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Opposte propagande a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
I neutrali: Genova e le onoranze regie
Nell’imminenza della guerra tra i Collegati e il Papa la
produzione di propaganda, soprattutto da parte dei primi, non mancò di prestare
qualche attenzione all’atteggiamento dei neutrali: le due Corone in primo
luogo, ma anche i minori potentati d’Italia, e, tra questi, il più ambizioso di
tutti: la Repubblica di Genova, che, a dispetto del poco peso delle sue poche
armi avrebbe potuto, schierandosi, alterare a favore di una parte o dell’altra
l’equilibrio delle forze.
«Volontieri», aveva
scritto di Genova Ferrante Pallavicino nella Baccinata, «collegarebbesi contro gli Ecclesiastici se fosse
ricercata la sua congiontione dalla Lega; il che seguirebbe, ancorché con
speranza di deboli aiuti, quando potesse supporsi fede ne’ loro trattati o
sicurezza nelle promesse».
Non so su quali
basi Ferrante (che, per altro, non mancava di legami con Genova, dove aveva
soggiornato di recente, pubblicandovi un paio di libri) potesse formulare
l’ipotesi di una qualche disponibilità della Repubblica a unirsi ai Principi contro
Roma, né perché lanciasse contro il governo genovese l’accusa di scarsa affidabilità (era forse rimasto deluso dell’accoglienza al suo Eolo dolente?). L’ottimismo di Ferrante aveva probabilmente valore scaramantico, nella consapevolezza delle molte ragioni – dal sempre più stretto
legame tra Genova e Roma in termini di investimenti finanziari, scambi
culturali, carriere (militari, giudiziarie e soprattutto prelatizie), all’ormai
annosa questione delle onoranze regie – che avrebbero consigliato alla
Repubblica, se mai avesse deciso di schierarsi, di schierarsi col Papa.
La questione delle onoranze regie sembrava potesse assumere
in occasione della guerra un rilievo pericoloso per la Lega in considerazione
della puntigliosa resistenza sempre opposta dai Principi alle aspirazioni
genovesi e della spessa stratificazione di risentimenti che ne era derivata. Al
problema era dedicato uno scritto che circolò a Genova nella primavera del 1643
in forma di lettera del Duca di Modena a un giovane patrizio, Giambattista
Grimaldi. Vi si sosteneva, per la verità in modo assai poco convincente, che la
Repubblica avrebbe incontrato più favorevole ascolto nei Collegati che nel Papa
e che i suoi disegni avrebbero trovato maggiori opportunità di successo nella
generosa amicizia dei Principi che non nell’interessato mercanteggiare dei
pericolanti Barberini. Ma il governo genovese non gradiva affatto che dei suoi
problemi si parlasse e si scrivesse in pubblico e trattò molto bruscamente il
destinatario della lettera, colpevole di non averne impedito la circolazione.[1]
La Repubblica non
intendeva schierarsi ufficialmente con nessuno. Tra il 1642 e il 1643 si era
adoperata con convinzione per la conservazione della pace ed era intervenuta a
più riprese presso Urbano VIII per il duplice tramite del suo rappresentante a Roma e del cardinale Ottaviano Raggi a suggerire
prudenza. Una volta iniziato il conflitto, tuttavia, parve «che più
d'ogn'altro parteggiasse negl'interessi del Papa». [2] Della parzialità genovese per i Barberini c’erano segni manifesti: da Genova
fluivano senza interruzione rifornimenti in armi e munizioni per l’esercito
ecclesiastico; da Genova passavano, più o meno clandestinamente, le truppe
reclutate in Francia sotto nome di “Avignonesi”; Genova forniva in gran numero
ufficiali e amministratori per le forze terrestri e marittime del Papa.
