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Una nuova guerra di scrittura?

Mons. Teodoli pronunciò la sentenza contro Odoardo Farnese il 13 gennaio 1642. Pochi giorni dopo – al più tardi ai primi di febbraio – uscì a stampa la Vera e sincera relazione delle ragioni del duca di Parma contra la presente occupazione del ducato di Castro e cioè il manifesto con cui Odoardo Farnese tentava di scrollarsi di dosso le accuse di Roma e di accreditarsi quale vittima dei Barberini e delle loro smodate ambizioni.[1] L’autore del manifesto, secondo quanto risultava al nunzio Vitelli, era il Conte Girolamo Moreschi, ma nell’apprestamento dell’opera, se non addirittura nella sua stesura, doveva essere entrato in qualche modo – così, almeno, riteneva il nunzio – Fulgenzio Micanzio: 

«Qua si dice che la detta opera sia di un Gesuita, ma per la naturale antipatia, perché intendo veramente essere opera di un tal prete Moreschi che era governatore di Parma e del Borgo, Presidente del Senato di Piacenza. Questo la compose latina et il Duca istesso l’ha tradotta in volgare così persuaso da fra Fulgentio quale ha fatto sopra la scrittura la parte sua in quella parte che concerne la sua prava dottrina. Ma sia di chi si vuole, non vi vedo gran cose...».[2]

Al tempo dell’interdetto Canaye de Fresne si era sforzato di scongiurare tra Roma e Venezia «una guerra di scrittura» che – giudicava – sarebbe forse riuscita più pericolosa per l’Italia e per la Chiesa di «quella di Marte».[3] La crisi di Castro fu per certi aspetti una ripetizione di quella vicenda e il manifesto del Duca minacciava di aprire – e alla fine aprì davvero – una nuova “guerra di scrittura”. Si trattò di una guerra idealmente assai più povera della precedente, ma con l’aggiunta, di non poco conto, di una guerra vera, dispendiosa per tutti i belligeranti e più cruenta di quanto non facciano supporre gli abituali dileggi degli storici. A questa seconda e più modesta guerra di scrittura non sarebbe mancato neppure, nella persona di Ferrante Pallavicino, un martire,[4] mentre la presenza di Fulgenzio Micanzio, benevolo (per non dire simpatetico) censore di Ferrante e presunto ispiratore e forse autore di una parte almeno del manifesto del Duca di Parma, sembrava confermare l’esistenza tra le due crisi di una qualche continuità.[5]
Che Fulgenzio Micanzio avesse messo mano in qualche modo al manifesto di Parma non è affatto da escludere. Aurelio Boccalini e soprattutto Vittorio Siri, che il Cardinal Barberini avrebbe poi sospettato, sulla base di non so quali elementi, di aver «havuto ancora parte nella distesa o almeno revisione del manifesto».[6] erano i principali informatori del nunzio negli ambienti filofrancesi e farnesiani, ma potevano ben essere, al tempo stesso (e forse con la partecipazione del Conte Scotti che era in strette relazioni con entrambi) i tramiti di fra Fulgenzio, a cui almeno il Siri sembra fosse legato, con la Corte di Parma.
Di sicuro sappiamo solo che a Micanzio toccò recensire per il governo il libro del Duca. Da quel che ne scrisse si capisce che, se pure non aveva contribuito direttamente alla stesura del manifesto, ne condivideva lo spirito e il progetto complessivo, al punto di suggerire che i Principi – e in primis, ovviamente, la Repubblica – provvedessero a ristamparlo e divulgarlo nei propri Stati, come sembra che fosse, appunto, nelle attese degli autori.

«Ho veduta la Relatione delle ragioni del Serenissimo Signor Duca di Parma contra la presente occupatione del Ducato di Castro. Non si specifica il luoco dove sia stampata, il che», scriveva, «è fatto con prudenza aciò nel modo stesso la possi lasciar stampare ogni Principe il quale stimi convenevole che si sappia il fondo di così importante affare».

