Opposte propagande a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7

La diffusione del manifesto di Parma e le reazioni romane

Contro il manifesto di Parma si mosse, non prima però della metà di marzo, anche la Congregazione del Sant’Uffizio che ne ordinò il sequestro.[1] Prospero da Firenzuola, Provinciale di Lombardia dei Domenicani e Inquisitore generale in Piacenza, ne aveva mandato un esemplare a Roma un mese avanti. L’esemplare era destinato a Francesco Barberini, ma l’Inquisitore, consapevole di non aver neppure tentato di bloccare la pubblicazione del libro, glielo aveva fatto trasmettere da un cardinale alla cui protezione si rimetteva:

«Invio a Vostra Eminenza il libro stampato delle ragioni del Signor Ducca qui ne’ presenti mottivi acciò resti servita honorarmi Lei presentarlo al Signor Cardinale Barberino et insieme pigliare la mia prottetione quando forsi paresse ad esso Eminentissimo Signore ch’io dovessi fare qualche ostacolo alla pubblicatione del detto libro perché oltre l’essere state dispensate le copie prima ch’io ne habbi havuto l’aviso, quand’anco l’havessi havuto a tempo et havessi ordinato in contrario non sarei stato obedito, come il cercare di rivocarlo adesso sarebbe invano tanto più che le cose vanno assai strette e se bene qui si dubita d’un interdetto ad ogni modo sono disposti in maniera tale che non si osserverà. Io sono pronto a metterci la vita se bisognerà, ma nelle occasioni che non può giovare niente il gridare e mettersi a pericolo prego Vostra Eminenza a scusarmene appresso cotesti Eminentissimi Padroni».[2]

Come era inevitabile e contrariamente a quanto Micanzio aveva finto di prevedere, a Roma il libro del Duca di Parma  fece sulla Corte e specialmente sul Cardinale Francesco un pessimo effetto, tanto da rovinare l’accordo che il Marchese Montecuccoli, per conto del Duca di Modena, tentava di concludere con Giulio Buratti sulla questione di Castro.[3] E il 22 febbraio, «per non lasciar […] imprimere concetti non veri» nelle Corti d’Europa, dove stavano via via arrivando copie del manifesto (a Parigi venivano segnalate tra la fine di febbraio e i primi di marzo[4]), il Cardinal Barberini diramò ai nunzi una nota che contestava punto per punto le affermazioni del Duca.[5]
A Venezia l’opera aveva preso a circolare parecchi giorni prima. Già l’11 di febbraio Vitelli ne aveva scritto a Roma:

«Sono comparsi quattro esemplari di un manifesto o sia allegatione delle raggioni che pretende il Duca di Parma di havere per sollevare la sua contumacia et sono venuti direttamente a persona che subito gli ha distribuiti al Principe, al Procurator Zeno, a fra Fulgenzio Servita et ad un altro Senatore. Si crede però che con il seguente ordinario il Duca ne manderà qualche numero e che ne farà presentare uno al Collegio stesso. Suppongo che per altra parte potrà essere arrivato all’Eminenza Vostra. Intendo che è voluminoso».

Lo stesso giorno il nunzio precisava:

«È tornato il Conte Ferdinando [Scotti] e trovo che lui ha portato il libro intitolato Vera e sincera relatione delle raggioni del Duca di Parma contro la presente occupatione del Ducato di Castro. È un foglio alto due dita per colonna. Fo diligenza per haverlo. Ne ha dato uno all’ambasciatore dell’Imperatore et un altro all’ambasciatore di Spagna et uno se ne manda in Polonia al Re».[6]

Gli esemplari arrivavano a Venezia alla spicciolata ed erano, come si può immaginare, assai richiesti. Scotti li metteva in circolazione via via che gli giungevano, ma sempre in numero insufficiente, sicché era difficilissimo procurarseli.[7] Il cardinale Cornaro scriveva l’8 marzo che «di quei libri del Signor Duca di Parma ne sono capitati qua pochissimi» e aggiungeva che solo «con gran fatica» era riuscito a procurarsene «uno da leggere anco alla sfuggita».[8] Quanto a Vitelli, per averne una copia si era dovuto rivolgere, per il tramite di Aurelio Boccalini, allo stesso Scotti e lo Scotti, che aveva naturalmente riferito la cosa a Parma, il 28 febbraio poteva già raccogliere una prima reazione, sorprendente se vera, del nunzio: a detta del Boccalini, mons. Vitelli, in singolare sintonia con fra Fulgenzio, sarebbe rimasto «molto edificato del contenuto del libro» e avrebbe lodato «la modestia usata da Sua Altezza», pur disapprovando, si capisce, le azioni del Duca contrarie alla giurisdizione ecclesiastica.[9] Il Padre Boccalini, anzi, si era fatto latore in quella occasione di una proposta di composizione della vertenza proveniente, parrebbe, dallo stesso Vitelli.[10]
Il nunzio, ad ogni buon conto, si presentò l’8 marzo in Collegio per confutare gli argomenti del libro, secondo le istruzioni del 22 febbraio. Aveva detto in sostanza