Ferrante Pallavicino si era domandato nella Baccinata
dove mai Urbano avrebbe potuto trovare i soldi per fare la guerra: li trovò a
Genova, naturalmente. Ma tutto questo gran da fare era opera di privati. La
Repubblica lo tollerava, ma rifiutava di esservi coinvolta; ribadiva con tutti
la sua neutralità e, quando vi fu costretta dalle proteste dei Collegati, non
esitò a procedere, sia pure a titolo meramente dimostrativo, contro quanti in
quei traffici si erano esposti più del conveniente.[3]
In Genova si era diffusa
durante la guerra la convinzione che i servizi resi dai privati ai Barberini
con il connivente silenzio delle autorità fossero sufficienti, se non a portare
a conclusione la pratica delle onoranze regie, a farle fare grandi progressi. Era un’illusione, naturalmente: i
servizi resi al Papa erano lautamente remunerati e non c’era alcuna ragione
perché la corte di Roma si acconciasse a pagare per essi un pesante
sovrapprezzo politico. L’illusione era servita, se non altro, ad eludere
una scelta sgradevole: buttarsi a capofitto nella guerra o rinunciare alla
riconoscenza pontificia. È possibile, come insinuava nel 1646 Raffaele Della
Torre a commento della sua deludente ambasceria
a Roma (quel che non si era ottenuto da Urbano in circostanze eccezionalmente
favorevoli – scriveva in sostanza – non si poteva pretendere da Innocenzo, che
nei confronti di Genova non aveva che motivi di irritazione e di risentimento)
che il suo predecessore, Agostino Centurione, avesse contribuito ad alimentare
quell’illusione sottovalutando da un lato le opportunità offerte alla
Repubblica dalla congiuntura bellica e dall’altro la portata effettiva
dell’impegno che sarebbe stato necessario per coglierle a pieno.
Da un più diretto e
audace coinvolgimento nel conflitto sarebbe potuta scaturire per la Repubblica
una soddisfacente soluzione del problema? Raffaele Della Torre mostrava, a
posteriori, di crederlo. Ma è più che probabile che si sbagliasse. Il
problema del riconoscimento delle onoranze regie alla Corte di Roma si
articolava in almeno tre distinte questioni: quella della concessione della
Sala Regia per le udienze degli ambasciatori, quella del titolo dovuto dalla
Repubblica ai cardinali e quella del diritto della Repubblica di scegliersi,
come le altre teste coronate, un Protettore nel Collegio dei cardinali. Nella
primavera del 1638, in seguito agli accordi intercorsi tra Costantino Doria, che agiva per conto del
governo genovese, e Marcantonio Spinola, Maestro di Camera del
cardinale Pier Maria Borghese, la Repubblica aveva ottenuto
che lo stesso cardinale accettasse il titolo di Illustrissimo. La cosa, che
equivaleva al riconoscimento del rango regio, aveva fatto scalpore in Curia
dove, come riferiva Ottaviano Raggi, si giudicava generalmente
che la Repubblica avesse fatto “grand'acquisto”.
Ma naturalmente non toccava ai
singoli cardinali concedere tali riconoscimenti: quel che contava era la
volontà del Collegio e del Papa, entrambi poco accomodanti in materia. Più o
meno negli stessi giorni il governo di Genova aveva nominato il cardinale
Borghese Protettore della Nazione e ancora una volta Urbano reagì con
irritazione, tanto che al Borghese non riuscì mai di esercitare quella
funzione. Dopo l’insuccesso del Borghese, che, inviso al Papa anche per altre e
più private ragioni, non era la persona giusta per trattare un simile affare,
il governo genovese aveva contattato il cardinale Virginio Orsini affinché promuovesse la cosa in Curia, ma gli esiti non erano stati migliori.[4] Il
cardinale Orsini non aveva mancato, proprio all’inizio della guerra di Castro,
di saggiare il terreno per vedere se un generoso aiuto finanziario da parte
della Repubblica avrebbe potuto aprirle la strada al riconoscimento del rango
regio. Ma il 6 giugno 1643, alla vigilia della processione dell’Anima, Celio
Bichi consigliava Francesco di disingannarlo senza mezzi termini: «a
detta processione Vostra Eminenza vedrà il Signor Cardinal Orsino, al quale, parendogli, potrà
attestare quanto sia falso il supposto che con prestanza o dono di denari
possino a Genova sperare le prerogative regie».[5]
[1]
BAV, Barb.lat 3206 (Monumenta Ughelli), c. 519, Copia di lettera del Ser.mo di Modena al
Signor Gio Batta Grimaldi del fu Silvestro dal Campo della Chiesa di
Scortichino 4 di giugno 1643 (incipit: “Quei rispetti che persuasero la
Republica di Venezia...”). In BAV, Ott.lat. 2435, cc.246-250 la stessa
lettera è datata il 10 giugno ed è seguita da un'altra, anonima, allo stesso
Grimaldi, del 20 giugno 1643 (incipit:
“Vana certamente è stata la pretensione...”). Forse le lettere sono addirittura
tre, perché Gio Battista Grimaldi (che all'epoca doveva avere 22 anni, visto
che al momento dell'ascrizione alla nobiltà, il 30 novembre 1645, ne aveva 24)
era stato rimproverato già nell'aprile precedente dal Senato di Genova per aver
fatto circolare una lettera indirizzatagli dal duca di Modena: ASG, AS, 1904, 25 aprile 1643. Il testo della lettera si può leggere in Siri, Mercurio, III, 1652, p. 446.
