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"La statera infame"
La Giusta statera de’ porporati è forse la più nota -
anche se non la più qualificata - rassegna secentesca del Sacro Collegio.
Il notevole interesse che suscitò al suo apparire e per molti anni ancora
è testimoniato dalle varie versioni che si succedettero nell'arco di meno di un decennio,
e dal considerevole numero di copie manoscritte e a stampa oggi esistenti nelle
biblioteche.[1] Probabilmente il
successo dell'opera si deve in parte proprio a quelli che si potrebbero
indicare - e sono stati indicati - come suoi limiti: il gusto dell'insinuazione (soprattutto
se oscena), la propensione per i toni esasperati, grotteschi o truculenti, l'assai
scarsa (a dispetto del titolo) equità di giudizio. Difetti tutti, però, capaci di
restituire in vivacità di rappresentazione quel che toglievano all'eleganza dello
stile e forse (ma non sempre) alla verità dei fatti.
Così, una singolare miscela di volgarità e di acume, di azzardate vociferazioni
e di sperticati elogi finiva - col favore dell'impianto prosopografico propizio all'aneddotica
curiosa o piccante - per rendere un'immagine poco edificante, ma efficace e tutt'altro che
inverosimile del mondo curiale romano, sfarzoso compendio di virtù controriformate
e di vizi sacerdotali. Se a questi o a quelle si dovessero attribuire i crimini
di cui la Giusta statera parlava diffusamente non è facile dire.
L'assassinio di Andrea Casale per conto dell'avido Cardinale Spada, l'archibugiata fatta
sparare dal futuro Cardinale Brancaccio contro un ufficiale napoletano,
l'uccisione delle monache bolognesi ad opera di alcuni familiari del Cardinale Antonio,
le montature giudiziarie contro il Cardinale Centino d'Ascoli, contro il Marchese Manzuoli,
contro Mario Frangipani, che complessivamente erano costate la vita a molti innocenti,
erano registrate come malefatte della fazione urbana, ma senza alcuna particolare
indignazione: dopo tutto rientravano nei consueti esercizi di potere, a cui la
fazione opposta non intendeva certo rinunciare. Al Cardinale Antonio,
ad esempio, per il fattaccio di Bologna si faceva unicamente la colpa di non aver
badato a sufficienza al proprio interesse e al proprio onore esponendosi inutilmente
nel tentativo di intralciare la giustizia, laddove se avesse fatto valere la sua
autorità avrebbe potuto condannare tempestivamente i responsabili e graziarli subito
dopo, liberando così i suoi amici e se stesso da ogni possibile futuro imbarazzo.
In una scrittura tutta all'insegna del pettegolezzo non stupisce
che nella caratterizzazione dei personaggi avesse un ruolo di rilievo quello
che Troiano Maffei, rifiutando, come dirò più avanti, la paternità «della Statera
infame», chiamava l’«andar bestialmente vagando su i difetti personali anche bugiardi»,
ossia l'insistita attenzione per le deformità e le anomalie fisiche dei biografati:
Antonio Barberini «il gobbo»; il Cardinal Durazzo «lusco e guercio d’un occhio»,
Francesco Maidalchini «vera effigie di babuino», Carlo de’ Medici «bruttissimo e
deforme», Virginio Orsini dotato di «un istromento genitale di smisurata grandezza
in modo tale che vien abborrito dalle donne e non è ricevuto da quelle non essendosi
ritrovata persona che l’habbia potuto sostener ecetto che la bella barbiera delli
Coronari chiamata la sig. Costanza», e così via.
Era anche inevitabile che fossero i costumi sessuali a farla da padroni. Ai
fratelli Vidman, per esempio, il Conte e il Cardinale, «imbertonati con puttane»,
così come ad Antonio Barberini, anche lui assiduo
frequentatore di meretrici («è certo che se tutte fossero state fertili come
madamigella di Covre, figlia dell’ambasciatore di Francia [che, come si vedrà
più avanti, pare fosse stata ingravidata da Antonio], s’haverebbe potuto
aggiongere a suoi titoli quello di Padre della Patria»), si attribuivano
gusti gomorrei: «più d’ogni altra carne» - era detto di Antonio con evidente
allusione a Malagigi «suo più diletto» - «gl’ha piacciuto quella di castrato».
