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Due lettere contro il Siri
Nella Biblioteca Vaticana, nel codice barberiniano latino 6547, si conservano due lettere di Alberto Morone di violenta polemica contro il Mercurio di Vittorio Siri: si tratta di materiale in qualche modo collegato a quella più ampia confutazione, che, a detta di Cassiano Dal Pozzo, era stata scritta dal Morone in difesa dei Barberini, ma che non fu mai pubblicata per il rifiuto di Michele Mazzarino, Maestro del Sacro Palazzo, di concedere l'autorizzazione alla stampa.[*] La prima delle due lettere sembra indirizzata proprio al Morone, visto l'invito a riprendere e a terminare le storie di Urbano («Se piacque il carattere di Vostra Reverenza nelo scrivere l'istorie al Grand'Urbano, che
aspetta Vostra Reverenza a non proseguirle? mentre le attioni di questo Sommo Pontefice,
come ella giudica, non meritano né il silentio, né d'esser lacerate da un perfido scrittore»), il che naturalmente non vuol dire che sia stata scritta da persona diversa
dallo stesso Morone.
Le due lettere non sono datate, ma oggetto della polemica di Morone, come risulta da
numerosi riferimenti, è, oltre il primo volume del Mercurio, che, composto negli anni
della guerra della Lega contro Urbano VIII, risentiva fortemente, nella ricostruzione delle origini del conflitto per Castro, della propaganda antibarberiniana e in particolare delle tesi della Corte di Parma, anche l'introduzione al secondo volume, nella quale Siri, ormai francese di elezione, tentava, un po' goffamente, di correggere il tiro e di dichiararsi amico o almeno non predigiudizialmente nemico dei Barberini, che nel frattempo erano passati anche loro sotto la protezione di Mazzarino. L'introduzione al secondo volume è del 1646 e probabilmente Morone la
lesse fresca di stampa (le prime copie della nuova edizione del Mercurio giunsero a Mazzarino e ad altri membri della Corte nel luglio del 1646), ma si può anche immaginare che il
Siri ne avesse fatto avere in anticipo il testo ai Barberini per sondarne le reazioni e che questi l'avessero passato a Morone con l'incarico di approntare una tagliente risposta. In ogni caso, poiché Morone morì nell'ottobre del 1646, le due lettere che qui si pubblicano sono gli ultimi suoi scritti, ancora in stato di abbozzo: il suo ultimo tentativo di rendere un servizio ai Barberini.
Il testo che segue mostra nella scrittura una certa trasandatezza, più marcata nella prima delle
due lettere: ci sono parole o espressioni equivoche o incomprensibili, periodi che sembrano non concludersi, altri che sono stati arbitrariamente spezzati in due tronconi; i gruppi tio, ttio, zio, zzio, si alternano senza regola; la h etimologica a volte è conservata, a volte no; la trascrizione di una parola greca è riuscita un grumo di scarabocchi e così via. Nella prima lettera una interruzione sta forse a segnalare una lacuna. Nella trascrizione mi sono limitato a correggere la punteggiatura dove mi è parso necessario per la comprensione del testo; in nota segnalo i miei rari interventi e le principali difficoltà di lettura.
