Fine di pontificato: 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Verso la pace

Ancora una volta Antonio tentò di scavalcare il fratello e di appellarsi direttamente al Papa. Il 17 aprile 1643 era a Roma, deciso a rappresentare a Urbano lo stato reale delle cose e a ottenere più soldi e più poteri. Sembra che sia stato bloccato nell’appartamento del Maggiordomo, attiguo a quello del Papa, e che sia stato convinto dallo stesso Maggiordomo, Fausto Poli, a moderare proteste e richieste per non amareggiare il Papa. Quello di salvaguardare prima di ogni altra cosa la tranquillità e la buona coscienza di Urbano stava diventando l’imperativo supremo di Francesco e dei suoi, dettato certamente dalla preoccupazione che la malferma salute del Papa non avesse un tracollo, ma dietro il quale si celava un preoccupante vuoto di decisioni e forse di idee. In effetti tra le richieste di Antonio c’era quella di indicazioni più precise circa gli obbiettivi da perseguire e ordini più chiari sulle cose da fare, «sendosi doluto con mons. Fausto che Barberino glieli mandi ordinariamente molto oscuri, varii et confusi».[1]
Antonio rientrò a Bologna con la promessa di Francesco di maggiori aiuti, ma il dissidio tra i due non si compose affatto. Nei mesi seguenti venne a galla più volte, sempre più o meno negli stessi termini. Nell’ottobre, per esempio, Francesco tornava a lamentarsi di Antonio con Taddeo, contrapponendo la moderazione di questi all’indiscrezione di quello. Il Tesoriere, scriveva, manda continuamente denari

«a Sua Eminenza, con la quale bisogna havere patienza et compatirlo, ché se li scrivessi che mentre non li sono bastati il mese di settembre cento cinquanta mila scudi è segno che ha molta gente, o vero mentre scrive che ha puoca gente non se li mandassero che pochi quattrini, se ne affligerebbe. Ma provando Sua Eminenza i suoi travagli, dobbiamo considerar quelli et come ho detto compatirlo. È differente il modo col quale Vostra Eccellenza dimanda denari, benché il bisogno che parla per se stesso et l’havere le soldatesche in un assedio, che è una pressante opera et urgentissima, fanno ch’io vorrei che le monete costà volassero».[2]

Allo stesso modo, mesi più tardi, Valençay, prendendo le difese di Antonio e cercando di scusare - anche lui, forse, con un pizzico e più di ironia - quel suo tono preoccupato e allarmistico che tanto irritava Francesco, non faceva che ripetere i vecchi argomenti. Antonio, scriveva a Francesco, era nei confronti della leadership del fratello

«sempre ripieno d’un’ottima volontà, ma altretanto ingombrato con la mente e travagliato vedendo la stagione così avanzata senza che si sia fatta una minima provisione e cadono a Sua Eminenza le braccia quando dà qualche ordine e sente che se gli risponde che non si può eseguire perché non ci sono denari».[3]