[2] Siri, Mercurio, III, 1652, p. 446.
[3]
Il principale organizzatore in Genova degli aiuti destinati al papa era
Giambattista Raggi, nipote di Ottaviano e fratello di Lorenzo, affiancato da un largo
stuolo di parenti, amici, clienti. A causa della sua scoperta attività in
favore dei papalini contraria agli obblighi della neutralità, Giambattista finì
con l’essere imprigionato per breve tempo dal governo. A Genova operava anche,
dal settembre del 1643, un uomo di fiducia del Cardinale Barberini, Domenico
Maria Lama, che curava i rapporti con le autorità genovesi e della cui missione esiste una larga documentazione in BAV, Barb.lat. 9820-9821 e numerose tracce in
ASG (vedi Costantini 1987, pp. 199 nota 10, 200 nota 14, 201 nota 16).
[4] ASG, AS, 1904, 2353, 2354.
[5] BAV, Barb. lat. 8941, c. 86. Sull’affare della protezione e del
titolo accettati dal cardinale Borghese esiste un’ampia documentazione. Cfr in
particolare i dispacci al Governo di Pier Francesco Spinola, agente della
Repubblica in Roma, in ASG, AS, 2352-2353 (1640-1641) e quelli di
Ottaviano Raggi. La corrispondenza di Ottaviano Raggi con la Repubblica cessò
con la sua promozione a cardinale. Ottaviano, infatti, che come prelato e
suddito della Repubblica aveva potuto difendere in Curia Pier Maria Borghese
per aver accettato da Genova il titolo di Illustrissimo,
come cardinale non poteva seguirne l’esempio: i cardinali di nuova creazione
erano tenuti per giuramento a non ammettere altro titolo che di
Eminentissimo, laddove i vecchi restavano liberi di regolarsi secondo coscienza
(ASG, AS, 2353, Pier Francesco
Spinola al Senato di Genova, 22 e 28 dicembre 1641, 4 e 5 gennaio 1642).
«La Republica ha sentito al vivo la dichiarazione fatta da me di non poter
ricevere lettere con titolo d’Illustrissimo», scriveva Ottaviano a Francesco
Barberini il 4 gennaio 1642 (BAV, Barb. lat.
8750, c. 57). In BAV, Barb.lat. 3206 (Monumenta Ughelli, 3°), sono raccolte diverse scritture relative alla vicenda e copie delle lettere della
Repubblica al Borghese. Prima del Borghese era stato Protettore della Nazione genovese
Laudivio Zacchia, morto nel 1637. La nomina di Zacchia, avvenuta nel 1631,
non aveva suscitato alcuna particolare reazione in
Curia, forse perché non ancora esplicitamente connessa alla rivendicazione
del rango regio. Sulla questione delle onoranze: Ciasca 1938
e 1962. Sulla natura della carica di cardinale protettore di una nazione vedi ora
Poncet 1998, p. 466, secondo il quale è appunto nel pontificato di
Urbano VIII che il suo significato si definisce in funzione del rango regio di chi la governa.
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Claudio Costantini
Fazione Urbana
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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit
Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m
Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h
Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i
APPENDICI
1
Guerre di scrittura indici
Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4
2
Scritture di conclave indici
Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6
3
La giusta statera indici
Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa
4
Cantiere Urbano indici
Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d i2e i2f i2g i2h i3 i4
Malatesta Albani
l1 l2
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