[c. 21r] Lettera del P. Morone contro il Mercurio di D. Vittorio Siri
Ho ricevuto il libro che Vostra Reverenza m'invia per mostrare al Card. Barberino. Libro degno del titolo di Mercurio, idolo delle furberie, che sono abbondanti nell'Autore, come Vostra Reverenza appunto ingegnosamente osserva: non meno che del mestiero de Gazzettanti, quale arte, benché egli rifiuti, ambendo il nome d'Istorico, è però adeguato al mercenario suo studio. Né l'aggiunta alla narratione de fatti con addurre li giuditii e cagioni delle risolutioni lo toglie dalla matricola de sudetti Gazzettanti; impiego nel quale hora si essercitano certi huomini che si arrogano d'immaginarsi i sensi più intimi de Prencipi o per isfacciatamente applicare ogni più sgangherato capriccio loro a quelle attioni che sono più degne e belle, tanto più vengono deformate dal sozo et inadeguato abbigliamento che a dosso gli è stato buttato. Povero mondo se i Prencipi havessero un genio simile a questi Mercurii, quali perché non escano delle città meritano più presto nomi di Pasquini. Il luogo de Mercurii era su li cammini e pubbliche strade [c. 21v] perché là i pellegrini insegnati non si smarrissero. Ma questi moderni Mercurii che stanno nelle città, meglio possono nominarsi Pasquini, statue, poste pure in qualche cantonata mutilate di molte parti, come i Mercurii erano formati senza piedi, simulacri assai conformi alla mostruosità d'huomini che altra gloria non hanno che della dicacità nella bocca, se pure a dir meglio con esse statue più tosto mostra quello che continuamente meritano simili huomini, e spesso riportano, se pure non gl'interviene il divenire per giusta sentenza maravigliose statue senza base nel Ponte Elio o collocate altrove non dissimili a quelle dell'arco di Costantino come ne fu posta una non è molto in Avignone, non dissimile di maniera [1] e di habito a D. Vittorio.[2]
Veramente non sapevo che ce ne fosse copia di questi libri e dubitavo che li giuditiosi del luogo dove è stampato, accorti che con la inverisimilitudine de suoi detti e contradittioni, quali intendevo rinchiudere,[3] produceva nausea [4] e da per se stesso si chiamava mendace, oltre al [c. 22r] dare buona occasione di dire di belle e buone verità, forse non si erano curati che molto si publicasse. Ma o che questi non se ne siano voluti accorgere, o come si sia, vengo a quello che Vostra Reverenza dice che gente non informata, come sono pochissimi formeranno concetti conforme a quelli che leggono. Io replico che è necessario ancora che siano tali lettori senza logica e discorso se non penetrano appena letta la prima facciata e quattro votissime [5] lodi date alle persone che temerariamente vuole il Mercurio biasimare, la malignità di lui d'interesse e rabbia con la quale scrive. Vuole la Reverenza Vostra che il Card. Barberino refletta a queste cose, et astratto nella mole de negotii nel servitio della S. Sede si volga ad un cane che abbaia? e ci comandi lo scacciamo? Troppo honore gli parrebbe di fargli: tocca a noi altri rinfacciare a questi Mercurii e dargli un calcio. Che un calcio? Una minima attione, un pensiero, la sola impresa del Leone, che poco cura una mano di [ciriotti (?)] che allatrano, con il motto [...?][6] mostra qual sia l'animo [c. 22v] de Barberini. Le sudette parole o per dir meglio motto d'Aristide hebbe potere di dare un capestro al detrattore di quel buon huomo mercè [7] dello splendore delle virtù e del silentio in disprezzo del maligno che haveva usato Aristide. Simile splendore, simil silentio ha l' [...?] de Barberini.[8]
Il Card. Barberino stipendia degnamente la virtù degli huomini dotti, più che le lingue e loro stessi mentre dice Vostra Reverenza che non si cura de i loro scritti e che ne mandino a posteri le memorie; ma questo stimolo maggiore li deve essere a scriverne et a dare il dovuto tributo all'istessa verità, qual tanto più dovrà essere riconosciuta ne i nostri scritti, quanto il mondo è certo che non piacciamo a padroni, ancora con il solo pubblicare le degne attioni loro. Che aspettiamo dunque che ci sia comandato? se non vuol comandare, che ci dia delle scritture. Se il Card. Barberino è applicato hora tutto ad operare e non a registrar l'operato,[9] vedrà chi leggerà che mancano forse a noi delle notitie, ma non dirà ci manchi il vero, e così con la sincerità [c. 23r] ci apriremo il cammino che hanno i chiari fonti, quali ancorché non copiosi di acqua, tolgono la bruttezza per dove vanno, quando i torbidi e strepitosi torrenti guastano et interrano con le arene i proprii alvei.
Se piacque il carattere di Vostra Reverenza nelo scrivere l'istorie al Grand'Urbano, che aspetta Vostra Reverenza a non proseguirle? mentre le attioni di questo Sommo Pontefice, come ella giudica, non meritano né il silentio, né d'esser lacerate da un perfido scrittore. Certo è che abondi pure la malignità de viventi, troppo sia non curante il Card. Barberino, i letterati li siano nel silentio troppo ossequiosi, il secolo che a noi segue non saprà meglio mostrarsi felice nelle lettere se le penne non anderanno cercando ogni vestigio delle attioni di Urbano per rendergli la dovuta lode e riverenza.
I Corsari di mare andorno a visitare le mura di Literno, dove soggiornava esule Scipione per mostrare di havere qualche animo militare nel baciare le soglie di quell'albergo.
Quanto si vantava Cicerone di haver ritro[c. 23v]vato egli medesimo e sottratto da sterpi il sepolcro d'Archimede.
