Caduta e fuga: 2a, 2b, 2c, 2d, 2e, 2f, 2g, 2h

La disgrazia di Antonio

Nessuna delle garanzie predisposte da Antonio funzionò come avrebbe dovuto. Mazzarino non volle sentir ragioni e sconfessò in blocco tutti i protagonisti della vicenda.[1] Antonio, isolatissimo, fu senza alcun riguardo privato del titolo di protettore di Francia e sostituito di fatto nelle sue funzioni dal Cardinale Grimaldi,[2] l’ambasciatore Saint Chamond fu richiamato in patria e i fratelli Teodoli, indebitati con i Barberini e abbandonati da tutti, si trovarono talmente a malpartito da dover mettere in vendita un loro castello.[3] A loro volta gli Spagnoli non furono in grado di onorare la promessa di protezione fatta da Albornoz ai Barberini per il veto opposto dal Cardinale de’ Medici e dal Granduca che minacciarono di abbandonare il partito di Spagna se i Barberini vi fossero stati ammessi.[4]
Quanto al nuovo papa, non lesinava espressioni di stima e di affetto per gli autori della sua elezione, ma fin dai primi giorni del pontificato li aveva messi da parte, anteponendo ai loro i servizi di Panciroli (nominato alla Segreteria di Stato) e, secondo le facili previsioni del Bichi, quelli di Donna Olimpia. Il più deluso pare che fosse Francesco Barberini, che anche in pubblico dava talvolta segno di tollerare a fatica la preferenza accordata a un personaggio come Panciroli, che, in fondo, non era nessuno se non, appunto, una sua creatura.[5]
Senonché, proprio questo suo esser nessuno era probabilmente la qualità che Innocenzo apprezzava di più in Panciroli. Lento nelle decisioni, pieno di dubbi e di paure, facilmente influenzabile, Innocenzo non amava e non stimava i suoi collaboratori e consiglieri (ad eccezione, forse, di sua cognata), diffidava di tutti, si piccava di non dover niente a nessuno e di “far da sé” in ogni faccenda di qualche peso.[6] E Panciroli, il cui impegno di statista sembrava esaurirsi nel non dare a vedere al Papa «di volersi arrogare auttorità» e nell’evitare accuratamente di parlargli degli argomenti che sapeva essergli sgraditi, con i suoi “non posso” e il suo stringersi nelle spalle, era, in un certo senso, l’uomo giusto al posto giusto.[7]
Nel novembre del 1644, a un mese dalla pubblica disgrazia di Antonio presso la Corte di Francia, si ebbe il primo manifesto segno di frattura tra Panfili e Barberini. Camillo, l’unico figlio di Olimpia, che era stato designato al ruolo di nipote laico e che pareva destinato a sposare Lucrezia, figlia di Taddeo Barberini, fu elevato alla dignità cardinalizia: veniva bruscamente a cadere in questo modo la prospettata unione matrimoniale tra le due famiglie. Un mese più tardi i Panfili, già imparentati con i Giustiniani per via del matrimonio di Maria, figlia di Olimpia, con Andrea, duca di Bassano, confermavano di cercare in tutt’altra direzione le proprie alleanze familiari dando in sposa Costanza, l’altra figlia di Olimpia, a Nicolò Ludovisi, principe di Piombino, personaggio eminente del partito spagnolo in Italia.[8]
Indipendentemente dalle scelte matrimoniali, a sottolineare il carattere sempre più ostile ai Barberini del nuovo pontificato bastava la stretta confidenza del Papa con la casa de’ Medici: la promozione a cardinale, insieme al nipote Camillo Panfili, del principe Gio Carlo ne era stata una sorta di riconoscimento ufficiale. Quella con i Medici era un’alleanza potente, ma ingombrante al punto da apparire, non senza fastidio di Innocenzo, una sorta di tutela.[9] Come riferiva l’ambasciatore di Venezia, Angelo Contarini, che era giunto a Roma poco prima del Natale del 1644, il balì Giovan Battista Gondi, segretario del Granduca, attribuiva ai Medici «tutte le attioni prudenti di questo pontificato» a cominciare, appunto, dalle «nozze della nipote di Sua Santità in Ludovisio, dricciate a gratificare Spagnoli per escludere Barberini da questo parentado». Anche «l’haver trascurato la posterità della Casa Panfilia col far cardinale il nipote» era stato da parte del Papa, secondo il Gondi, «segno evidente di levar tutte l’ombre e gelosie che concepire si potessero di veder già mai unite in parentado queste due case».[10]
Il Cardinale de’ Medici, ostentava la sua influenza a Palazzo e confidava allo stesso Angelo Contarini il proposito di epurare il seguito di Innocenzo togliendo di mezzo sia Panciroli, «qual’intrinseco e dipendente ch’egli è della Casa Barberina», sia il nunzio a Parigi, mons. Bagni «huomo inesperto», ma soprattutto «troppo attaccato alle sodisfattioni de Barberini».[11]

«Vostra Eccellenza creda», gli aveva detto il cardinale, «che niuna cosa può succedere di nostro maggior utile che la preservatione, lo mantener in vita questo Pontefice; guarda Dio che morisse, saressimo a mal partito».