E aggiungeva:

«Questa relatione è concepita in termini tanto modesti e riverenti verso il Sommo Pontefice e Sede Apostolica che in Roma medesima non ne possono restar offesi, perché sta nella pura narratione de fatti, nelle bolle e diplomi pontificii, coll’aplicarvi poi le dottrine di celebri cattholici giurisconsulti, et è certo che altri non ne possono ricevere disgusto che quelli che non possono tolerare che si sappino le ragioni de Principi contra quali tenta la Corte levare li stati con violenza di censure et armi. Ma è bene interesse d’ogni Principe che li suoi sudditi restino anticipatamente informati degl’abusi della potestà ecclesiastica per quello che può occorrere».[7]

Micanzio era probabilmente uno dei pochi sostenitori di Odoardo che ce l’avesse non con i Barberini, ma con Roma: i Barberini non erano che la più recente espressione delle degenerazioni possibili dell’autorità pontificia. Per dirla in altro modo, Micanzio era uno dei pochi a mettere in campo contro i Barberini delle ragioni ideali e forse il solo interessato davvero a rinnovare contro Roma l’antica “guerra di scrittura”. Ma a Venezia la prospettiva di una nuova “guerra di scrittura” ripugnava a buona parte dei senatori e il doge Erizzo, di solito poco tenero con Odoardo, ma anche interessato ogni giorno di più a una soluzione negoziata del conflitto (che invece non piaceva affatto al Papa: un esito del genere, aveva detto nel novembre precedente al segretario dell’ambasciata veneta a Roma, «si potrebbe ammettere fra principi e principi ma non fra supremo e suddito»[8]), condannò senza esitazioni la pubblicazione del manifesto come sommamente inopportuna: «era cosa da non produrre se non cattivi effetti nel negotio», disse al nunzio Vitelli, «perché alterava et irritava gli animi e perché toccava materie della dignità pontificia, che non poteva se non produrre pregiuditio alla Christianità massime in mezzo all’Italia».[9] Così, il governo veneto, deludendo le attese di Micanzio e accogliendo le sollecitazioni di Roma, non solo non fece ristampare il manifesto di Parma, ma non permise che altri lo ristampasse. Il nunzio, da parte sua, riuscì, con le buone o con le cattive, a prevenire i ripetuti tentativi di quanti, a Venezia o altrove, per lucro o per altro, avrebbero voluto imbarcarsi nell’impresa.[10]




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[1] «Dopo essersi publicata la sentenza giunsero a Venezia molti esemplari del sopradetto Manifesto o allegatoria delle ragioni che pretendeva il duca di Parma per sostener la sua contumacia e furono indirizzati a persona che subito presentolli al Doge, al Procuratore Zeno et a fra Fulgentio servita herede delle massime perniziose di fra Paolo Soave. Poco dopo giunse colà il conte Ferdinando Scotti e portò il libro intitolato Vera e sincera relazione delle ragioni del duca di Parma contro la presente occupatione del Ducato di Castro e l’andò dispensando uno all’Ambasciatore dell’Imperatore, l’altro all’Ambasciatore di Spagna, et un altro mandonne al Re di Polonia…»: Nicoletti, IX, c. 172. Nicoletti, come si vedrà, ripigliava alla lettera, ma forse equivocando, i dispacci del Nunzio Vitelli da Venezia. Il “manifesto” di cui in questo passo si parla come se fosse cosa diversa è invece da identificare, salvo prova contraria, proprio con la Vera e sincera relazione delle ragioni del duca di Parma contra la presente occupazione del ducato di Castro. Il sospetto che circolassero altri scritti dello stesso genere o riedizioni dello stesso manifesto doveva essere nato subito alla Corte di Roma tanto che il 22 febbraio Barberino aveva scritto a Vitelli: «Se capiteranno diversità di libri intorno alle supposte raggioni del Duca di Parma, se ne potrà mandar qui qualcheduna non se ne essendo ancora veduta qui se non una»  (ASV, Segr. Stato, Venezia 66, c. 76). Ma Vitelli rispondeva: «Non penetro che sia capitato altro libro mandato fuori dal Duca di Parma con le sue pretese ragioni che quello avvisai, che è in foglio con titolo di Relatione etc. et questo solamente in mano di qualche persona dalla quale non si può havere se non per una vista. Se questo non fosse capitato in qualche modo lo procurarei» (BAV, Barb.lat. 7722, c. 12r). Anche il nunzio Grimaldi il 20 aprile confermava da Parigi che il manifesto del Duca «è l’istesso libretto del quale già scrissi», ossia la Vera e sincera relazione di cui ai primi di marzo aveva segnalato l’arrivo in Francia di alcuni esemplari. Moroni (X, p. 229), riprendendo Ranghiasci (pp. 52-53) cita la Vera e sincera relazione nella forma abbreviata che era stata sin dagli inizi frequentemente usata (Relazione delle ragioni del Duca di Parma contro la presente occupazione del ducato di Castro) e la dice stampata il 7 agosto 1642. Ranghiasci aveva però scritto: «Deve essere stampata avanti il 7 d’agosto del 1642» (e così Melzi, II, p. 106). Si tratta di un evidente fraintendimento da parte di Moroni. Il 7 agosto  è la data della pubblica dichiarazione con la quale Ottaviano Raggi smentiva che al tempo in cui era Uditore della Camera fosse mai stata presentata da parte del Duca di Parma la ricusazione di cui parlava la Vera e sincera relazione. La dichiarazione del Cardinale Raggi, stampata dalla Curia romana insieme ad altri documenti relativi alla polemica, iniziava: «Havendo noi letto un libro stampato con il titolo Vera et sincera...».