Non poté la grandezza e ferocia di Henrico VIII Re d'Inghilterra far così cadere la testa di Tommaso Moro che i letterati ancora di setta contraria alla cattolica religione professata da quel martire non [10] cantassero le lodi di Tommaso e non biasimassero la crudeltà d'Henrico, tanto puole il chiarore delle lettere e la virtù acquista riverenza appresso a i medesimi nemici, ma non habbiamo ad attendere altri tempi.
Quanti heretici si sono convertiti a leggere le sole opere di Urbano VIII, quanti hanno esclamato che non puole se non una grand'anima ripiena di virtù haverle scritte et infine hanno nei suoi [11] libri confessato dovergli immortali lodi, acciò che non che altro un religioso ignorante, ingordo si vergogni, se mai hebbe vergogna, di cercare di lacerare la virtù istessa. Seguita Vostra Reverenza a portarsi con il suo affetto verso chi ella ama e con l'amore delle lettere e con la divotione della pietà, et in somma con tutto il cuore a quello mi sti[c. 24r]mola che io anhelo. Intanto dirò solo che mi pare il Mercurio habbia descritto e Troia vincitrice e Grecia vinta.
[c. 25r] Del P.re Alberto Morone altra [12] lettera contro il Mercurio di D.Vittorio Siri
Ill.mo Sig.re
Mi è sommamente piaciuta la lettera di V. S. Ill.ma per i pensieri ricchi di novità de quali era ripiena. Circa poi alle cose presenti, mi scrive di non maravigliarsi più, come prima facea, in leggere che gli antichi adoravano le infermità e che alle bestie più nocive fabricavano tempii, impercioche a tempi nostri cose assai più stravaganti sperimentiamo. Ella scrive che queste siano il vedersi fare tante carezze, rendersi tanti onori e poco meno che alzarsi da qualche Prencipe altari ad alcuni, i quali più nocivi assai alla Republica umana, e molto più bestie di quelli animali, vanno in bugiardi volumi di moderne istorie spargendo così maligna pestilenza, che a sopportarla si richiede senza dubbio una virtù più grande della patienza. Il coccodrillo venerato da Barbari doppo [13] di avere a qualche passeggiero tolta a bella posta la vita, per mostrare di non averlo fatto per odio, anzi che gli ne incresca, e che se ne sia pentito, si dice che egli pianga. Questi Autori all'incontro si fanno coscienza di non offendere nelle loro istorie la fama altrui, quasi che privandole della mordacità e del veleno peccassero contro le legi istoriche, rubbando loro la prima e [c. 25v] la più dilettevole qualità della maldicenza. Con tutto ciò di questa scusa potrebbe uno rimanere soddisfatto, se tutte le malvagità piú abominevoli con un altra che riferirò non trapassassero. Eglino con abito di cui la Religione, la sincerità istessa per esser conosciute vestirebbero e solo con quelle parole che la verità userebbe, ricuoprono a fine di offendere più sicuramente e mascherano la loro doppiezza: promettono di scrivere senza odio e senza amore, giurano di essere veraci: ma queste promesse e sagramenti molto più scelerati delle lagrime del coccodrillo riescono attesoche egli se offende non tradisce: togliendo crudelmente la vita non si reca a lode la crudeltà e la fierezza che esercita, come fanno costoro, quando, stimata più cara della vita la fama altrui, rapiscono con altrettanto lor diletto quanto è il dolore di chi ne è a torto privato. Per queste stravaganze, cagionate o da ambitione o da avaritia ella mi avvisa essersi in una accademia proposta una questione che ha più del sogno che del discorso, sopra di cui ella richiede il mio parere. Questa è se maggior benefitio o danno si trarrebbe dal vietare che de tempi nostri non si scrivessero istorie facendo anche perire queste istesse che si sono date [c. 26r] alle stampe. E perché io non paressi di sfuggire gli argomenti portati contro, prima di scoprire il mio sentimento, la maggior parte di quelli riferirò. Così dunque per quanto ella mi scrive fu parlato. Quelli che operano con prudenza essere