E in vista di questa temuta evenienza avrebbe voluto che il Papa si sbrigasse a nominare un buon numero di cardinali «per far ostacolo, quando venisse il caso, a Sacchetti».[12]
Ostilissima ai Barberini era, almeno in apparenza, Donna Olimpia, forse anche (come suggeriscono quasi tutte le fonti) per antichi rancori personali verso Antonio e per rivalità di famiglia. Ma pur nella comune inimicizia per i Barberini, l’influenza di Donna Olimpia e quella dei Medici sul Pontefice anziché sommarsi il più delle volte si elidevano. Olimpia mal sopportava lo stretto legame che si era creato «a vilipendio dell’auttorità di lei» tra suo figlio Camillo (che, per altro, poco apprezzato dalla madre e dallo zio, non contò mai nulla a Palazzo) e il Cardinale Gio Carlo ed era perciò incline ad appoggiare Panciroli. Secondo l’opinione di Alvise Contarini, Olimpia, «come è stata principal instromento delle commotioni con li stessi Barberini per godere delle loro rendite» così, se soltanto vi avesse trovato una qualche convenienza, non avrebbe esitato a intercedere per loro; ed era la sola persona in grado di farlo efficacemente e di «portar il Pontefice alla placidezza». In effetti i Barberini (e alcuni dei loro collegati) non mancarono di ricorrere in più occasioni, e con profitto, ai suoi costosi servizi.[13]
Per qualche mese dopo l’elezione l’ostilità del Papa verso i Barberini non si manifestò apertamente. Forse a trattenere Innocenzo era anche il timore dello scandalo che Antonio avrebbe potuto suscitare con la documentazione in suo possesso. Contribuire all’isolamento dei Barberini, alimentare l’ostilità dell’opinione pubblica nei loro confronti, agitare (o, per meglio dire, far agitare da altri) lo spauracchio di un’eventuale inchiesta sulle fortune da loro accumulate poteva servire a rammentare ai Barberini quanto bisogno avessero dell’indulgenza del Pontefice.[14] Ma esasperarne le difficoltà o spaventarli oltre il bisogno era, come gli avvenimenti successivi avrebbero ampiamente dimostrato, assai pericoloso. Anche per questo Innocenzo fu sinceramente irritato dal carattere eccessivo del risentimento espresso dalla Corte di Francia nei confronti di Antonio; e per questo si era adoperato, a dispetto dei Medici, a che la Spagna tenesse fede in qualche modo alle promesse fatte ai Barberini. Il Papa, in fondo, era più di chiunque altro interessato a un’intesa che chiudesse definitivamente la torbida vicenda della sua elezione.[15]
Chi vi si opponeva con decisione era invece Mazzarino e fu proprio la sua intransigenza e l’apparente mancanza di una via di uscita per sé e per la sua famiglia che indusse Antonio, nel dicembre del 1644, a consegnare al governo francese i biglietti del conclave. Il gesto era apparentemente diretto contro Saint Chamond, ma nella sostanza costituiva uno strappo brusco e irrevocabile nei confronti del Papa: è evidente che quei biglietti potevano costituire un pericolo per Innocenzo solo se una grande potenza cattolica come la Francia avesse voluto servirsene. Poche settimane più tardi il Papa dubitava già, «come gli viene da più parti sussurato», che i Francesi

«vaddino machinando formargli un processo sopra la sua creatione al Pontificato, con fine di dichiararla invalida, macchiata di colpa di simonia per le promesse che da lui son state estorte e seco patuite di vescovati, badie, cardinalati, e, quel che più importa, in conclave siano stati mandati e ricevuti gran somma di denari a quest’effetto».[16]

In un gioco così arrischiato, il fatto che Antonio avesse passato la mano a Mazzarino, mentre moltiplicava nel Papa i motivi di ansia, cancellava in parte le ragioni che sino a quel momento gli avevano suggerito prudenza nei confronti dei Barberini.




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[1] Le reazioni in Francia all’elezione di Panfili si possono leggere nei dispacci di Battista Nani del 27 settembre e del 4 ottobre 1644. Quando già a Roma s’era fatto il Papa, era arrivato a Parigi un corriere espresso con la notizia che in conclave le cose si mettevano male perché il Cardinale Barberini «volendo per reputatione et per interesse tenere il maggior posto nella creatione del Papa, conosceva impossibile lo spuntarlo congionto alla Francia». «Sopra tali considerationi fu poche hore doppo il suo arrivo frettolosamente riespedito il corriero con molte lettere a cardinali per animarne alcuni e guadagnarne de gl’altri […] Ordini furono pur anco ingionti che quando francamente escludere non si potesse alcuno de soggetti non grati, si dissimulasse et vi si concorresse da cardinali francesi per non rompere et per obligare almeno con la piena degli altri il nuovo Pontefice. Ma le commissioni saranno arrivate dopo il fatto». Il 25 settembre, mentre Mazzarino era gravemente indisposto, giunse infine la notizia dell’elezione. Che l’eletto fosse Panfili produsse costernazione, perché non solo notoriamente filospagnolo e formalmente escluso dalla Corona, ma anche (e da sempre) nemico personale di Mazzarino, così come nemico personale di Mazzarino era Panciroli, che, «mediatore della […] elezione» appariva destinato a svolgere un ruolo importante nel nuovo pontificato. Il governo francese pare avesse deciso subito di fare buon viso a cattivo gioco («l’ultima risolutione alla quale sii per portarsi la Francia sarà di venire ad aperta rottura con la Chiesa»), ma insieme di punire i ministri di Francia a Roma che non erano stati capaci né di impedire l’elezione di Panfili, né di fingere soddisfazione una volta eletto. «Contra li Barberini si fulmina con lo sdegno et con le querelle apertamente, chiamando tradimento il loro procedere. Si dice chiaro che Barberino haveva con asseveranza promesso di non entrar mai in soggetto escluso da Sua Maestà, ma resta sgannata anco la Francia che dove l’interesse è regola della fede, non può esser che mobile et contaminata. Antonio ha con espresso corriero portato raggioni et scuse, ma chiaro consta che il nome suo di protettore non serve che per proffittarne et coprire con un’ombra apparente al sdegno e risentimento di Sua Maestà le macchie del fratello et della Casa» (ASVe, DAS, Francia 101, cc. 408-410, 421-422).

[2] Il Cardinale Antonio, scriveva Giannettino Giustiniani a Mazzarino nel novembre del 1644, «ha suggellato di concitarsi contro l’odio di tutto il mondo, havendomi detto di più il signor Cardinale Durazzo, rittornato hieri di Roma, che non seppe il Cardinale Antonio con qual amico andarsi a consigliare (sì pochi se ne ha fatti in 20 anni)»: AAE, CP, Gênes 4, cc. 188-189. Non mancarono in quell’occasione scritture in difesa di Antonio, che lamentavano l’inverosimiglianza delle accuse rivoltegli e il carattere eccessivo della reazione francese, ma non mi pare che avessero una gran circolazione. Vedine un paio in BAV, Barb.lat. 4696, cc. 272-283 (datata 12 novembre 1644, incipit: “Gran peso m’impone V.S. in ricercare il mio parere...”) e 287-292 (datata 29 ottobre e firmata Santi Conti, incipit: “Mostra V.S.Ill.ma tanta avidità de miei discorsi...”). Il Discorso in riprova delle risolutioni prese contro del Card. Antonio Barberino dalla Francia per haver egli portato la persona del Card. Panfilio al Papato mentre che questo soggetto era da quella escluso (BAV, Vat. Lat. 8380, cc. 360-366, incipit: “Non v’è punta di spada così penetrante …” trova modo tra l’altro di rimproverare il governo francese di esser stato piuttosto dalla parte di Parma che della Chiesa nella guerra di Castro. Alla Corte di Francia «un soggetto di qualità ha tentato la Regina, insinuandole con desterità qualche concetto a favore de Barberini, ma Sua Maestà […] contro il solito della sua natural placidezza ha cambiato colore et aspetto et gl’ha risposto così altamente invehendo contro di loro che chi parlava non ha più ardito avanzarsi a dire parola in loro sollievo». Quanto a Mazzarino, era portato ad attribuire la colpa di tutto ad Antonio, «cambiatasi da Sua Eminenza l’amicitia che professava con Antonio in altretanto disgusto, tenendosi più deluso d’ogn’altro, come quello che s’è protestato sempre mallevadore della fede e costanza di lui nel servitio di questa Corona. Gl’amici del Cardinale Antonio, de’ quali ne ha alcuni alla Corte et appresso Mazzarini medesimo, non han potuto divertire il turbine» (ASVe, DAS, Francia 101, c. 446r-v, 458-459, Battista Nani, 18 e 25 ottobre 1644).