Gusti, per altro, piuttosto diffusi nel Sacro Collegio e condivisi - parrebbe -
anche da un futuro Papa, Innocenzo XI, poi fatto beato, dopo secolari incertezze,
dall'austero Pio XII.[2]
Gomorra a parte, non sembra che la ricerca e il godimento dei
piaceri del mondo - si trattase di musica, commedie, "conversazioni vagabonde"
o del più comune commercio di dame e giovinetti - facessero serio ostacolo all'esercizio dei
doveri e soprattutto dei privilegi dello stato clericale. Semmai una certa esuberanza,
specie nella vita sessuale, purché temperata dalla sempre doverosa riservatezza,
sembra che fosse buona regola, tanto che la strana eccezione del sessantenne Cardinal
Carafa suscitava qualche perplessità: «per l’innocenza della sua vita ardisco di dire
che sia vergine e così viene stimato da tutti»; «quel che è più meraviglioso in lui è
l’opinione inradicata e ben fondata presso tutti ch’egli sia la fenice della Corte in
verginità».[3]
Quale valore attribuire alle "dicerie" della Giusta statera?
Semplici e volgari chiacchiere o attendibili se pur tendenziosi resoconti di genere
giornalistico? L'opera era senza dubbio fortemente umorale, schiettamente partigiana, per
nulla equanime, anzi diffamatoria già nelle intenzioni, come del resto molta parte della
pubblicistica ostile alla Francia e ai suoi amici italiani, tra i quali da tempo venivano
annoverati i Barberini. La Giusta statera era il testo forse più impegnativo, e
sicuramente uno dei più violenti, di quella vasta letteratura antibarberiniana che dilagò in
Roma, con l'aperto favore delle autorità, nei primi tempi del pontificato innocenziano.
E tuttavia non era tutto qui il suo valore. Esaurita o in via di esaurirsi la persecuzione
dei Barberini, la Giusta statera continuò a circolare a lungo, più o meno
profondamente manipolata, ma conservando sempre ben riconoscibile la sua struttura
originaria. Continuò cioè ad avere lettori ed estimatori ben oltre l'occasione che l'aveva
fatta nascere e i disegni di potere ai quali era stata funzionale.
Negli anni Cinquanta una straordinaria serie
di matrimoni e, a Roma, di parallele nomine cardinalizie sancì, sotto i minacciosi
auspici della Corona di Francia, la pace faticosamente raggiunta tra Mazzarino, i
Barberini e le grandi famiglie principesche d'Italia: gli Este per primi, poi i
Pamphili, in ultimo i più riluttanti Medici. La questione barberina, clamorosamente
esplosa con la guerra di Castro, veniva diplomaticamente archiviata. Ma è proprio
dopo la sua archiviazione ufficiale che la Giusta statera ha raggiunto
il massimo di diffusione, anche grazie alle edizioni a stampa che - in diverse
lingue: italiano, inglese, francese - erano venute ad affiancarsi alla più tradizionale
(e, visto la natura del testo, secondo tradizione, più confacente) circolazione manoscritta.
Sempre in quegli anni, mentre l'opera subiva importanti rifacimenti (quasi per il
desiderio di infonderle nuova vitalità) e si continuava a copiare, i suoi echi - sebbene la
fonte non venisse mai, per quel che ne so, apertamente citata - si facevano sentire,
sotto forma di calchi testuali, nelle discussioni più o meno clandestine che
animavano gli ambienti romani e, per esempio, nelle opere del dotto e prolifico
cavaliere Magalotti amico e confidente del futuro Pontefice Alessandro VII.
Evidentemente, pur con i suoi limiti, che non potevano sfuggire ai contemporanei
uomini di Curia, la Giusta statera continuava a piacere e a suscitare
l'interesse anche di chi nutriva umori affatto diversi e militava in altre e
opposte fazioni.
[1] Sulla Giusta statera
vedi Visceglia 1996. Dell'opera riproduco più avanti l'edizione italiana uscita
ad Amsterdam nel 1650 corredandola con le varianti più interessanti che trovo in diverse copie
manoscritte. Le versioni dell'opera di cui, come illustrerò più ampiamente avanti, ho diretta
conoscenza e su cui si fondano queste note sono quelle dei codici BMP 1659, BMP 1660, BUG C.I.3,
BNP it. 807, ASV Pio 3, ASR SV 32, BUB 1301 (2125), BAM Trotti 155,
BAV Barb. lat. 5102, BUG E.V.29, BMV It. V.99 (5872), BCR ms. 1248, BCV Cicogna 701.
[2]
Qui cito prevalentemente da BUG, ms. E.V.29, cc. 18-19, 28, 41,
ma analoghi e anche più crudi racconti in BAV, Barb. lat.
5102, cc. 45v-47r (su Antonio Barberini) e in BMV, ms. it. V.99
(5872) c. 33 (sui Vidman). La battutaccia su Antonio Barberini e Malagigi in ASV,
Fondo Pio 3, c. 34v e ASR, SV 32, c. 31r. Più misurata, nel complesso, in
materia di gusti e pratiche sessuali, la versione a stampa, forse per effetto di
censure o autocensure.
[3] BUG, ms. C.I.3 c. 670 e BUG, ms. E.V.29, c. 9v.
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