Vittorio Siri storico e spione: c1 c2 c3 c4

Il Mercurio e i Barberini

I Barberini avevano rinunciato – per magnanimità o per aver mancato l’occasione di realizzarla – all’idea di far fare a Don Vittorino la fine di Ferrante (o un’altra simile). Avevano tuttavia provveduto per tempo a far comporre una risposta al Mercurio. Sembra che l’incarico fosse stato affidato ancora una volta ad Alberto Morone. Ma quando la scrittura era pronta per le stampe, Urbano non era più di questo mondo e Michele Mazzarino, Maestro di Palazzo, forse per suggestione del nuovo Papa o forse per paura del fratello, ancora irritato con i Barberini, negò l’imprimatur.[1]
Il ritorno dei Barberini nella grazia del più importante dei fratelli Mazzarino  doveva tuttavia mettere Siri in una situazione imbarazzante, tanto più che a Parigi la combriccola degli “importanti” era stata dispersa e che a Venezia Grémonville, suo amico e protettore, dopo l’infelice missione romana, stava perdendo il favore della Corte e sarebbe presto scomparso, ucciso – si disse – dal dispiacere. Nel frattempo, per i suoi troppi maneggi, Siri era caduto in sospetto del governo veneziano e aveva dovuto abbandonare – temporaneamente nel 1646 e poi, nel 1647, dopo la pubblicazione del secondo volume del Mercurio, definitivamente – la città che lo aveva ospitato per tredici anni. Lasciata Venezia, Siri aveva cercato rifugio presso i Principi già avversari di Papa Urbano: Modena, Parma, Firenze. Ma anche nei confronti dei bistrattati Barberini aveva tentato un riavvicinamento e nell’introduzione, scritta nel 1646, al secondo volume del Mercurio volle giustificarsi per il modo in cui aveva trattato la crisi di Castro.[2]
Che ce l’avesse con Casa Barberini, scriveva, era falso, «massime al presente che così altamente si vede honorata della protettione del maggior monarca del Christianesimo, di cui giustamente cotanto mi pregio di poter caratterizzarmi per humilissimo servitore». Per il passato protestava la sua innocenza: «calunnioso altresì è il giudicio di colui che punto da’ stimoli della lividezza osò affermare che indotto da qualche Prencipe abbia io abusato della religiosità dell’Historia profanandola con invettive contro la Casa Barberina». Se i Barberini non uscivano benissimo dalla sua storia, la colpa non era sua, o almeno non solo sua. A suo tempo, asseriva, da coscienzioso cronista si era rivolto a monsignor Vitelli per avere sulla crisi di Castro notizie e documenti di parte barberina, ma non aveva ottenuto che una relazione sullo stato di Castro e un’altra sulla sua occupazione da parte delle truppe pontificie.[3] «Senza l’informationi dunque de’ Signori Barberini, sopra l’altrui memorie, uniformi tutte benché ritratte da diverse parti, m’è convenuto di tessere». Per finire, Siri si appellava alla «difficoltà grandissima» che uno storico scrupoloso, ma per forza di cose dipendente dai potenti, non poteva non incontrare «in scrivere historie de’ tempi correnti»: un luogo comune vero sempre, ma ancor più vero, forse, al suo tempo e nelle circostanze in cui si era trovato a lavorare.[4]
A dispetto dell’imparzialità professata nell’introduzione (un po’ appiccicata, per la verità), anche il secondo tomo del Mercurio risultava durissimo con i Barberini, alla cui disonestà veniva senz’altro imputata la grave impreparazione dell’esercito pontificio nel 1642 e alla cui malafede era attribuito il fallimento dei negoziati di pace.[5] Ciononostante, poco dopo l’uscita del volume, forse in un nuovo tentativo di ammansire i Barberini, Siri era tornato, tramite Monsignor Ranuccio Scotti, a chieder loro documenti e informazioni per i prossimi volumi del Mercurio. Monsignor Scotti provò con Rapaccioli ma questi bloccò sul nascere l’iniziativa e sconsigliò seccamente a Barberino di darle un qualsiasi seguito:

