con mons. Vitelli il quale però restò fino all’ultimo convinto che in caso di guerra la Repubblica non sarebbe intervenuta.[13]
In realtà Venezia era d’accordo col Granduca sulla opportunità di frenare in qualche modo l’azione del Pontefice, «non amando che il Duca perisse, né che i Barberini s’avvezzassero all’esito felice de’ loro consigli».[14] Ma il residente veneto a Roma sembra che avesse istruzioni di non far parola con il Papa della Lega che si stava trattando e «nella quale», commentava Raffaele Della Torre, «era riposta la maggior efficacia dello espediente». La cosa contribuì forse ad alimentare nei Barberini indebite speranze.[15] Sta di fatto che alle pressioni esercitate da diverse parti in favore della pace Urbano oppose sempre la necessità che il Duca di Parma si acconciasse a prestargli l’obbedienza dovuta. Come unica concessione lasciò intendere (per altro «senza esprimerlo chiaramente») «di non essere per privarlo delli stati di Lombardia».[16]
Odoardo, da parte sua, temeva (come appunto sperava il Cardinale Barberini) di consumare nell’inattività le scarse risorse di cui disponeva. Giudicando finanziariamente insostenibile ogni ulteriore dilazione, respinse la richiesta che Richelieu gli aveva fatto pervenire tramite il suo inviato, il Lionne, di sospendere la prevista mossa d’armi. Quando il Granduca ne fu informato, si affrettò a mandare al suo residente in Venezia «una rimessa di trenta milla ducatoni con ordine di esponere a quel Senato la necessità di provedere il Duca di Parma di denaro per sovenire le soldatesche nella quiete se non si voleva che si movessero». Venezia ne offrì altri quarantamila e solo a queste condizioni Odoardo accettò di attendere ancora un po’.[17]




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[1] Ameyden, Diario, BCR 1831, c. 134r: «Li più hanno per fermo ch’il tutto tira all’aggiustamento e che per tal fine sono necessari[e] queste rigorose dimostrationi». Viceversa Ameyden registrava un certo scetticismo, principalmente per l’intransigenza di Urbano, sulla missione di Lionne (ivi, c. 140). «Pare che Palazzo tenga il piede con due staffe, cioè che dà orecchio all’aggiustamento e nel medesimo tempo provede per la guerra...» (ivi, c. 153).