[3] Linage 1678, pp. 12 sgg; Coville, pp. 40-46; Pastor, XIV, I, p. 38; Malgeri, pp. 27-31. Come riferiva l’agente genovese a Roma, Maurizio Giustiniani, il Cardinale Antonio aveva prestato ventimila scudi a Teodoli perché acquistasse la carica di Uditore di Camera e dopo la rottura ne aveva chiesto la restituzione (ASG, AS, 2355, avviso del 4 febbraio 1645). Materiale relativo alle polemiche tra Antonio, Saint Chamond e i fratelli Teodoli (in particolare il manifesto pubblicato a sua difesa da Saint Chamond nel gennaio del 1645) si trova un po’ dovunque e per esempio in BNR, FVE 394 e FS 269 e 451; BAB, A.567. II; BAV, Barb.lat. 3206 (Monumenta Ughelli, III), cc. 207 sgg; BUB ms. 880 (1321) III, n.8-9, 1042 (1662) n. 36-37, 1069 (1706); BUG C.I.3 ecc. Nel suo manifesto Saint Chamond sosteneva di aver suggerito al Marchese di San Vito, che gli si era presentato ai primi di settembre, che lui e suo fratello «trattassero col Cardinale Antonio come da sé et senza impegnarmi a cosa alcuna». Tutto il resto sarebbe avvenuto a sua insaputa. Saint Chamond si appellava alla testimonianza del Marchese di San Vito specialmente a proposito dell’inserimento tra le condizioni per l’elezione di Panfili della richiesta di una grossa somma di denaro. San Vito confermava nella sostanza le affermazioni di Saint Chamond: confessava di essere stato, insieme con il fratello cardinale, l’autore della richiesta e di aver scritto in proposito ad Antonio alcuni biglietti, assicurando però di non averne mai fatto parola con l’ambasciatore. Saint Chamond si sentiva ingannato da tutti e finì per inimicarsi tutti: nel gennaio del 1645, per esempio, rifiutò di ricevere un gentiluomo del Cardinale Teodoli «dichiarandosi egli disgustatissimo di questo cardinale, come di Bicchi ancora, nominandoli traditori del suo Re et di lui proprio aperti inimici» (ASVe, DAS, Roma 122, c. 55, 14 gennaio 1645). Nel gioco di scaricabarile tra il Cardinale Antonio e l’ambasciatore le maggiori responsabilità venivano comunemente attribuite al primo. «Il Cardinale Dongo che si rittrova qua», riferiva da Genova Giannettino Giustiniani, «ha parlato altamente a favore del signor ambasciatore Sansciomond [...]. Lo stesso Cardinale Dongo mi ha detto che quando si seppe per Roma che havendo il Cardinale Antonio pregato il marchese di Santo Vito di voler venire costì da Sua Maestà a suo nome et che egli ricusò, che la corte romana non ne fece buon giudicio, per altro che in conclave, se si fosse pottuto autorizzare l’obiettione fatta al Cardinale Panfilio dalli Cardinali Bichi et di Lione con un minimo ordine reggio, il quale venne dinegato dal Cardinale Antonio asserendo che non vi era, di 54 cardinali, 55 l’haverebbero escluso [...] ma come si restrinse dal signore ambasciatore Sansciomond nel solo Cardinale Antonio che si osservassero le intentioni di Sua Maestà, così dicendosi dal Cardinale Antonio che non solo non vi era ripugnanza, ma desiderio, restò Papa» (AAE, Gênes 4, cc. 190-192, Giustiniani a Mazzarino, 15 novembre 1644).

[4] Arnauld, I, p. 130. «Conciossiacosa che i Barberini vedutisi strapazzare tanto indegnamente dalla Corona di Francia in persona del Cardinale Antonio [...] si erano rivoltati sotto la direzzione del Cardinale Francesco, capo della famiglia, di procurare [...] di essere accolti sotto la protezione della Corona di Spagna offerendosi di abbracciar sinceramente con il seguito delle creature d’Urbano la fazzione austriaca. Vi interponeva i suoi caldi ufficii Papa Innocenzo, non solo a titolo di gratificare gli autori d’ogni sua grandezza, ma insieme di apportar profitto a quella Corona verso la quale professava le maggiori inclinazioni [...]. Conoscevano et havevano in stima ugualmente l’acquisto nello accettar l’offerte i più de ministri spagnuoli in Italia e quanto si confacesse alle massime loro tramandate da Filippo II lo assicurarsi, con un tanto seguito congionto a quello si apparecchiava loro da Panfiliani, quasi per sempre di tutti gli affari di quella Corte e con essi degli interessi loro in Italia. Divertiti però ne furono da gagliarda contraposizione del Cardinale Carlo de’ Medici avalorata dalla determinazione del Gran Duca, irreconciliabile co’ Barberini et avido di vendetta, per dare esempio a posteri suoi sudditi naturali successori in lo avenire nel Pontificato di conservarli il rispetto et la venerazione»: Della Torre, Historie, II, pp. 1122-1123; cfr. Brusoni 1661, p. 440; Galluzzi, pp. 50-51.

[5] Del risentimento del Cardinale Francesco, «del quale, benché sepelliti fossero in profondissima dissimulazione, non mancarono talhora di prorompere indizi assai chiari», parla anche Della Torre, Historie, II, pp. 1126-1127: «Non poteva inghiottire il Cardinale Francesco emulo anzi priore in autorità appresso il Papa Panzirolo, da natali oscurissimi da sé promosso al cardinalato, [...] un figlio di sartore». Le allusioni al mestiere del padre di Panciroli dovevano essere non infrequenti negli ambienti di Curia. Si raccontava ad esempio che in conclave durante un clamoroso litigio tra il Cardinale Mattei e Antonio Barberini Panciroli avesse preso le parti di quest’ultimo «e che all’hora Matthei replicasse: Hor questo mancava per accomodare il giubbone, alludendo al padre sarto» (BAV, Barb.lat. 4669, incipit: “Il Signor Cardinale de Medici...” 284v). A “disgusti” tra il Cardinale Barberini e Panciroli accennava l’agente di Parma, Francesco Mangelli nell’ottobre del 1645 (ASP, CFE, Roma 423, 28 ottobre 1645).