soliti di bilanciare le cose e quelle eleggere per buone che in se hanno meno di [14] male. Fra i mali e le miserie publiche doversi contare quelle azzioni che al volgo servono di essempio per fallire. Chi dunque potrà mai dubitare che al publico utilissima cosa non sia opporsi a gli errori del popolo? et impedire che quelle azzioni perverse le quali impedire non si possano, almeno non acquistino riputatione e seguito con dimorare con gloria nelle istorie e sopravivere all'altro secolo chi dovrebbe essere dalla memoria e dal numero degli huomini scancellato. Dall'altro canto che danno può fare il perdersi quelle istorie, la perfezione e ricchezza di cui è posta in essere ripiene di falsità e maledicenze così inique che né anche i nimici di quelli che i scrittori senza odio perseguitano haverebbero ardire di farlo con tanta libertà di mentire. Son questi scrittori così poco fedeli amici delle virtù come poco fedeli nimici de vizii. Al principio mostrano di aver creduto in Dio, ma poscia si scuo[c. 26v]prono non aver loro altra religione né altro Dio che l'interesse e il guadagno. Tutto il pretioso dell'opere loro è posto nel frontispitio, e vi è chi queste istorie rassomiglia a tempii antichi d'Egitto, le facciate de quali erano belle e superbe, ma, dato un passo innanzi, ogni cosa si ritrovava contraria all'aspettatione, non vi essendo dentro che agli, cipolle con animali, la natura de quali similmente non è che di rodere. E perché i scrittori sdegnando la gente minuta, si pregiano di far processi contro i grandi credo che a questa risolutione sarebbero eglino per loro interesse favorevoli. Né si può dubitare che qualcheduno di quelli che non è bene a nominare sia per opporsi a questo consiglio con ciò sia cosa che a questi più che a qualunque altro importi che si taccia dall'una e dall'altra parte. Si rinnoverebbe in questa maniera quell'antica usanza di corrispondenza fra Prencipi che era di impedire ciascheduno ne proprii stati che ne libri, che alla publica luce si davano, non s'intaccasse la riputatione d'altri Prencipi. Col vietare che l'altrui fama non fosse macchiata, verrebbe ogn'uno ad assicurare la propria, altrimente può ogn'uno che si prenda libertà di dir male d'altrui aspettarne la ricompensa. Né minor offesa è riputata il far reo a suo modo chi è innocente [c. 27r] di quello che sia il dar ricetto e con la sua protettione ricoprire questi che si reputano a gloria di non perdonare ne a i Re ne agl'Imperadori, ne ai Papi. Non ardirebbero di censurare quelle azioni che altri giustamente riveriscono, se non dessero loro i Prencipi col ricetto l'ardire: che perciò eglino di questo male non senza grande infamia sono stimati esser complici, potendo ridurre costoro, e non volendo, a termini che altro non fosse in loro potestà che di comporre malvaggi pensieri. Si persuadono, ma falsamente, di sottrarsi dall'odio comune e dalla vendetta col fingere che le opere nelle quali si sparla siano composte e stampate altrove et essere necessari iindovini per trovare chi siano i Protettori e i Mecenati di questi istorici satiri, conoscendosi benissimo a qeuste unghie il leone. E se nel principio e quasi nell'entrata cominciano a mentire, certo io non saperei promettermi altro, se non che nel rimanente fossero per essere eglino medesimi. Ne altra ragione è stata ritrovata del non aver permesso che si publicasse il vero nome della città, ove l'opera uscì in luce, se non che si recavano a infamia dela loro passione il dar comodità e coraggio altrui per imprimere negli animi del popolo tanto sinistri quanto bugiardi concetti di quelli, dalle virtù dei quali si [c. 27v] stimano perseguitati. E che questa sia la vera cagione non si può dubitare, perché niuno quelle operazioni nasconde, o se le reca a vergogna che di esser loro oneste è manifesto, particolarmente quando da persone si fanno che si pregiano di generosità.