Alle divergenze sulla conduzione della guerra corrispondevano ipotesi politiche diverse. Senza che si possa parlare propriamente di una doppia diplomazia, le critiche che Antonio aveva rivolto sin dall’inizio all’azione di Francesco - o guerra per davvero o pace subito - tendevano, man mano che le operazioni militari si trascinavano inconcludentemente, a tradursi in iniziative politiche separate. Così, quando nell’aprile Antonio era andato a Roma per sfogarsi con Urbano senza riuscirci, aveva colto l’occasione per incontrarsi con l’ambasciatore francese e per discutere con lui della restituzione di Castro. Nel maggio, forse in coordinazione con la missione affidata a Michele Mazzarino e nel tentativo di evitare in extremis la guerra, s’era incontrato a Bologna con Lionne, a cui aveva presentato un progetto di accomodamento fondato sulla rinuncia del Farnese a Castro in cambio del ripianamento dei debiti con i montisti e di un congruo risarcimento.[4] Il piano in caso di successo avrebbe fruttato alla Francia un paio di cardinali, ma cadde quasi subito per la conclusione in quello stesso mese della nuova Lega tra i Principi.
Ai primi di luglio, invitati dal Valençay, che aveva preannunciato nuove importanti proposte da parte di Antonio, giunsero a Bologna il Lionne e il Cardinale Bichi. In sostanza Antonio voleva recuperare il suo antico legame con la Francia, che la guerra aveva allentato e che le resistenze del fratello alla volontà francese di arrivare rapidamente alla pace minacciavano di logorare. Antonio offriva alla Francia l’alleanza dei Barberini (e seimila soldati, che erano, sembra, quanto la Casa barberina poteva valere sul terreno militare [5]) e chiedeva la protezione francese per sé e per la sua famiglia. Ma innanzi tutto voleva che il governo francese sapesse del suo dissenso dalla linea del Cardinale Francesco, che gli negava i mezzi per fare la guerra, ma rifiutava la pace, e che pertanto doveva essere considerato come il solo responsabile della situazione di stallo in cui ci si era cacciati. Poi, alla presenza di Antonio Feragalli, segretario di Francesco, e dunque, almeno apparentemente, d’intesa con il fratello, Antonio passò ad esaminare con Bichi, sulla base dell’abbozzo concordato a Roma tra Francesco e Fontenay, le clausole di un possibile accordo di pace.[6]
I negoziati proseguirono tra Bichi e il neocardinale Donghi, già stretto collaboratore di Antonio e ora plenipotenziario del Papa. A quanto pare, Donghi e Bichi si intesero a meraviglia. Insieme decisero di trasferirsi a Roma, dove trovarono che gli entusiasmi per il successo di Pontelagoscuro, invece di raffreddarsi, si erano rinvigoriti per le speranze imprudentemente riposte in certi avventati progetti d’invasione della Toscana che si venivano facendo. Le trattative, dunque, pur senza interrompersi ufficialmente, minacciavano di andare per le lunghe.[7] Alla fine però, e cioè nel novembre, riuscì a Bichi quel che non era riuscito ad Antonio nell’aprile precedente, ossia di mettere Urbano al corrente dell’effettivo stato delle cose. Un’altra iniezione di realismo venne nel Concistoro del 14 dicembre 1643 dalla relazione del Segretario di Stato Giambattista Spada che, riferendo sull’andamento della guerra e delle trattative di pace, indicò come inevitabile un nuovo massiccio prelievo di denaro - 500 mila scudi di moneta - dal Tesoro di Castel Sant’Angelo.[8] Il provvedimento, sempre traumatico, era sostenuto con vigore dal Tesoriere Lorenzo Raggi

«col supposto [...] che havendo la Santità Sua sin all’hora da se sola represso l’ardire ai quattro collegati assalitori, non dovea lasciar l’opera imperfetta pel poco che rimaneva, ma continuare generosamente la guerra e far vedere che alla Santità Sua non mancava né gente, né opulenza di denaro acciocché in caso che si havesse a far la pace potesse conchiudersi con riputatione e con vantaggiose conditioni per la Sede Apostolica».

Il «poco che rimaneva» voleva dire ancora qualche inutile mese di guerra. La pace fu conclusa solo alla fine di marzo, dopo un’ultima sconfitta papalina a Lagoscuro, dove il Cardinale Antonio rischiò di cadere nelle mani dei nemici. Questa volta però le lungaggini nelle trattative, più che di effettiva voglia di combattere, erano state conseguenza del cattivo stato di salute del Papa, dei dissensi tra i Principi collegati e di interferenze esterne, in primo luogo il tentativo degli Asburgo di avere qualche parte nella conclusione della pace.[9]
Nei mesi che avevano preceduto la firma degli accordi di pace lo scoraggiamento aveva dominato a Palazzo: il Papa depresso come non mai, Antonio preoccupato soprattutto di non dispiacere alla Francia, e cioè a Mazzarino, nessun altro capace di riaccendere speranze di vittoria.

«Solo Barberino intrepido perseverava con franchezza d’animo non mai più intesa in sostenere con l’armi la dignità e reputazione della Chiesa tutto che vedesse meglio d’ogni altro le perdite imminenti, li maggiori progressi de i nemici vittoriosi et il pericolo al quale esposta rimaneva tutta la Casa Barberina quando, mancato di vivere il Papa in età già cadente, lasciato havesse la Chiesa Santa involta in guerra con i maggiori principi italiani per non havere lui solo voluta la pace».[10]




paragrafo precedente * paragrafo successivo * inizio pagina


[1] ASVe, DAS, Roma, 120, cc. 77v, 83v, 89r, 18 e 25 aprile 1643. Viceversa, riferiva sempre Girolamo Bon (c. 90r), Francesco si sarebbe lamentato che Antonio «non dava conto di qua delle sue operationi e si reggeva ad arbitrio».

[2] BAV, Barb.lat. 8820, c. 51v-52r, 9 ottobre 1643.

[3] BAV, Barb.lat. 7952, c. 202, Valençay a Francesco Barberini, Bologna, 6 febbraio 1644.

[4] Valfrey, pp. 148-150.

[5] Pressappoco lo stesso numero di soldati fu offerto tra il 1644 e il 1645 da Francesco Barberini prima alla Spagna e poi all’Imperatore nel tentativo di rompere l’isolamento in cui la sua Casa, stretta tra l’ostilità di Mazzarino da una parte e quella dei Medici e del Papa dall’altra, si era venuta a trovare.