[6] Tra le molte accuse rivolte a Innocenzo, quella di farsi manovrare da altri pare che lo indispettisse di più. Le testimonianze in proposito sono innumerevoli. Quando nella promozione cardinalizia del marzo del 1645 tutti riconobbero l’opera dei Medici, Innocenzo si lamentò con l’ambasciatore di Venezia, Angelo Contarini: «Signor Ambasciator, le vogliamo conferir una cosa in tutta confidenza et è vera: intendemo che Gramonville sia andato a Fiorenza per parlar alto col Gran Duca imputandolo che i disgusti della Francia per la promotione sian provenuti da gl’ufficii di lui e della sua Casa et che insomma tutti i cardinali nuovi sian stati promossi a loro suggestione e compiacenza. Le affermiamo Signor Ambasciatore e lo giuriamo per la vita nostra che in questa promotione ha havuto tanta parte la Casa de Medici, né col consiglio, né con la persuasione, né con le preghiere, quanta ne ha havuta questo scagno,toccandolo con le mani, che gl’era vicino» (ASVe, DAS, Roma 122, c. 227r, 6 maggio 1645). Quando Francesco Barberini fuggì da Roma, scrisse al Papa per scusarsi, ma finì, forse intenzionalmente, per irritarlo ancor di più dichiarando «di conoscer la sua buona volontà verso di lui et di haverla conosciuta anco avanti che fosse Pontefice, ma [...] di sapere ch’ella sia attorniata da persone male intentionate verso la sua Casa che le somministran cattivi consigli», il che, commentava Innocenzo, equivaleva a dargli dell’«huomo da niente et che si lasciasse tirar per il naso». Qui il Papa volle appellarsi al giudizio del nuovo ambasciatore di Venezia, Alvise Contarini: «che ben potevimo noi conoscer s’egli trattava le cose della sede Apostolica da se stesso con propri consigli e deliberationi» (ivi, Roma 123, c. 340v, 28 aprile 46). Lo stesso Alvise Contarini, però, lo avrebbe deluso di lì a poco quando, a proposito dell’impunità promessa dal Papa ai Barberini, non potendo accontentarsi di semplici assicurazioni verbali, tentò di giustificare la richiesta di un impegno scritto dicendo che non si dubitava di lui, ma dei suoi congiunti: «Chiamo quel Christo ch’è là in testimonio», ribatté il Papa, «se mai ad alcuno de miei ho permesso di parlar in queste materie; ho tutto fatto da me stesso. Lei vede che al cardinale mio nepote io do pochissima auttorità, a pena lo lascio parlare [...] li domando qualche volta: Che fareste voi nel tale negocio?, ma lasciare che mi dii consiglio, questo mai...» (ivi, Roma 124, c. 139v, 8 settembre 1646). In effetti Innocenzo esercitava la sua autorità soprattutto a spese del nipote e immaginava di poter dimostrare al mondo la propria indipendenza di giudizio bistrattandolo pubblicamente. Inutile dimostrazione, visto che nessuno pensava sul serio che il Papa potesse rimettersi alla volontà del povero Camillo (ci voleva Gualdo Priorato 1658, 1674 per parlare a proposito di Camillo di «sublime ingegno» e di «destrezza mirabile»). Della sua indipendenza di giudizio Innocenzo volle parlare anche con Rapaccioli in quell’udienza del 25 settembre 1646, che, seguendo immediatamente la riabilitazione dei Barberini, fu occasione per un’ampia spiegazione tra i due: Innocenzo tentò di convincere Rapaccioli «ch’egli fa da sé» e, al solito, disse «che nelle cose seguite il Cardinale [Pamphilio] non è stato a parte alcuna delle risolutioni» (BAV, Barb.lat. 8746, 26r). Sull’influenza di Olimpia sul cognato le opinioni non erano unanimi: il Cardinal Grimaldi, per esempio, la riteneva largamente sopravvalutata: «io mi confermo nell’opinione che nelle cose di momento il Papa non si lasci regger e forse non confidi punto in questa donna [...], ma che lei con artificio e con l’imperio sopra ministri facci comparir l’autorità e credito suo maggiore che non è. Stimo più espediente coltivar il Papa immediate si come andrò facendo» (BAV, Barb.lat. 8723, c. 194, 3 marzo 1647). La presunzione di far da sé e la diffidenza per chi lo circondava portavano Innocenzo a trascurare l’opinione dei cardinali e a inaugurare nei loro confronti uno stile di governo insolitamente sprezzante e perfino più autoritario di quello di Urbano.