Questa è una gran parte delle ragioni portate dall'Accademia contro gl'istorici del nostro secolo e che V. S. Ill.ma mi scrive. Io per risposta dico, primieramente, che il mentire o il dir male d'altrui non è vizio nato nel nostro secolo o in Italia, né l'invidia è infermità che si possa mai o che si sia potuta guarire e ne tempi antichi, quando si rispettavano le virtù de Prencipi e si faceva professione di dire la verità, si riempirono non di meno i libri di doglianze similissime a questa del nostro secolo contro quei scrittori i quali o per desiderio di esser provisti di miglior fortuna, o per soggettare la penna alle passioni et odii altrui riempirono le carte di lodi, dandole a chi meritava d'esser biasimato e biasimando chi meritava d'esser lodato. Et ancorché non vi mancasse chi l'arte dello scrivere istorie con la malignità et adulazione macchiasse, nondimeno non impedirono mai per questo i Prencipi di quei tempi che da buoni si trasmettessero gli essempi più nobili de i loro secoli a posteri. Altramente si potevano [c. 28r] nella stessa maniera riprendere, come colui, il quale per timore delle spine non voleva cogliere le rose e temeva di accostarsi a gli alberi per essere quelli materia onde si accende il fuoco. Senza dubbio più dannosa del male a noi riuscirebbe questa medicina e sarebbe come chi volesse uccidere l'infermo perché più non si ammalasse; o pure come un Prencipe, il quale non volesse che ne suoi stati si battesse moneta d'oro e d'argento [15] perché da alcuni [16] se ne falsificasse. Benché altri bugiardi siano, non si deve lasciare di dire la verità massimamente vedendo noi che la Divina Providenza ha fatto che la memoria delle opere sì de i maledici come degli adulatori si sia o prima degli Autori estinta o, se pure i volumi rimasti sono, hanno servito solamente perché si discoprisse la verità delle loro menzogne et acciò si acquistasse, a spese della loro reputatione, riputatione a quelli a cui malignamente recar vollero disonore. Spesse volte quelle cose, onde altri speravano gloria, o almeno di ricoprire i loro difetti e vizii hanno apportata maggiore infamia. Hanno alcuni di questi preso l'habito sacro e finto di aver lasciato il mondo, per rientrarvi più a dentro. Si sono coperti delle vesti della innocenza, per potere come al coperto offendere altrui, senza ricevere offesa. Ma al contrario è [c. 28v] riuscito, et appunto hanno sperimentato esser loro accaduto ciò che alcuni raccontano intravenire a popoli d'Etiopia, i quali maledicendo il Sole per non sofferire l'invidia loro di vedere il candore di quella luce, tanto più neri eglino diventano quanto più grande è la passione con cui il maledicono. Qualcheduno di questi (gli amici del quale testificano che abbia assai più vomitato vino che parlato onestamente) si è gloriato d'aver presa con la penna vendetta di un Prencipe perché non l'avesse voluto stipendiare e per essere lo scrittore d'ingegno veramente mercuriale, mutatosi si è poscia essibito di lodarlo in un altro volume e di fare tanto pretiosa l'istoria quanto sarebbe il prezzo che fosse per mandargli. Ma questi all'incontro non istimando di poter essere ne lodato ne biasimato da chi non merita lode ha con grandezza d'animo disprezzato ugualmente e le minaccie e le offerte di chi vedea essere tanto povero quanto bugiardo. Finisco con dire che si come con le rose nascono le spine, così l'invidia perseguita sempre [17] le straordinarie felicità et il non ritrovarsi nimici delle azzioni de Prencipi io stimo che sia quasi levarli dal numero degli ottimi et un segno che in se non habbiano virtù straordinarie e poco communi. Furono nella primitiva Chiesa e col ferro e con le penne perseguitati i [c. 29r] migliori Prencipi e noi le loro reliquie adesso veneriamo. Parimente hoggidì per caparra della pietà e perfezzione della virtù di alcuni che simili vivono [18] a quegli antichi abbiamo che solo da malvaggi sono biasimati.
[2] Evidente allusione alla fine di Ferrante Pallavicino. Vedi nell'appendice Guerre di scrittura il capitolo dedicato a Vittorio Siri e, in relazione al suo progettato assassinio, i paragrafi c3, Servitore di molti padroni e c4, Il Mercurio e i Barberini.
[3] Questo inciso è uno dei luoghi per me incomprensibili, forse per l'omissione o il travisamento di qualche parola da parte del copista.
[5] Sembrerebbe però scritto: notissime.
[6] Dovrebbe potersi leggere tòn Dícaion, il Giusto (Plutarco, Aristide 7, 7).
[7] Segue cancellato: mentre
[8] In questo punto nel ms c'è un'interruzione che forse segnala una lacuna.
[9] Qui nel ms un punto spezza la frase.
[10] non aggiunto in sopralinea.
[11] suoi corretto in sopralinea su: soli.
[12] altra aggiunto in sopralinea.
[13] doppo aggiunto in sopralinea.
[14] di aggiunto in sopralinea.
[15] Segue cancellato: da alcuni.
[16] da alcuni aggiunto in sopralinea.
[17] sempre aggiunto in sopralinea.
[18] Segue cancellato: simili.
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