[2] BAV, Barb.lat. 8822, Cifre di Francesco a Taddeo Barberini, c. 1v, 5 aprile 1642. Sulle missioni del Montecuccoli vedi Nani, VIII, p. 688-689, 694-695 e Muratori, Antichità, p. 545; anche Siri (Mercurio, II, 1647, pp. 182, 484-488) ne parla, ma piuttosto confusamente. Il carteggio relativo si trova, come si è già detto, in ASM, CA, Roma 246. Di condurre le trattative era stato incaricato da Barberino Giulio Buratti che nel febbraio 1642 era arrivato molto vicino ad un accordo: risolta in qualche modo, per via di vendite e di permute, la questione di Castro (e della liquidazione dei Monti Farnese), si sarebbe dovuti giungere a una lega “definitiva” per la pace d’Italia (dispaccio del 19 febbraio 1642). Ma all’improvviso il Cardinal Barberino aveva mandato tutto all’aria prendendosela con il Buratti («è sino uscito a dire ch’è un balordo»): l’accordo raggiunto, diceva Montecuccoli, «tanto meno poi li piace quanto che li pare habi stretto il Burati troppo e con l’assenso di Antonio, del quale il Burati è confidente assai, e forsi del Papa, ond’egli [Barberino] non sia stato solo in questo manegio come vuol essere in tutte le cose». A parte la gelosia nei confronti di Antonio, nella sortita del Cardinal Barberini c’entrava in qualche modo la «lettura o relacione havuta di fresco del contenuto del libro di Parma»: «non è possibile tratar alcuna cosa più con il Duca di Parma mentre offende continuamente la Sede Apostolica», aveva detto a Montecuccoli. E così aveva «sospese le trattacioni anzi in certo modo troncate e mostrata risolucione aperta di volersi qui tirare inanti per tutti i modi possibili contro il Sig. Duca di Parma» (1° marzo e 5 maggio). L’idea che il Duca di Modena intervenisse di persona e pubblicamente nelle trattative aveva per un po’ ravvivato le speranze di una sistemazione pacifica della questione, ma Odoardo non dava segno «di muoversi punto dalle sue prime deliberazioni» ed anzi, scriveva il Duca, «se si considera attentamente la sua natura può fermamente credersi che non sia mai per aggiustarsi, anzi per avventurare disperatamente tutto il resto» (Il Duca di Modena a Montecuccoli, 14 aprile 1642). Pessimista era stato sin dall’inizio Fulvio Testi, che del resto si sarebbe presto convertito all’ipotesi della guerra: «Dell’aggiustamento poi col Duca di Parma e di tant’altre cose che si dicono, io non ne credo nulla. Io veggo mille diavoli per l’aria o, quel ch’è peggio, non veggo né acqua santa né esorcismo che vaglia per scacciarli...» (Testi, 1491, dicembre 1641). Sulla mediazione di Modena vedi anche Simeoni, pp. 33-35, secondo il quale solo quando il Papa chiese il passo per entrare nello Stato di Parma Francesco I avrebbe rinunciato alla ricerca di un accordo e avrebbe deciso di seguire il Farnese in una guerra che offriva, tra l’altro, l’opportunità di riaprire la questione di Ferrara. Vero è, però, che l’idea della guerra era stata presa in considerazione molto per tempo: lo stesso Montecuccoli fin dal dicembre 1641 (e poi più volte) aveva osservato che la guerra sarebbe forse riuscita più vantaggiosa per Modena della pace. Siri, Mercurio, II, 1647, p. 183 dice che con le loro aperture verso Francesco I e i suoi propositi di mediazione «tentavano li Barberini d’affascinare l’animo del Duca di Modena per tirarlo a’ loro compiacimenti, ma andavano grandemente errati nell’opinione di poterlo sorprendere, ch’anzi con le medesime arti egli gli combatteva con le quali veniva trattato». Su Francesco I d'Este vedi, con l'indispensabile Simeoni, Rombaldi e la voce di Marina Romanello in DBI.

[3] I progetti di accordo formulati da Lionne (uno di questi, caduto nel maggio per l’opposizione del Cardinale Barberini, prevedeva un legame matrimoniale tra le due famiglie) in Valfrey, pp. 43-51.

[4] BAV, Barb.lat. 8822, Cifre di Francesco a Taddeo Barberini, c. 53, 10 maggio 1642.

[5] Quando il 2 dicembre 1641 Francesco Montecuccoli aveva detto al Papa che il Duca di Parma avrebbe soddisfatto i montisti «de’ frutti ed anco del capitale a tutto suo potere», Urbano aveva risposto che questo non bastava più e che bisognava «soddisfargli intieramente con vendere». Montecuccoli aveva assicurato che anche questo si sarebbe fatto, se necessario, ma il Papa era rimasto sulle sue: «Si dicono parole, non si veggono gli effetti». Il Granduca era disponibile ad aiutare a Odoardo con 40 mila scudi perché pagasse i montisti. I debiti del cognato lo preoccupavano perché gli sembrava che soprattutto su quelli puntassero i Francesi per tenerlo in pugno e poiché più durava la tensione col Papa, più crescevano i debiti di Odoardo, era convinto che i Francesi, anziché adoprarsi per la pace, mirassero «al distornare gl’agiustamenti». Anche Montecuccoli sospettava che l’arrivo del Lionne in Italia avesse lo scopo di far fallire i negoziati promossi dal Duca di Modena. Quando poi aveva visto Barberino deciso a proseguire sulla via delle armi aveva scritto a Modena di «dubitare che habbia intelligenza con Franzesi e che questi medesimi siano per far burla al Duca di Parma, poiché è chiaro che [i Papalini] non hanno forze per l’impresa di Parma né mai la possono fare apertamente oltre che dicano che Dio aiuterà e faciliterà l’acquisto di Parma e Piacenza com’ha fatto di Castro» (ASM, CA, Roma 246, Francesco Montecuccoli da Firenze, 15 novembre 1641, e da Roma, 4 dicembre 1641, 1 febbraio e 5 marzo 1642).