[7] Sulla singolare concezione che Panciroli aveva del suo ruolo vedi quanto riferiva Alvise Contarini al suo governo il 25 novembre 1645: «Mi ha detto et pregato che non vadi a visitarlo, poiché per li suoi rispetti non bisogna che mostri di volersi arrogare auttorità». Contarini, allora, che aveva l’incarico di sollecitare dal Pontefice un efficace aiuto nella guerra contro il Turco, gli aveva mandato il suo segretario «ad essortarlo di fare i più vivi ufficii» con il Papa, «ma egli si stringe nelle spalle, mostrando di ben conoscere la ragione che si ha, ma dice che bisogna caminar con gran desterità» (ASVe, DAS, Roma 123, c.81v;  vedi anche la relazione di Contarini in Barozzi Berchet, Roma, p. 71). Alle accuse di essere l’ispiratore della politica antifrancese di Innocenzo, Panciroli, scrivendone al nunzio a Parigi, replicava nell’aprile del ’45 negando qualsiasi responsabilità in proposito: «né io m’ingerisco in altro che in eseguire quello tanto che da Sua Santità mi vien commandato, professando assai manifestamente la Santità Sua di non haver bisogno di altro Consegliere che di se stesso, parendoli (et con ragione) che nessuno più di lui sia pratico et informato delle persone, pretensioni, et affari del mondo et io sarei molto temerario se pretendessi di parlare dove non sono chiamato. Che parte io habbia nelli negotii è assai noto, che è il non poter nulla né pretendere di poterlo, essendomi ciò di grandissimo et unico sollievo nelle fatiche» (cito da ASV, Fondo Bolognetti  148, Lettere scritte dal Cardinal Panziroli Segretario di Stato di Papa Innocenzo X° a M.r Nunzio in Francia…, c. 78r, Roma, 24 aprile 1645). Gustoso il racconto dell’intervento dell’abate Vaini presso Panciroli dopo la fuga di Antonio da Roma in T.Raggi c. 72: «Procurò il Cardinale Antonio di honestar con qualche apparente facia la sua partenza o di placare almeno con le humiliazioni lo sdegno del Papa. Scrisse perciò a Sua Santità una riverentissima lettera domandandogli perdono dell’errore commesso in partirsi senza chieder licenza, et incarricò all’Abbate Vaini il pensiere di farla pervenire a Nostro Signore. Ricorse l’Abbate per ben accertare il ricapito della medesima al Cardinal Panziroli, creatura confidentissima del cardinale e dal medesimo al maggior segno beneficata, ma Panziroli in vece di assumerne l’incombenza, cavandosi la beretta e grattandosi il capo disse: Questo è un bel negoziato per chi lo vuol fare! A me però non dà l’animo.  Non poté l’Abbate in sentir tal ripulsa non mostrar meraviglia e rimaner alquanto confuso; nondimeno soggionse: Non posso credere che sia V.E. per iscordarsi di se stessa. Degnisi di considerare chi farà questa parte se non la fa V.E. Al che rispose il Cardinale: Signor Abbate, conosco l’humor del Papa et il suo sdegno. Non voglio provocarmelo contro. Replicò ad ogni modo il Vaini: Ad quem ergo fugiam nisi ad te vadam? E Panziroli stringendosi nelle spalle si licenziò con dire: Non la posso servire». Si veda anche la testimonianza di Antonio Rota, segretario del Cardinal Barberini, che questi mandò a Panciroli per annunziargli, secondo consuetudine, ma con la fondata speranza che Panciroli non ne volesse saper nulla, l’imminente passaggio della sua Casa al servizio di Francia: Antonio Rota «trovò il Cardinale che stava lavandosi le mani e dopo il saluto di debita riverenza gli espose come il Signor Cardinale suo Padrone il mandava da Sua Eminenza a richiederla de’ suoi favori con quella confidenza che gli dava d’essere suo tanto amico e servitore. A queste parole con riso sardonico ma voce alterata rispose: Il signor Cardinale Barberino vuol vivere a suo capriccio, io non voglio sentir altro. A tali parole il Rota fattagli riverenza prese commiato. Richiamatolo il Cardinal Panzirolo gli soggiunse: Il Cardinale Barberino con le sue inquietudini vuol precipitarsi e però fate conto che quello volevate voi dirmi fosse materia del S.Offitio e però non voglio saperne altro. Il Rota senza replicare cosa veruna fattagli di nuovo riverenza se ne partì» (BAV, Barb.lat. 4702, c. 41). Dopo la riconciliazione del Papa con i Barberini, il Cardinale Grimaldi scrisse di Panciroli a Francesco Barberini: «per parlar con la mia riverente libertà non merita altro ringratiamento che della sua buona intentione, perché quando il Papa ha voluto meco far apparir la gratitudine di Sua Eminenza verso l’Eminenza Vostra non mi ha detto altro se non che si affligeva e che non volendo contradir quando Sua Santità stava sdegnata e si querelava, Panzirolo non diceva niente, ma dimostrava nell’afflitione il suo sentimento» (BAV, Barb.lat. 8723, Lettere di Girolamo Grimaldi, c. 166r, 26 novembre 1646). Nicoletti (VIII, c. 743r), a proposito della promozione di Panciroli a cardinale, ne lodava i meriti, ma non mancava di ricordarne la scarsa lealtà: «fu opinione universale della Corte che se Panziroli havesse conservata sino al fine la dovuta gratitudine verso la Casa Barberina saria stato degno d’ogni più grande encomio». Giannettino Giustiniani, comunicando a Mazzarino la scomparsa di Panciroli, scriveva che era morto «senza che sij stato compianto da alcuno, perchè mai a veruno seppe far bene» (AAE, CP, Gênes 8, c. 191r-192v, 14 settembre 1651). Il Card. Cecchini, che attribuiva a Panciroli tutte le sue disgrazie, usava esattamente le stesse parole: «non fece mai bene ad alcuno ma nocque sempre a tutti» (Fumi, p. 319). «Nostri temporis verum ingratitudinis portentum» e mancatore di fede agli amici «testes sint Sacchetti, Magalotti, Falconieri, Farsetti aliique plures quibus infausta fuit ipsius amicitia» lo dice Cesare Magalotti (se è sua, come credo, Joannis Jacobi Cardinalis Panziroli vita et mores, incipit: “Sutrinae Tabernae…”, BAV, Chig. c.VIII.215, c. 316r e 320r. Magalotti aveva già dedicato a Panciroli una sferzante biografia nel 1644: BAV, Chig. N.II.43, cc. 404 sgg. Nello stesso codice, però, a cc. 334-337 una scrittura in difesa di Panciroli - in doppia versione, latina e italiana, datata 3 novembre 1651, che comincia “Roma semper prodiga honoribus…” e “Roma sempre prodiga di honori…” - è una rapida ma puntuale confutazione della precedente; vedi nell'appendice Scritture di Conclave le note dedicate a Cesare Magalotti). Ameyden (BCR, ms. 1336, cc. 745 sgg) riconosceva a Panciroli una grande operosità e giudicava generalmente benefica e sottovalutata la sua influenza sul Pontefice. Ma anche in ambienti decisamente ostili, come quello dell’autore della Proposta del 1651, Panciroli otteneva un analogo riconoscimento: forse, si legge nella Proposta, senza l’influenza di Panciroli, le azioni di Innocenzo X «si sarebbero dette crudeli là dove si sono dette severe, [...] sordide là dove si sono dette dissamorevoli, [...] spenzierate là dove si sono dette lunghe, [...] tutte feminine là dove si son dette neutre» (BAV, Barb.lat. 4673, c. 162). (Sulla Segreteria di Stato al tempo di Panciroli vedi Menniti Ippolito 1998, specialmente pp. 178-179 e 1999, pp. 39-57, a cui rimando per quanto riguarda la precedente produzione bibliografica). Nel fare l’elogio di Panciroli Gualdo Priorato 1658 non trovò niente di meglio da dire se non che «hebbe egli la più pretiosa bussola che scortar possa l’intelletto humano ne’ gran maneggi e fu la flema e la dissimulatione». Con il solito tatto Moroni (vol. LI, p.94) ha scritto di Panciroli: «Lasciò fama di cauto, giusto, prudente, nemico dell’avarizia e dei regali, sebbene fu nel numero di quei che in effetto non sono buoni giovare né a sé né agli altri quantunque costituiti in potere o per mancanza di attitudine o per estrema delicatezza».