[2] BAV, Barb.lat. 7722, c. 63, 29 marzo 1642. «Nel fine», aveva scritto già l’11 febbraio, «si tratta della scommunica et interdetto et si crede che la dottrina sia uscita da fra Fulgenzio Servita secondo la dottrina di fra Paolo. Così mi è stato accennato». Dalla Francia Grimaldi confermava: «Mi si dice da chi gli ha visti che sia tutto cavato dalle scritture uscite da Venetia nel tempo dell’interdetto» (ASV, Segr. Stato, Venezia 66, cc. 72-74, 11 febbraio 1642 e Francia 90, cc. 219-220, 7 marzo 1642). Sul Conte Girolamo Moreschi, protonotario apostolico, già avvocato fiscale con Ranuccio Farnese, Governatore di Parma nel ‘39 e infine presidente del Supremo Consiglio di Piacenza, vedi Mensi, che però non fa cenno della Vera e sincera relazione. Su Micanzio: Benzoni-Zanato, pp. 731-756 e Barzazi.

[3] Lettres et ambassades de messire Philippe Canaye seigneur de Fresne…, Paris, Iean Iost, 1645, vol. III, p. 128, Canaye de Fresnes a Marco Velser 24 luglio 1606. Sulla prima, grande “guerra di scrittura” vedi specialmente G. Cozzi, Paolo Sarpi tra il cattolico Philippe Canaye de Fresnes e il calvinista Isaac Casaubon, in Cozzi 1979, pp. 1-133 (il saggio, bellissimo, risale al 1958, una stagione straordinaria per la nostra storiografia). Il timore di una nuova guerra di scrittura si riaffacciava ad ogni acuirsi della tensione tra Roma e Venezia (vedi per es. Menniti Ippolito 1993 p. 184).

[4] «Mancava un martire, un caso politico, un nome cui attribuire testi anonimi», scrive Marchi Seicento, p. 364: Ferrante «poco conosciuto fuori di Venezia fin che era in vita, dopo la esecuzione in Avignone voluta dai Barberini» diventò in tutta Europa «il simbolo della ribellione». Ma vedi Spini, pp. 198-199: il motto sarpiano “farò più danno morto che vivo” a nessuno avrebbe potuto adattarsi meglio che a Ferrante.

[5] La coppia Ferrante Pallavicino-Fulgenzio Micanzio può apparire male assortita a chi, con la scorta di quell’affascinante libro che è la Ricerca dei libertini di Giorgio Spini, è portato a tracciare una netta linea divisoria tra lo scetticismo demolitore del primo e il riformismo religioso del secondo. Ma proprio Spini (per es. pp. 191-192, 215-216, ecc.) ha indicato i molti fili che potevano legare insieme libertinismo e tradizione sarpiana.

[6] BAV, Barb.lat. 7764, c. 55r, 22 marzo 1642.

[7] ASVe, CI 51b, c. 294 (Barzazi, n. 1265). Del consulto non resta che il brano che trascrivo. Non c’è data, ma probabilmente lo scritto è di poco posteriore alla pubblicazione del manifesto, visto che Micanzio poteva fingere di credere che dopo tutto le reazioni della Corte pontificia non sarebbero state negative.

[8] BAV, Barb.lat. 7763, c. 45v, 14 novembre 1641

[9] Il doge aggiunse tuttavia «che sperava nella gran prudenza di Sua Santità» (ASV, Segr. Stato, Venezia 66, c. 88, 8 marzo 1642). Il cardinale Barberini non apprezzò molto l’invito del Doge alla prudenza che gli sembrava dovesse essere rivolto prima di tutto a Odoardo, ma, scriveva a Vitelli, «intanto piace che non si sia consentito costì alla stampa della detta scrittura» (BAV, Barb.lat. 7764, cc. 51-52, 15 marzo 1642).

[10] Sui tentativi di ristampare il manifesto di Parma (da parte, ad esempio, di Maiolino Bisaccioni, di cui tornerò a parlare) vedi i dispacci di Vitelli in ASV, Segr. Stato, Venezia 66, cc. 95v, 99. Il 22 marzo Francesco ringraziava il nunzio «delle diligenze che usa per impedire che non si ristampi il libro di Parma» (BAV, Barb.lat. 7764, c. 55r).


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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