La giusta statera: g1 g2 g3 g4 g5 ga gb
Un autore per la Giusta statera
Chi avesse curato la pubblicazione ad Amsterdam della Giusta statera non so, così come non so chi fosse l’autore della scrittura. Barbier, che, seguito dalla maggioranza dei bibliografi e dei bibliotecari, attribuisce la Giusta statera a Gregorio Leti, a proposito della traduzione francese ad opera di Pierre Scevole de Saint-Marthe, scrive, riprendendo un articolo di Dreux de Radier:
Les portraits tracés dans cet opuscule, et surtout celui du Cardinal Mazarin, obligèrent le traducteur de publier l’ouvrage sous le voile de l’anonyme. Les recherche que fit le Cardinal prouvèrent que Scevole de Saint Marthe avait eu raison de prendre des mesures de prudence. Il demeura inconnue. [1]
Se il traduttore aveva ragione di temere in Francia le possibili reazioni di Mazzarino, ne aveva ancor più l’autore di temere quelle dei Barberini, esasperati dalla persecuzione innocenziana, in una Roma che era sì, ormai, ufficialmente spagnola e medicea – e cioè a loro decisamente ostile – ma dove era assai più difficile ad uno scrittore di libelli nascondersi a lungo dietro un semplice anonimato, che non a legioni di sicari trovare impiego e riparo nelle stanze di inviolabili palazzi.
Ma è poi corretto parlare di autore o bisognerebbe piuttosto parlare di autori? non è detto, infatti, che il testo del '46 e le sue successive stesure fossero tutte frutto della stessa penna ed anzi nell'insieme fanno pensare a una pluralità di centri – botteghe di mestieranti o scrittòri principeschi o cardinalizi dediti ad una produzione meno venale e più politica – oltre che di motivazioni e occasioni di scrittura.
Di sé il presunto autore della Statera non dice molto e quel che dice, visto l’interesse a conservare l’anonimato, non è detto che sia vero: pare che avesse conosciuto Panciroli quando era ancora in prelatura (e cioè, immagino, prima della nunziatura in Spagna), che si sia trovato a Vicenza quando era vescovo Marc’Antonio Bragadin, a Bologna quando il card. Antonio (della cui liberalità aveva – pare – goduto i benefici) comandava l’armata pontificia e a Roma quando Tiberio Carafa, fratello del cardinale, era venuto a congratularsi con Innocenzo X per l’elezione al soglio pontificio. Ma poiché sono stati probabilmente in molti a metter le mani nelle varie versioni della Giusta statera, anche se veri, gli episodi ricordati potrebbero appartenere a storie e persone diverse. L’accenno al soggiorno a Vicenza e una certa conoscenza delle vicende della congiura di Bedmar sembrano a Mario Capellino, autore di una bella nota sul manoscritto della Giusta statera conservato all’Agnesiana, suggerire una possibile origine veneta dell’autore.[2] A me pare invece che l’unica cosa sicura sia la stretta familiarità con gli ambienti di Curia.
Ma quali ambienti? A parte l’ostilità verso i Barberini e i loro collaboratori e seguaci, che dà ragione anche dell’evidente simpatia per la la Casa d’Austria e dell'animosità per la Francia di Mazzarino, tutto il resto è incerto ed oscillante, cambia di segno da un manoscritto all’altro e qualche volta all’interno dello stesso manoscritto, sicché nel delimitare con qualche attendibilità l’area entro la quale l’autore o gli autori della Giusta statera si muovevano non si può andare oltre la constatazione di un apprezzamento della politica innocenziana e del nuovo gruppo dirigente largamente positivo, ma piuttosto generico e tendente ad esprimersi in toni persino eccessivi solo nella persona e nell’azione (o inazione) di Carafa e di Panciroli: troppo poco per indicare, come sarei tentato di fare, nel Pontefice (e nei suoi parenti: i Ludovisi, soprattutto, molto attivi nella propaganda antibarberiniana e antifrancese e adeguatamente puniti per questo da Mazzarino), nella famiglia Carafa (a cui viene dedicato uno spazio smisurato) o nello stesso Panciroli i committenti della Giusta statera.