[8] AAE, CP, Gênes 4, Giannettino Giustiniani a Mazzarino, 11 ottobre 1644: «Tutto che il Papa habbi dichiarato Generale di Santa Chiesa il signor don Camillo suo nipote et che il Cardinale Panziroli si affatichi a più non pottere per fare riuscire il matrimonio del suddetto signore con la figlia di Don Taddeo Barberini, il Cardinale de Medici  fa il possibile anche lui per impedirlo, facendo instanza con il consenso di Donna Olimpia perchè il Papa lo facci cardinale et quando sua Santità non si inclini a farlo cardinale, le ha proposto due matrimonij d’una figlia del Duca di Modena et l’altro della figlia della principessa della Mirandola, portato dal principe di Massa et da suo figlio monsignore, stato dichiarato maggiordomo del palazzo apostolico, sì che con estrema curiosità si attende dove piegherà il Papa». Già una settimana dopo la fine del conclave era «comune opinione di Roma», secondo Giminiano Poggi, che ne scriveva al Duca di Modena, che il Papa «non applichi in modo alcuno a fare parentela co’ Barberini [...] e che in oltre fra pochi mesi siano per vedersi uscire degli ordini che stringeranno nei loro limiti le autorità usurpate». Un qualche legame matrimoniale con la famiglia del Papa era previsto, sia pure, come ho avuto modo di dire, nell’ambito di una più complessa operazione triangolare, nelle intese che gli Este avevano raggiunto con i Barberini durante il conclave. La voce di un matrimonio tra Camillo Pamphili e Lucrezia Barberini li aveva messi in grande allarme, temendo con quello, nonostante le poco convincenti rassicurazioni dei Barberini, di essere esclusi dalla nuova combinazione di potere. Fu con qualche soddisfazione, pertanto, che gli agenti del Duca e del Cardinale d’Este videro declinare l’influenza dei Barberini a Corte e nascere l’effimera ipotesi che Camillo, invece di Lucrezia, sposasse una delle principesse della Casa (ASM, CA, Roma 247, fasc. Giminiano Poggi, agosto-novembre 1644. Qui vedi la relazione del Negotiato del Bonvicini col Card. Rapaccioli del 23 settembre: pressato da Bonvicini, segretario di Rinaldo, Rapaccioli aveva confermato l’interesse dei Barberini per la soluzione concordata in conclave, escludendo però che si potessero «accomodare ad esserne i motori principali», parendogli che avessero «bastantemente operato con far pervenire a notizia a Nostro Signore l’abozzo del pensiero et hora doversi lasciar a Nostro Signore medesimo il digerire fra se la proposizione». Rapaccioli diceva anche di immaginare le perplessità del Papa di fronte «ad un parentado così alto» come quello con Casa d’Este «perché essendo le cose di questo mondo troppo fragili et essendo un vecchio troppo vicino al suo fine, poteva succedere che egli poco prudentemente havesse impegnata la sua Casa in grandezze che riuscissero poi alla medesima insoportabili». E poi «che direbbe Medici e Firenze co’ quali si professano altissimi principi d’inclinationi e di obligationi?». Senza contare che, col dare esecuzione agli accordi subito dopo il conclave il Papa «lascierebbe materia a calonniatori di rinfacciare che la sua eletione fosse stata un mercato». Sui paralleli negoziati Este-Panfili vedi Simeoni, pp. 62-67). A questo punto a deludere, con quelle dei Barberini, le speranze estensi intervennero le grandi manovre dei Medici, che riuscirono a tenere sotto controllo la politica matrimoniale del Papa. I Medici risultarono senza più ombra di dubbio i trionfatori del conclave con la promozione cardinalizia del novembre e col successivo matrimonio Ludovisi.

[9] Già «nel primo abboccamento col Gondi [Innocenzo] dichiarò sinceramente la sua gratitudine dicendo: “Il Signor Cardinale de’ Medici ci ha fatto Papa...”»: Galluzzi, p. 49. Sull’influenza dei Medici su Innocenzo Galluzzi ritorna più volte, anche in relazione alle proteste formulate in proposito da Grémonville al Papa e da Saint Nicolas allo stesso Granduca (pp. 52, 54, 56). Le vanterie dei Medici - per altro non infondate - sul ruolo svolto in conclave e sull’ascendente acquistato a Palazzo suscitarono la gelosia di Francesco d’Este, che naturalmente avrebbe voluto vedere il fratello nei panni del Cardinale de’ Medici: «Si sente da tutte le parti che Medici e i Fiorentini si pavoneggiano assai dell’elezione del Papa e fanno correr da per tutto l’haver havuta la maggior parte nell’elezione. Sentirei volentieri che si dicesse anche di Vostra Altezza e bisogna haver qualche amicizia di questi che scrivono fuori, con i quali i Fiorentini fanno sempre grandissima manifattura. Queste paiono in apparenza bagatelle e vanità ma in sostanza servono grandemente ne’ negozi. Bisogna che ancor noi procuriamo d’haver la nostra parte con i romani...» (ASM, DP, 434, Memorie per lo Sig. Principe Cardinale, 27 settembre 1644). Il rammarico di Francesco doveva essere tanto più vivo in quanto a Modena, dove non si aveva una grande opinione del Cardinale de’ Medici, si era sperato, con qualche ingenuità, che gli Spagnoli, «consapevoli [...] di non poter trovare nel presente lor protettore né gran fortezza d’animo negl’incontri né gran perspicacità d’intelletto nelle difficoltà», finissero con l’affidare proprio al principe Rinaldo la direzione effettiva della fazione (“Egli è veramente cosa strana...” cit.). Ad accreditare l’azione di Rinaldo in conclave mediante un’opportuna campagna di opinione Francesco I aveva pensato sin dall'inizio del conclave stesso, incaricando Girolamo Codebò, vescovo di Montalto, di occuparsene: «Giaché gli altri procurano con tanto studio di guadagnarsi le penne de’ gazzettanti non sarà fuor di proposito che cominciamo col publico esempio a farne qualche capitale. Ci sarà dunque caro che V. S. faccia un poco di pratica con tutti quelli che costì professano un tal mestiere e metta loro in considerazione la convenienza di scriver sempre bene del Sig. Principe Cardinale» (ASM, CA, Roma 247, Minute a Girolamo Codebò, 15 agosto 1644).