[6] Valfrey, pp. 155 sgg. Della Torre, Historie, II, p. 858. A detta di Fontenay (II, pp. 304-305), però, il Cardinale Francesco non era affatto d’accordo, tanto che allontanò dal proprio servizio il Feragalli. I rapporti tra il Cardinale Bichi e il Cardinale Antonio erano discussi. Secondo Girolamo Bon, quando era stata annunciata la missione di Bichi in Italia, Antonio aveva spedito in Francia il nipote del Valençay «il quale andatovi con voce di procurar qualche sollievo al Balì suo zio che nuovamente ha havuto il comando delle armi del Ferrarese, s’intende che vi tratti negotii per questi Signori et in particolare che faccia diligenza per levar ogni sinistro concetto del Cardinale Antonio et divertire, se sia possibile, la venuta qua del Cardinale Bichi, la quale ad esso Cardinale Antonio per i rispetti della Protettione non piace punto» (ASVe, DAS, Roma 120, c. 147, 23 maggio 1643). Che il viaggio di Henri de Valençay a Parigi avesse per oggetto gli interessi dei Barberini è vero; sembra infondata invece l’illazione che Antonio volesse evitare l’arrivo di Bichi. Secondo Raffaele Della Torre tra i due c’era «strettissima confidenza» ed anzi solo «assicurato nella sincerità del Cardinale Antonio» Bichi non si fece scoraggiare quando, sull’onda dell’entusiasmo suscitato in Roma dall’inatteso successo papalino a Pontelagoscuro, il Pontefice (e il Cardinale Barberini) opposero un rifiuto ai capitoli concordati a Bologna (Della Torre, Historie, II, pp. 858-863). Anche in seguito corsero voci circa una presunta rivalità tra Bichi e Antonio quali portavoce del governo francese nel Sacro Collegio. Una rottura certamente si produsse fra i due durante il conclave, quando Antonio appoggiò Pamphili contro le indicazioni di Mazzarino, ma, come si vedrà, tornati i Barberini nel favore di Francia, si sanò senza residui. Qualche diffidenza nei confronti di Bichi poteva nutrirla semmai Mazzarino per via del fratello del Cardinale, mons. Celio, legatissimo a Francesco Barberini, ma la cosa non gli impedì di affidare proprio a lui il delicato ruolo di negoziatore. Quanto al viaggio di Henri di Valençay, ufficialmente destinato a presentare a Corte le scuse dello zio per la scarsa sollecitudine con cui, inesperto «di tali formalità, come nutrito fra l’armi non nell’ocio degli studenti», aveva comunicato alla Regina la sua imprevista promozione, pare che interessasse più gli affari di Francesco (quale capo della Casa) che quelli personali di Antonio Barberini. Scriveva Giustinian: «Il detto Commendatore di Valansé ha fatt’apertura al Cardinal Mazarini d’esshibition del Cardinal suo zio ad interporsi per stringer corrispondenza tra il detto Cardinal Mazarini e Barberino. Mazarini però con una modesta specie di derisione ha accolta l’oblatione di Valansé in semplice termine d’ufficiosità, non tacendogli però che si credev’in tal stato e costitution di fortuna che nella condition delle congionture havess’il Cardinale Barberino ad haver più bisogno di Mazarini, che Mazarini di Barberino» (ASVe, DAS, Francia 101, cc. 41-42, il 15 marzo 1644). Battute a parte, Mazzarino era certamente interessato alla cosa, tanto è vero che il governo francese concesse al Cardinale di Valençay, «per tanto più captivarlo», una buona dote di rendite e benefici, «non solo in riguardo d’esser francese, ma più anco per esser confidente di Barberino, onde si crede possa servir in occasion di conclave d’istrumento di qualche bene. Però se gli dan speranze di maggiori gratifficationi» (ibidem, cc. 72v-73r, 29 marzo 1644). La missione in Francia di Henri de Valençay fu insomma il primo atto di quelle lunghe trattative che, riprese da Malatesta Albani nell’estate del ‘44, sarebbero proseguite anche dopo la morte di Urbano e l’elezione di Innocenzo con alterne (e talvolta drammatiche) vicende sino alla fuga dei Barberini da Roma e al loro passaggio ufficiale al servizio del Re.