L’attribuzione tradizionale della scrittura a Gregorio Leti è stata rifiutata
da Franco Barcia, alle cui conclusioni mi rimetto, anche se con qualche rammarico.[3] Non mi dispiacerebbe, infatti, pensare che un ragazzo di sedici
anni, quanti ne aveva Leti nel 1646, potesse essere l’autore o il coautore o il riscrittore
(in fondo, per tutta la vita Leti ha continuato a raccogliere, trascrivere, riscrivere e
divulgare scritti altrui, specialmente se provenienti da quella grande miniera di pettegolezzi
e di maliziose novelle che era la Curia romana) di una impudente “satira” romanesca
(non potremmo vederci proprio una geniale ragazzata?) come la Giusta statera. In ogni caso, autore o no della Giusta statera, Leti non solo ne riprese a distanza di molti anni la formula, ma ne ripropose anche ampi brani, nel Cardinalismo di Santa Chiesa, per esempio, e nel Livello politico, che vi si richiama anche nel titolo.[4] Il che spiega a sufficienza l’attribuzione tradizionale.
Troppo giovane, Gregorio Leti, per una tale impresa? Può darsi,
ma non sottovaluterei la testimonianza di Jean Le Clerc (pubblicata nel
Dizionario del Moreri nel 1693, quando Leti era ancora vivo) secondo cui
Gregorio sarebbe stato fin da ragazzo un ammiratore di Ferrante Pallavicino di
cui avrebbe letto almeno la Baccinata
e (suo o no) Il divorzio celeste. Barcia ritiene, giustamente, assai
difficile che un ragazzo potesse procurarsi quei libri nel collegio dei Gesuiti
di Cosenza in cui era rinchiuso fin dal 1639. Quel che è difficile, però,
non sempre è impossibile, soprattutto trattandosi di Gesuiti. Nel ’44, poi, Leti era a
Roma presso lo zio prelato (futuro vescovo di Acquapendente) che quelle opere
poteva benissimo averle in casa (soprattutto se immaginiamo che fosse poco
amico dei Barberini). Leti era poi passato con la madre a Milano, ma nel ’46,
anno di composizione della Giusta statera, mortagli la madre, era
tornato dallo zio che in quel momento era vicario a Orvieto. Tutti luoghi
e tempi di diffusa ostilità per i Barberini, nei quali Leti poteva facilmente
metter le mani non solo sulle opere di Ferrante Pallavicino, ma anche sulle
molte scritture, satiriche e no, in prosa o in versi, a favore o contro i
Barberini, che circolavano manoscritte negli ambienti di Curia e che, insieme
a micidiali chiacchiere di monsignori, sono il materiale di base con cui
la Giusta statera è stata costruita.
Perfino la dichiarazione dello stesso Leti di non aver scritto nulla finché
era rimasto in Italia, salvo qualche novella e qualche poesia, mi sembra piuttosto
confermare il contrario e cioè che anche quando era in Italia lo scrivere
gli era abituale.
Ad ogni modo, escluso Leti, non posso che proporre in suo luogo un Troiano (o Traiano[5])
Maffei, che, sospetto autore della Mal consigliata fuga del Cardinale Antonio,
una scrittura violentemente antibarberiniana di cui mi sono già occupato in
queste note, quando La giusta statera de’ porporati cominciò a circolare
per Roma, fu comunemente indicato quale autore anche di questo scritto. Una
doppia attribuzione a cui, a quanto pare, i Barberini diedero abbastanza credito
da attentare alla vita dello stesso Troiano e che, non fosse che per questo,
merita di essere presa in seria considerazione.
[1] Barbier, t. II, col. 1056. L'articolo di Dreux de Radier (che non ho avuto modo di vedere) è in “Bibliothèque historique du Poitou”, t. V, p. 348.
[2] Capellino, pp. 116-117.
[3]
Per le considerazioni che seguono mi baso sempre e solo sui lavori di Barcia
1981 e 1983. Ma non si può parlare di Leti senza ricordare Fassò («meramente
biografico» lo dice Bertelli, p. 182 n., ma non capisco quel "meramente": che stia per meritoriamente?) e le pagine che a Leti dedica Spini.
[4]
Leti 1668, specialmente pp. 145 sgg. e Leti 1678.
[5]
In Fuidoro (edizione di Alfredo Parente) si legge Troiano. Antonio Giliberti, Pantheon Solofranum, Avellino, 1886, seguito da Mimma de Maio, che ai Maffei di Solofra ha dedicato nel suo sito (www.mimmademaio.com) diverse note, scrive Traiano. Io, nelle carte che mi è accaduto di vedere (e che cito più avanti) leggo per lo più Troiano ma in qualche caso sono tentato di leggere Traiano.
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