[10] ASVe, DAS, Roma 122, cc. 27 sgg. Al fallimento del progetto di legare in matrimonio Camillo Panfili e Lucrezia Barberini aveva contribuito, pare, lo stesso Saint Chamond che del resto non faceva che interpretare l’ostilità del governo francese: Arnauld,I, pp. 130-131; Linage 1678, pp. 13-14.

[11] Nominato da Urbano, Bagni era arrivato a Parigi quando il Papa era in punto di morte. In sede vacante, nonostante qualche ritardo e una certa iniziale reticenza, era riuscito a farsi ammettere dalla Corte «all’esercitio della Nontiatura col riflesso che come ministro della Santa Sede la vacanza non osti, se bene non [avesse] potuto presentare che brevi d’un morto» (ASVe, DAS, Francia 101, Battista Nani, 23 agosto 1644 n. 38; cfr. Biaudet e Karttunen). Bagni era stato confermato dal nuovo pontefice, ma di lui, scriveva Angelo Contarini nel giugno del 1645, Innocenzo e i suoi collaboratori «poco si fidano e solo a quella Corte si va tolerando, perché scorgendosi essere egli quivi ben veduto, non si vuole dar adito a maggiori disgusti col procurare di levarlo»; Alvise Contarini, successore di Angelo nell’ambasciata di Roma, avrebbe ripetutamente constatato l’ostilità del Pontefice per Bagni ritenuto, non a torto, amico dei Barberini (ASVe, DAS, Roma 122, c. 257r e Roma 123, cc. 35v, 152r, ecc.). Secondo l’agente di Parma a Roma, Francesco Mangelli, il Papa, non fidandosi del nunzio, si rimetteva per le informazioni di Francia agli agenti dei Medici, i quali, convinti dell’impossibilità di una vera riconciliazione tra i Barberini e la Francia, contribuirono non poco a ingannare su questo punto Innocenzo (ASP, CFE, Roma 423, Mangelli a Gaufrido, 4 novembre 1645). Che Bagni fosse ben veduto in Francia (ed anzi il solo che il governo francese fosse disposto a tollerare) è confermato dal Nani che nel marzo del ’45, subito dopo la discussa promozione cardinalizia di Innocenzo, riferiva tra l’altro come, nel comunicare al nunzio la rottura, per rappresaglia, delle relazioni con il Pontefice, Mazzarino avesse tenuto ad assicurarlo personalmente «che s’egli vorrà dire qualche cosa sarà udito da Sua Maestà volentieri come Prelato di buona intentione verso il publico bene et la Francia, ma che a qualunque altro ministro del Papa si chiuderà la bocca et si farà arrossire e ammutire tra i rimproveri» (ASVe, DAS, Francia 102, c. 57r, 28 marzo 1645). Della sua fedeltà ai Barberini fanno fede i dispacci che sino alla fuga da Roma mandò regolarmente (e segretamente: «non è bene», scriveva nel settembre del 1645, «che nomini me con altra persona vivente se non con il Sig. Card. Antonio») al Cardinale Francesco; nell’autunno del 1645 seguì con consigli e avvisi diversi il viaggio del Cardinale Antonio verso la Francia. Come scriveva a Francesco il 27 ottobre di quell’anno, «io cerco servirla più con fatti che con parole pregandola sempre di quella secretezza che sa essere necessaria». Lettere a Francesco Barberini dall’aprile del 1644 al febbraio del 1646 in ASV, Segr. Stato, Francia 92A, Registro di lettere e cifre di mons. Bagni, cc. 1-62r; altre a Francesco e Antonio Barberini in BAV, Barb.lat. 8255 (1649-1652) e 8256, cc. 1-81 (1653-1656). Pare però che il nunzio Bagni abbia poi riconquistato la fiducia di Innocenzo (e recuperato i quattrini che gli erano dovuti), assecondando le mene pontificie contro Mazzarino. Innocenzo, scriveva Cesare Magalotti nel 1650, «ha reintegrato nella sua grazia e confidenza mons. di Bagni nunzio residente per haver tenuto mano a i trattati de nemici della Corona facendogli pagare tutte le provisioni già ritenute per la diffidenza c’havea seco» (BAV, Chig. C.III.60, Discorso intorno al Pontificato presente. Considerazioni pel futuro, 7 marzo 1650, incipit: “È opinione invecchiata…” c. 242r). Sul nunzio Bagni: Blet 1993, pp. 423-438. Quanto a Panciroli, anche Galluzzi (p. 64) lo considera, evidentemente sulla base di documenti granducali (ma per anni nei quali già si profilava il riavvicinamento tra Barberini e Pamphili) «il più coperto e artifizioso fautore del partito barberinesco» in Curia. Oltre ai Medici, anche Venezia volle approfittare della disgrazia dei Barberini per vendicarsi dei suoi presunti nemici in Curia. Così, tra le prime vittime delle epurazioni antibarberiniane fu Felice Contelori, che, appunto su pressioni di Venezia, venne destituito da Segretario dei brevi e da Prefetto dell’Archivio e a cui vennero sequestrate in malo modo tutte le carte, dell’Archivio e no, che aveva in casa. Sull’episodio, che fece gran rumore negli ambienti letterari, vedi Lumbroso, p. 187, Beltrani, 1880, p. 20-22 (oltre alle lettere di Cassiano Dal Pozzo, riporta le annotazioni di Ameyden e Gigli) e, naturalmente, la bella voce di Franca Petrucci in DBI. Contelori, del resto, era la bestia nera dei seguaci dei Pamfili (e dei Medici): lo si capisce, tra l’altro, dagli insulti («scemonito», «sporco nell’animo e spiritato nel cervello» ecc.) che gli rivolgeva il Discorso dell’ingratitudine de Barberini, una delle più diffuse (e violente) scritture antibarberiniane (incipit: “A torto V.S. querela…”; cito da BAV, Chig. I.III.87, c. 256r).

[12] ASVe, DAS, Roma 122, cc. 32 sgg, 7 gennaio 1645.

[13] Rossi 1928, p. 22. ASVe, DAS, Roma 122, cc. 249v-250r, Angelo Contarini, 10 giugno 1645 e Roma 123, cc.162v-163r, Alvise Contarini, 6 gennaio 1646: Alvise Contarini non mancò di sollecitare i buoni uffici di Donna Olimpia nella questione dei Barberini che alla fine fu risolta, appunto, con il suo contributo.