[6] Assai diverso il racconto di Siri, Mercurio, II, 1647, p. 811, che parla, a proposito del Concistoro del 1° agosto, di cardinali offesi e amareggiati per non esser stati interpellati a tempo e per esser stati posti di fronte al fatto compiuto. Tra i cardinali perplessi circa l'opportunità di un conflitto con Parma c'era Bernardino Spada, che aveva anche scritto qualcosa in proposito. Il suo opportunismo gli aveva consigliato però di tenere rigorosamente riservato il suo pensiero ed anche di allontanarsi da Roma per evitare di essere coinvolto nella faccenda o in altri sgradevoli affari, come una missione in Irlanda, pericolosa e per lui assai poco producente, di cui molto si parlava e per la quale si affannava a sostenere la candidatura, in sua vece, del P. Valeriano Magni. A Roma, tuttavia, le riserve di Bernardino sull'impresa di Castro non erano ignote ed le voci che circolavano insistenti fecero temere al Cardinale di poter incontrare l'irritazione dei Barberini (personalmente non escludo che nella decisione di Urbano di affidare a Bernardino le trattative di Castelgiorgio e nell'ambiguità delle istruzioni affitegli in quella occasione avesse la sua parte un certo desiderio di punirlo per la sua riottosità). Il 30 agosto 1642 Bernardino scriveva a Virgilio da Castelviscardo, dove si era rifugiato, comunicandogli i suoi timori: «Di quelle note che V. Rev. copiò e mandò al Card. Barberino solo quel concetto mi dispiace che approva il fermar anco la [sic] e sospendere la fortificatione che presentemente si fa a Castro, per che se il Card. Antonio lo sa non è gran cosa che dica quest’è un consiglio favorevole per il Gran Duca che ha lo stato confine e non vede volontieri fortificare». E continuava: «Mi saria ben caro poter indovinare onde sia derivata l’opinione o credenza del Card. Barberino ch’io habbia fatto e lasciato un discorso a Roma sopra queste materie perché questa sarebbe stata una grande mia imprudenza e massime non l’havendo communicato co i Padroni. Mostrai già al Ferragallo et anco al Sig. Giulio Buratto un squarcio di scrittura che feci per l’ultima congregatione di Stato, e forse il Ferragalli ne disse qualche cosa al Card. Barberino. In essa si parlava a punto de Venetiani e del Gran Duca e credo quasi che V. Rev. anco la vedesse». Il Buratti era considerato da Bernardino un amico sicuro, come del resto Alberto Morone a cui aveva accennato per lettera qualcosa. «Comincio dal Padre Morone», scriveva sempre a Virgilio il 2 settembre 1642, domandandosi chi avesse potuto mettere in circolazione le voci relative al suo dissenso. «Veramente avrei havuto gusto e creduto che non havesse potuto produrre se non buono officio ch’egli havesse mostrate quelle scritturette al Card. Barberino [...] Restai meravigliato quando sentii che altro Cardinale che un di quelli della Congregatione di Stato arrivasse a dire e conseguentemente ad haver penetrato che i miei consigli erano stati diversi da quelli che poi s’erano continuati a pratticare» (ASR, SV, 563, pp. nn).

[7] Nicoletti, IX, cc. 201-204.

[8] I negoziati del luglio e dell’agosto sino alla conclusione della lega sono diffusamente, ma non sempre limpidamente raccontati da Siri, Mercurio, II, 1647, pp. 731-856.