«primo, che non era vero che il Duca fosse stato maltrattato da Signori Cardinali Barberini e che questi per rancori che havevano seco havessero fatto nascere le occasioni de disgusti. 2° che non li fosse stata dinegata l’udienza di Sua Santità né impedita dall’Eminenze loro come supponeva il libro [...]. Che nella Corte romana come nelle Corti grandi non si alterano li trattamenti se bene si vede in prattica che li Principi li vanno continuamente essi pretendendo maggiori. Che in tal caso l’Eminenza Vostra non si scordava del proprio decoro e della dignità che sosteneva e che se per questo forse il Duca si doleva, di se stesso doveva dolersi, mentre volesse più di quello se li doveva ragionevolmente per il solito».

D’altra parte, aveva aggiunto Vitelli – ed era forse l’osservazione più appropriata – il Duca non aveva mai spiegato (e dal libro non si capiva) in che cosa propriamente fosse consistita l’offesa che lamentava di aver ricevuto dai Barberini.[11]
Erano gli argomenti che, negli stessi giorni, stavano elaborando i polemisti di parte papalina – Alberto Morone, Felice Contelori, Giovanni Ghini, Pier Francesco De Rossi e forse altri – in una ricca serie di scritture, a stampa e manoscritte, in italiano e in latino, con le quali la Corte di Roma volle rispondere all’offensiva propagandistica di Odoardo, contando di subissare l’avversario con una marea di dotte elucubrazioni: un grande dispendio di energie intellettuali e un grande sfoggio di erudizione, a cui però non arrise un altrettanto grande successo di opinione. La causa dei Barberini (e della Santa Sede) non era popolare e i propagandisti del Farnese (Ferrante Pallavicino in testa), anche se, per quel che riguardava la specifica questione di Castro e dei Monti Farnese, erano meno dotati di buoni argomenti dei loro avversari, risultavano decisamente più spiritosi e persuasivi.




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[1] Vedi la nota, a firma del Card. Barberini e in data 15 marzo, all’Inquisitore di Modena: «È stata data alle stampe una scrittura intitolata Vera relazione delle ragioni del Duca di Parma contro la presente occupatione del Ducato di Castro. E perché ella contiene molte falsità e propositioni temerarie, ordinano questi Eminentissimi miei Signori che quando si divulghi in cotesta sua giurisdittione, V.R. la faccia raccogliere e ne mandi qua gli essemplari raccolti usando in tal affare della sua solita prudenza e destrezza» (ASM, Inquisizione, 255).

[2] BAV, Ott.lat. 3267, p. II, c. 414. La lettera è datata Reggio, 16 febbraio 1642, ma è probabile che il qui si riferisse non alla città da cui Firenzuola scriveva, ma alla giurisdizione che gli era affidata. Prospero da Firenzuola fu poi Inquisitore a Bologna e a Genova. A Genova, nel 1652, su raccomandazione del Cardinale Antonio, nominò consultore del Sant’Uffizio un bizzarro teologo, Filippo Maria Bonini, che, con grande sfoggio di erudizione e un notevole gusto del grottesco, non perdeva occasione per accumulare e mettere alla berlina in scritti sedicenti apologetici le assurdità della fede e della tradizione cristiane (Per i rapporti tra Prospero da Firenzuola e Antonio Barberini vedi BAV, Barb.lat. 9845, 31 dicembre 1651 e 19 gennaio 1652; sul Bonini Spini, pp. 222-223 e 343 sgg. e Marré.).