[7] Resistenze all’accordo venivano, oltre che da Roma, dal solito Odoardo, il che irritava non poco il governo di Venezia. Contro le ricorrenti diffidenze veneziane Lionne difendeva in questo caso Odoardo: «quella che hanno che non corra precipitosamente all’accordo per conservarsi l’acquistata reputacione», scriveva sul finire di ottobre a Vittorio Siri, «mi proverebbe più ragionevole quando si potesse il Sig. Duca fidar della fede barberina et quando ancora non vi ostasse la renitenza alla pace del Card. Barberino et la sua irresolutione o incapacità di finir alcun negotio» (BPP, CS, cas. 143, 27 ottobre 1643). Sui negoziati di pace tra Bichi e Donghi: Siri, Mercurio, IV, 1655, I, pp. 567 sgg, 571 sgg, 575 sgg, 618 sgg, 675 sgg. Giandemaria, pp. 182-183: Bichi convince il Papa dell’opportunità di venire alla pace, ma non il Cardinale Barberini, che «per sottrarsi dalle proposte del Bichi fa offrire all’Imperatore il deposito di Castro».

[8] BAV, Barb.lat.2933, Acta Concistorialia, cc. DXLVIII sgg.

[9] Mentre il Granduca, soddisfatto dell’andamento della guerra, era stato facilmente «persuaso a gli accordi con Papallini dal Cardinale Bichi, [...] questa inclinazione [...] poco o niente secondata veniva dagli altri Prencipi»: Della Torre, Historie,II, pp. 851- 852, 855. Pastor, XIII, p. 893; Grottanelli, p. 797 sgg. Sui negoziati vedi “I Francesi che bramano...”, BUB, ms. 1069 (1706) cc. 102-113; ivi a cc.79-84, Sbozzo delli capitoli della Pace tra la Santità di N.S. Papa Urbano 8° e li Prencipi Collegati... con le annotationi di Sua Santità fatte nel congresso del dì 18 Gen.o 1644. Cfr. BMV, ms. It. VII. 1242 (8824), Renghe et discorsi di Battista Nani cav.r, cc. 34 e 36. In Francia si attendeva l’effettiva conclusione delle ostilità con impazienza. Vedi in proposito i dispacci dalla Francia di Girolamo Giustinian in ASVe, DAS, Francia 101, per es. cc. 41 (15 marzo 1644: «su l’approbation del Cardinal Antonio si fondan qui speranze dell’ultima perfettione e stabilimento di questo trattato vedendosi non poter haver Barberino modo di resister non solo allo odio dell’universale se sfugge la pace, ma a i rimproveri e sensi contrari del proprio fratello»), 74r (5 aprile: irritazione in Corte «perch’essendosi fatto capitale del sbando delle militie de Prencipi italiani per ingrossar l’armata del Prencipe Thomaso, il rittardo del stabilimento di pace vien in conseguenza a rittardar anco questa provisione e pregiudicar a i disegni»), 93r (12 aprile: Odoardo fa i capricci e «qui si dubita che Spagnoli intorbidin quest’affare e si vaglin del mezo del Duca di Parma imbevendolo e forse riempendolo o di speranze o d’altri concetti poco conferenti al ben della pace»), 119v (3 maggio: la pace finalmente è pubblicata e Saint Chamond scrive da Roma di «haver trovato il Papa con pront’alacrità d’animo disposto a ratifficare. Il Card. Antonio medesimamente. Barberino lasciava fare. […] Si vede che Barberino non può digerir l’amarezza e sconvulsion di stomaco che gli causa questa sforzata restitution di Castro»).

[10] Della Torre Historie, II, p. 862. Cfr. quanto scrive in proposito Siri, Mercurio, IV, 1655, I, pp. 488-489: anche durante la malattia dello zio, Francesco «continuava a reggere le redini del governo come se il Pontificato nella sua famiglia e l’autorità nella persona sua dovessero essere immortali». B.Spada, BAV, Vat.lat. 12187, cc. 84-86 trova inspiegabile che Francesco, vedendo morire lo zio, «ostinatamente volesse credere rimanergli longa vita, il che si conobbe e dalle cose che disse e dall’haver lasciati molti de’ suoi ministri et amici riguardevoli di meriti sprovveduti et in abbandono e non senza molta confusione le cose sue». A questa ostinata credenza attribuisce il fatto che, invece di pensare alle “cose sue”, Francesco pensasse ad acquistare Castro per la Santa Sede, ad arruolare Buglione ed altri capitani, a stringere alleanze con la Francia e col Granduca e a inviare Malatesta Albani in Francia «per insinuarlo nell’amicitia del Cardinal Mazzarino a fine di disporre il Papa a promuoverlo al cardinalato».


Claudio Costantini

Fazione Urbana

*

Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


*

HOME

*

quaderni.net

 
amministratore
Claudio Costantini
*
tecnico di gestione
Roberto Boca
*
consulenti
Oscar Itzcovich
Caterina Pozzo

*
quaderni.net@quaderni.net