[9] Nicoletti, IX, c. 228. «Versato assai ne i negotii della Corte Romana e però di non picciola habilità e destrezza [...] interessato assai di servitù con quel Duca» lo dice il Capriata, Historia, 1663, p. 29. Già Vicario del Cardinale Durazzo, Agostino (o Gio Agostino) Marliani (indicato talvolta come Maragliani: per es. Giandemaria, p. 28, Muratori, Antichità, p. 545. Siri, Mercurio, II, 1647, p. 732 scrive “Marigliani”, Nicoletti, l. cit., “Martiani”) fu suo conclavista nel 1644. Nominato nel 1645 al vescovato di Mariana, vi rinunciò nel 1656. Nel 1662 Rinaldo d’Este gli rinunciò il vescovato di Reggio Emilia. Oltre ai consueti repertori (tra cui Giustiniani, p. 301, che lo dice «più atto per la Corte che per il governo [di diocesi]»), cfr. Cambiaso, pp. 51-54 e Alfonso, Durazzo, pp. 481-2.

[10] Della Torre Historie, II, pp. 670-673. Testi 1550, 31 luglio 1642.

[11] Nell’ottobre del 1642 il Cardinale Durazzo, legato di Bologna, rinfacciò a Fulvio Testi il contegno sleale del Duca di Modena, che quando gli era stato chiesto il passo per le truppe contro Parma non aveva fatto parola della lega che si stava trattando, mentre non aveva esitato a rivelare al Farnese i progetti del Papa (ASV, Fondo Spada 17, c. 361-362). Comprensibilmente severo verso Francesco I Morone, cc. 4v-5r; la versione estense in Muratori, Antichità, pp. 545-546, ma vedi Testi 1550, 31 luglio 1642, cit.: «Cotesta avvidità de’ preti e la rabbia che mostrano contro la libertà di que’ pochi principi che ci restano hanno fatto applicare a qualche unione per la publica utilità…».

[12] ASV, Segr.Stato, Firenze 25, cc. 51-60, cifrati dal 26 luglio al 6 settembre 1642. A Parma ancora alla fine di luglio non si nutrivano molte speranze circa l’atteggiamento del Granduca. «Hieri», scriveva Gaufrido al conte Scotti in Venezia, «S.A. si abboccò su i confini col Serenissimo di Modena per vedere a cosa si potria ridurre quel Principe [...]. Circa i Firentini non c’è che sperare, perché essi assolutamente non ne vogliono saper altro, e ci fu già nota questa verità sin da Natale, quando era qua il marchese Guicciardini [...]. Aggiunga V. S. a questo che que’ ministri che governano in Firenze sono interessati in Roma, havendo grosse somme di denari sopra i Monti e, quello che più importa, il principe Gian Carlo, che è quello che governa assolutamente il Gran Duca, per la pretensione ch’egli ha del cardinalato tira a traverso simil sorte di rissolutioni» (ASP, CFE, Venezia 517, 26 luglio 1642).