[14] «Del Signor Cardinale Francesco», riferiva nel dicembre del 1644 il gesuita Leone Santi a Odoardo Farnese, suo antico discepolo, «un gran prelato ha detto che tra hoggi e domani gli bisognerà render i conti e che l’haveva inteso di buon luogo». Tra i famigliari dei Barberini si segnalavano le prime defezioni. Un servitore del Cardinale Antonio, riferiva Santi, si era rumorosamente licenziato protestando di non poter «star più sotto un castrone tanto imperioso e molesto» (ASP, CFE, Roma 422, 4 dicembre 1644; la lettera si trova per errore nel fascicolo relativo al 1640). «Roma tutta», scriveva Giminiano Poggi nell’ottobre, «trionfa hora et esulta dell’infame accidente accaduto al Card. Antonio, et è un miracolo che neanche le creature sue proprie più confidenti e più beneficate mostrano un minimo segno di dispiacere, anzi si dichiarano di sentirne gusto» (ASM, CA, Roma 247, Giminiano Poggi, 29 ottobre 1644)

[15] Erano stati i Cardinali Spada e Panciroli a suggerire al Papa di intercedere in Francia a favore dei Barberini (Siri, Mercurio, V, 1655, I, pp. 335-336, ripreso da Brusoni 1664, pp. 40-41). Il governo francese non ne volle sapere: «Io pregai Sua Eminenza [Mazzarino] a soprasedere ogni dimostrazione verso la persona del Signor Cardinale Antonio», scriveva il Nunzio Bagni il 19 ottobre 1644, «ma non è stato possibile trattenere la risoluzione di Sua Maestà e del Consiglio» (ASV, Segr. Stato, Francia 92, Cifre del Nunzio Bagni, c. 17). Era stato interessato alla cosa anche Michele Mazzarino con la solita promessa della nomina cardinalizia, ma Michele aveva «prudemment» (come si legge in Arnauld, I, pp. 35-36; cfr. Malgeri, pp. 31-32) declinato l’offerta. In verità non sembra proprio che Michele avesse declinato alcunché. La mossa ad ogni modo aveva irritato la Reggenza, che voleva la porpora per Michele come pubblica e gratuita dimostrazione di amicizia da parte del Papa, non come oggetto di scambio: ASV, Segr. Stato, Francia 92, Cifre del Nunzio Bagni, cc. 32-33 e 66, 17 novembre 1644 e 6 gennaio 1645 e le lettere di Panciroli a Bagni (ASV, Fondo Bolognetti 148); vedi la lettera di Mazzarino a Michele del 25 novembre 1644, Mazzarino (Chéruel), II, pp. 98-99. Con il suo intervento a favore dei Barberini, scriveva Battista Nani da Parigi, «il Papa non riporterà altro che d’haver di molti gradi accresciuta la sua [di Mazzarino] diffidenza». Ma, aggiungeva, «si crede veramente che il Papa habbi con tali preghiere voluto sodisfare alle apparenze di qualche gratitudine verso li Barberini, ma che non sii per interessarsi più oltre» (ASVe, DAS, Francia 101, cc. 499-500, 15 novembre 1644). Angelo Contarini aveva appreso dal Cardinale d’Este «che alla Beatitudine Sua recavan non poco fastidio questi sentimenti della Francia contro Barberini; non essersi voluto in quella Corte apprire le lettere d’Antonio e che questo cardinale finalmente era condesceso a mandar in Francia i viglietti scritti dal marchese Theodoli fratello del cardinal di questo nome al medesimo Antonio e fatti capitare in concistoro, che è quello desiderava la Francia; missione che maggiormente dicesi possa aggravare le colpe del marchese di Saint Sciomon» (ASVe, DAS, Roma 122, 24v, 31 dicembre 1644). Sui timori di Innocenzo circa una possibile accusa di simonia e sulle pressioni da lui esercitate sulla Francia da un lato e sul Granduca dall’altro affinché riaccogliessero i Barberini nella loro grazia vedi Goulas, II, pp. 48-49, Fontenay, II, p. 317, Galluzzi, pp. 50-51.

[16] ASVe, DAS, Roma 122, c. 35r, 7 gennaio 1645. Secondo quanto si legge in Arnauld, I, pp. 32-33, a Mazzarino furono consegnate le copie dei biglietti, non gli originali e lo stesso risulta da altre fonti, tra le quali Della Torre, Fuga, pp. 90-91, dove la fuga di Antonio in Francia veniva giustificata «con il rispetto dovuto ad un Re così grande» e con la necessità di «portar seco quei ricapiti, quali n’erano il principal fondamento, né fidar si potevano in altre mani»). Al Papa, però, a detta di Tomaso Raggi, Antonio voleva (con scarso successo) far credere il contrario, per non dover consegnare a lui gli originali. L’irritazione di Innocenzo e l’escalation di intimidazioni e ricatti nei confronti di Antonio nascevano appunto, secondo Tomaso Raggi, da «l’avergli poi negati quei viglieti e cedole passati tra loro nel trattato della di lui elezione al Pontificato, alla restituzione de quali quanto più si mostrava resistente il Cardinale Antonio, con la scusa di haverli mandati in Francia, altretanto premeva et anhelava Innocenzo, qual perciò hor’in una hora in un’altra maniera teneva agitato il cardinale»: T.Raggi, c. 68. Sempre secondo Arnauld, I, p. 32, i biglietti sarebbero stati affidati da Antonio ad Alessandro Fabri, già segretario della nunziatura di Francia e ora uomo di Mazzarino. Mazzarino lo aveva spedito a Roma nell’agosto del 1644. Nel darne notizia al Cardinale Barberini Malatesta Albani scriveva: «il Signor Cardinale Mazarini dice di mandarlo per suoi domestici affari, però credo che particolarmente venga per osservare gli andamenti del Signor Cardinale di Valanzé, del Signor Duca di Buglione et ancora del Signor di San Chaumon et anche per qualche prattica di futuro Pontificato. Vosta Eminenza resti per tanto informata che detto Alessandro è puoco affettionato all’Eccellentissima Casa Barberina et questo l’ho conosciuto da i suoi discorsi» (BAV, Barb.lat. 8000, c. 110r, 6 agosto 1644). Il 19 ottobre del ‘44 Giannettino Giustiniani segnalava a Mazzarino il passaggio di Fabri da Genova nel ritorno in Francia (AAE, Gênes 4, c. 177) ma sembra da escludere che avesse già con sé i biglietti del conclave.


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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