«per le riflessioni fatte su gli altri volumi usciti del Mercurio, su le sciapitaggini dell’autore, su’l di lui maltalento, su lo star egli hora presso il Gran Duca e su mill’altri rispetti», scriveva il 18 maggio 1647, «ho qui havuto per bene di scusarmi dalle richieste di mons. Scotti, che se n’è quietato e tanto più ne son contento quanto che a loro non si minacia da quel sciocco che di protestare al mondo nel 3° volume di non haver potuto havere dagl’archivi di Vostra Eminenza e da suoi ministri le notitie da lui desiderate e procurate, parendomi che se farà questa dichiaratione renderà insieme sospetti gl’animi de lettori e la loro credenza con avvertirli della mancanza di notitie sì necessarie e renderli accorti della prudenza e giustitia usata con esso lui da chi non gli deve tale honore né tale confidenza; scrivasi quel che vuole che vi sarà sempre chi potrà e saprà riprovar le di lui bugie e screditar col terzo anche gli altri doi volumi a i quali si darebbe gran credito se si somministrassero senza riprov[atione] loro le notitie per il terzo e se si potesse vantar l’autore di haverle havute; anzi nelle poche che gli si potrebbero o per dir meglio gli si dovrebbero dare potria credere e supporre il mondo d’haverle havute tutte o per lo meno tutte quelle che potevano fare per la parte di qua. Meglio è lasciarlo a digiuno e torsi al risico di vedere cavati e lam[bic]cati da un autore malintentionato i veleni dalle gioie e dalle giustificationi gloriose della Casa di Vostra Eminenza».[6]

Il terzo volume del Mercurio uscì solo nel 1652, quando la situazione in Italia era profondamente mutata. Odoardo Farnese era morto da tempo, Castro era stata rasa al suolo. I conflitti tra Pamphili e Barberini, tra Barberini e Principi della vecchia Lega, tra Mazzarino e papa Pamphili si stavano per ricomporre, sia pure tra alti e bassi continui, in una spettacolosa girandola di nozze principesche e di promozioni cardinalizie. Viceversa, tra i capi della fazione urbana si stava producendo una forte divaricazione di posizioni, soprattutto in relazione al servizio di Francia, a cui l’intera Casa (e fazione) s’era impegnata, ma nel quale il solo Antonio era deciso a perseverare. I toni antibarberiniani di Siri si erano smorzati – forse anche per assenza di mandanti – ed anzi ai Barberini, in procinto di uscire definitivamente dall’orizzonte dei Mercuri (e della grande storia), poteva ormai essere dedicata qualche buona parola.




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[1] Lumbroso, p. 187. Vedi le Due lettere contro il Siri di Alberto Morone nell'appendice Cantiere Urbano: nella prima delle due Morone torna - ancora nel 1646 - a formulare la minaccia di far fare al Siri la fine di Ferrante Pallavicino: evidentemente nell'ambiente dei Barberini l'idea persisteva.

[2] Siri, Mercurio, II, 1647, pp. 2-4 (non numerate) dell’introduzione.

[3] Che Siri si fosse rivolto per documenti a mons. Vitelli era fin troppo vero, visto che quella storia avrebbe dovuto scriverla per sua commissione. Il 12 ottobre 1641 Francesco Barberini prometteva a Vitelli di inviare a Siri  «per conto delle cose di Castro […] una relatione puntuale» (BAV, Barb. lat. 7763, c. 10).

[4] In effetti meglio delle solite, plausibili ma un po’ vacue considerazioni sulla venalità degli uomini di lettere, l’osservazione di Siri spiega le ragioni della così frequente associazione – ai suoi tempi – nella stessa persona dei ruoli di storico e di spione, personaggi entrambi a loro modo complici del Palazzo, ma proprio e solo in quanto tali ammessi a conoscerne almeno in parte archivi ed arcani. A suo vantaggio, rispetto a imitatori e concorrenti, non meno di lui compromessi con i bassifondi del potere, Siri poteva se non altro vantare, a giusto titolo, la ricchezza del materiale documentario che, «con sudore […] e fatica» aveva raccolto per ogni dove e del quale, in definitiva, chiunque avesse voluto scrivere la storia di quel tempo avrebbe potuto e dovuto valersi (Siri, Bollo, pp. 93-94 e 160). Trovo in particolare bella e convincente la difesa di Siri della formula dei Mercuri e della “particolarizzazione” che le era propria: «La particolarizatione cade nel triviale: difetto incompatibile col maestevole. Ma formandosi un’historia de’ successi di molti e molti anni si trasceglie materia tutta splendida, magnifica et eccelsa che col suo vigore suffraga a sostenere sempre in alto la penna dello scrittore. […] Preferendo […] al comodo della propria riputatione il publico giovamento […] con sudore […] e fatica incomparabilmente maggiore di quella che si ricerca a tessere historia, ma con lode assai inferiore intrapresi a publico beneficio l’abbozzo de’ Mercuri» (Bollo, pp. 93-94). Il che, poi, non era che un ampliamento di quel che era venuto affermando in diversi luoghi del Mercurio (per es. II, 1647, p. 227). Quanto al sudore e alla fatica che, a detta di Siri, gli erano costati i Mercuri, basta un’occhiata ai materiali conservati in BPP, mss. Par. 1164-1178 e BPP, CS, cas. 141-144 per convincersi che non si trattava di una vanteria.

[5] Siri, Mercurio, II, 1647, pp. 1307, 1413-1414.

[6] BAV, Barb.lat. 8746, f.38v, Roma 18 maggio 1647.


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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