[13] Del nunzio Vitelli scrive il Nani (VIII, p. 686) che «persuaso da falsi supposti e da voci del volgo che i Venetiani oltre a qualche apparenza et offitio non fossero per ingerirsi negli affari di Parma, impresse nella Corte di Roma il concetto di poter impunemente occupar Castro e tentar oltre». E Siri, Mercurio, II, 1647, p. 785: «…abbacinato il suo giudicio in crederla [Venezia] immobile al sollievo del Duca…». Sin dal primo aggravarsi della crisi di Castro nel ‘41 Vitelli aveva inviato a Roma messaggi rassicuranti (14 settembre 1641: «La risolutione che sento essere nel Senato sopra di questo negotio di Castro è di non volersi ingerire in cosa alcuna»; 21 settembre: «Vostra Eminenza sia anche certissima che la Republica non ha somministrato, né somministrerà denari al Duca s’altro non nasce, perché non ne ha da darne a gli altri e perché non sta con sodisfattione con esso lui, né ha occasione di farlo»; e così via). Nonostante il fermo monito a non turbare la pace d’Italia che il Senato veneto il 19 luglio 1642 lo aveva incaricato di trasmettere al Papa e nonostante il rammarico espressogli dal Doge stesso qualche giorno più tardi per il «gran fuoco» che vedeva accendersi in Italia, Vitelli restava convinto che Venezia non volesse ingerirsi «con fatti» nella questione. La Repubblica di Venezia, scriveva a Roma ancora il 26 luglio, «crede che vi siano misterii, ma che non l’intende e sta irresoluta». E il 2 agosto, quando l’andirivieni di corrieri e ambasciatori avrebbe impensierito chiunque: «L’opinione che la Republica resti ne’ suoi termini tutte le ragioni politiche la persuadono se non quella della gelosia della grandezza della Chiesa, la quale tuttavia non pare che sia tale (massime in questo caso) che voglia far entrare la Republica in quel gran fuoco che lei si figura che ne debba esalare». Ancora  quando la decisione di aiutare Parma era stata ufficialmente presa, la lega stava per concludersi e la Repubblica armava, il nunzio, pur riconoscendo che in Venezia erano «cresciute a segno grande le male voluntà», era scettico circa l’effettiva volontà del governo di affrontare una guerra per Parma e preferiva immaginare che si trattasse di una manovra per indurre il Pontefice «a qualche poca apertura» e che la stessa lega dei Principi «mira[sse] contro franzesi, che suppongono uniti con Sua Santità» (BAV, Barb.lat. 7724, cc. 82-83, 90v e 7725, cc. 10r, 30, 34v, 35r, 47r, 58, 78 e, prima, Barb.lat. 7719-7723 passim. Cfr. ASV, Segr.Stato, Venezia 66 e 67, Cifre 1641-1643). Meno ottimista il Cardinale Cornaro, spaventato dall’improvviso montare di sentimenti antiromani: «si scopre gran livore e malignità contro la Santa Sede in simile occasione», scriveva il 26 luglio 1642, «né mai haverei creduto tanto, Dio gli perdoni!» (BAV, Barb.lat. 7776, c. 9). Vitelli avrebbe riconosciuto più tardi di essersi ingannato sulle intenzioni di Venezia: «Quando fu trattata e conclusa costà la lega», lo consolava Barberino, «non fu solo il card. Cornaro né V. S. a scrivere e scrivere in contrario, poiché l’istesso veniva scritto ancora dalla Republica al suo segretario che stava in Roma onde se questo fu ingannato, ben potevamo essere ingannati noi; ma la Republica con vedere le adorationi che li fanno questi Principi si lascia ingannare più all’ingrosso hora col credere agl’inventati supposti di pericolo della Mirandola, hora col prender gelosia delle preventioni per la difesa alle quali a tal fine studiosamente si necessita Sua Santità con li preparamenti di barche nel Po. La Republica non pensa che ci siano altri interessati, né altri doppii che i preti, ma la sincerità et l’inocenza sono potenti quando piace alla Divina Maestà di rimirarle e veramente io tremo per i miei peccati quando vedo la meravigliosa protettione che Dio tiene della sua Chiesa» (BAV, Barb.lat. 7767, c. 64r, 18 aprile 1643). Era il Papa stesso, però, a non voler credere all’imminenza della crisi; vedi ad esempio la lettera di Giulio Buratti a Francesco del 12 agosto 1642 (a proposito dell’invio del Maestro di Campo Frenfanelli al campo per affiancare nel comando il Principe Prefetto, su cui evidentemente non si faceva a Corte grande affidamento) in cui si ribadisce l’incredulità di Urbano circa la possibile formazione della Lega (BAV, Barb.lat. 9295). Su Vitelli (e i suoi abbagli circa i propositi di Venezia) cfr. Brusoni 1661, p. 348; Pastor, XIII, p. 891. Su Federico Cornaro (o Corner) vedi G. Gullino in DBI. Sulla tradizionale contrapposizione in Venezia tra papalisti e antipapalisti cfr. Cozzi 1958 (e tanti altri suoi lavori, che per brevità non inserisco in bibliografia e che del resto sono noti a tutti) e Stella.

[14] Nani, VIII, p. 697. Sulle trattative per la conclusione della lega vedi ASF, MdP 3708, 1642: Lega difensiva tra Venezia Toscana e Modona conclusa dalli cav.re Pandolfini e residente Zati.

[15] Era previsto che Modena, Firenze e Venezia ammonissero di concerto il Papa a non tentare l’impresa contro Parma. Ma il Bon si mosse per conto suo, senza accennare alla lega che si stava trattando e l’ambasciatore del Gran Duca si adeguò, non senza sconcerto dei negoziatori toscani a Venezia: vedi in ASF, MdP 3708 la cifra del 9 agosto 1642 di Pandolfini e Zati. Ad ogni modo, a giudicare dai dispacci dei nunzi pontifici a Venezia e Firenze, la corte di Roma era assai male informata circa le effettive intenzioni dei Principi. Che Vitelli potesse così clamorosamente ingannarsi circa l’atteggiamento del governo di Venezia trova qualche spiegazione nel fatto che le sue opinioni in materia si fondavano non su “voci del volgo”, come pretendeva Nani, ma sulle confidenze di due autorevolissimi informatori, Aurelio Boccalini e Vittorio Siri, entrambi intimi di importanti personaggi di quel governo e al servizio, in contemporanea, del Farnese, della Francia e di altri principi. Che fossero, per così dire, “agenti del nemico” non era, naturalmente, ignorato dal nunzio, anche perché proprio in questo consisteva il pregio dei loro servizi. Vitelli però confidava di averli dalla sua o in ogni caso di poterli utilizzare a suo piacere, nel che si sbagliava di grosso (vedi la nota dedicata a Vittorio Siri nell’appendice Guerre di scrittura). Anche il nunzio a Firenze Camillo de Melzi, percepiva poco di quel che gli capitava intorno. Il Granduca, riferiva il 12 settembre, quando ancora non si aveva sicura notizia della mossa d’armi di Odoardo, «nel suo parlare mostra gran dispiacere di questi capricci di Parma», salvo poi manifestare a cose fatte «più tosto spirito et allegrezza che malinconia e dispiacere». Le assicurazioni del Granduca che avrebbe fermato il Farnese non potevano, secondo il nunzio, non esser prese per buone, anche se, notava il 22 settembre, «non confronta[no] col grand’apparato che il Gran Duca invia ad Arezzo et altri confini» (ASV, Segr.Stato, Firenze 25, cc. 60-69, specialmente i cifrati del 6, 13, 15 e 22 settembre). Il Granduca, a detta di Nicoletti, aveva delle spie in Curia ed era benissimo informato di tutto quel che vi avveniva. «Non così all’incontro le cose si sapevano in Roma», perché, dice Nicoletti, Francesco Barberini detestava le spie. «Alcuni de’ principali ministri attribuivano la colpa di questo errore ad una sorte di politica del Cardinal Barberino quasi che conoscendo egli la potenza del Papa, giudicasse di mostrar maggior coraggio in non tener conto di quel che macchinassero gli altri Principi»; d’altra parte tra quegli stessi ministri «alcuni […] non si poterono diffendere da qualche taccia d’infedeltà perché vedendo in Roma il sol cadente o temerono con iscuoprire i segreti de’ Principi d’irritarseli contro o procurarono col tacere di guadagnarsi la loro grazia». Barberino lo sapeva, ma faceva finta di niente «per esser la medicina più pericolosa del male» (Nicoletti, IX, cc.160-170). È appena necessario osservare che la proccupazione di non inimicarsi, in tempo di pontificato declinante, gli avversari dei Barberini agiva anche nell’ambiente militare. Del principe Savelli, ad esempio, si diceva che nella guerra «portossi alquanto lento, poiché puoteva danneggiare il nemico e non lo fece, la causa fu per che Sua Eccellenza pensava alla decrepità d’Urbano e la poca vita che gli restava, per il che gli rendeva poco conto inimicarsi un Prencipe potente comm’è quello e per ciò fu poi richiamato dal campo, et inviatovi Don Tadeo Barberino nepote di Sua Santità con titolo di Generalissimo» (Giusta statera, p. 48): Taddeo era del tutto inetto al comando, ma, se non altro, non aveva remore di quel genere.

[16] Della Torre Historie, II, pp. 672-677.

[17] Della Torre Historie, II, p. 676. Pastor, XIII, p. 887. Odoardo chiese alla Repubblica che gli sborsasse i fondi subito, e cioè prima della conclusione della Lega: ASP, CFE, Venezia 517, Il Duca di Parma al conte Scotti, 6 agosto 1642.


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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