[3] Come ho detto a suo luogo, l’irritazione di Barberino per gli attacchi della Vera e sincera era considerata dal marchese Montecuccoli una delle cause principali dell’irrigidimento della Santa Sede nella questione di Castro (ASM, CA, Roma 246, disp. Montecuccoli, 26 febbraio 1642: «restano offesi qui assai della pubblicacione e modo di portar le ragioni del Signor Duca impresse nel libro»). Barberino se ne era lamentato anche in Francia: «adducendo che quando le cose si van riducendo a buon capo il Duca di Parma procura a sconvorgliele e provocar maggiormente» (ASVe, DAS, Francia 98, c. 73r, 13 aprile 1642). Il 22 febbraio l’Ameyden annotava: «Il Mattei ha mandato una scrittura stampata in difesa del Duca di Parma et offesa grandissima di questo governo, cosa che ha dato disgusto infinito a Palazzo» (ASV, Fondo Bolognetti, 88, c. 45r).

[4] Ne dava notizia il 7 marzo 1642 il nunzio Grimaldi. Lo stesso Grimaldi precisava però il 20 aprile che il libro «non si è mai qui divulgato». Era noto in sostanza solo ai ministri, ai quali Grimaldi presentò una scrittura in risposta inviatagli da Roma, che era probabilmente la Lettera scritta a un signore: ASV, Segr. Stato, Francia 90, cc. 219-220, 7 marzo 1642 e Francia 91, cc. 10r e 26r, 6 e 20 aprile 1642. Cfr. Nicoletti, IX, cc. 89 sgg., 178.

[5] Riportata in Nicoletti, IX, cc. 158-159. «Io per me», asseriva Francesco, «non ho veduto tal libro e però non posso bastantemente rispondere come con facilità si farà, veduto che sia». In realtà lo stesso giorno Francesco scriveva a Vitelli di averne alle mani un esemplare. La sua sola incertezza riguardava, come si è visto, la possibile esistenza di altre analoghe scritture (ASV, Segr. Stato, Venezia 66, c.76, cit.).

[6] ASV, Segr. Stato, Venezia 66, cc. 72-74, 11 febbraio 1642. È probabile che a inviarne copia in Polonia fosse stato Aurelio Boccalini, che era agente di quel Re.

[7] «Gionsero eri li libri» – scriveva il Conte Scotti il 15 aprile – «quali ho già dispacciati a tutti li Signori Savii sin hora et ad altri e così al Signor Conte Bisacioni quatro et uno ne faccio ligare per il Signor Conte Rabatta» (ASP, CFE, Venezia, 517, fasc. 1642, 15 aprile 1642); altri esemplari diceva di aver distribuito il 3 maggio. Il Conte Rabatta era ambasciatore dell’Imperatore a Venezia: a lui però una prima copia del manifesto, secondo Vitelli, era stata consegnata sin dal febbraio. Bisaccioni si era certamente adoperato per la diffusione del libro ed anzi, come ho già accennato, pare che avesse cercato di trarre qualche profitto dalla situazione: «Il conte Bisaccioni» – scriveva Vitelli il 15 marzo – «prendeva di ristampare il libro di Parma per guadagno, ma gli ho fatto parlare sotto mano che ha cominciato a mutare pensiero» (BAV, Barb.lat. 7722, c. 30r). Secondo Nicoletti Bisaccioni era uno dei principali agenti di Parma nella campagna contro i Barberini: «Gaufrido, poi, scriveva continuamente a Venezia al Conte Maiolino Bisaccioni ciò che passava per la sua fantasia e queste cose gli diedero materia di mandare alle stampe racconti molto lontani dal vero et inverisimili» (Nicoletti, IX, c. 77). Su Bisaccioni vedi Castronovo in DBI.

[8] Per quello che aveva visto gli sembrava che «chi lo considererà bene e non sarà accecato o da passione o da livore» dovesse trovarlo «non solo appassionato e spropositato, ma fabricato sopra fondamenti falsissimi e sopra ragioni non punto concludenti» (BAV, Barb.lat. 7776, c.2).

[9] «Questo mons. Noncio», scriveva Scotti a Parma il 28 febbraio, «mi haveva fatto ricercare il libro delle ragioni di Sua Altezza Serenissima e […] io gli[elo] feci dare per mano di quel tale religioso che me lo cercò che fu il Padre Bocalino che atende qua a gl’interessi del Re di Polonia»: ASP, CFE, Venezia, 517, fasc. 1642, disp. del 28 febbraio.

[10] Della proposta mediazione non so altro se non che Scotti fece pervenire a Boccalini sul finire di maggio «un piego» proveniente dalla segreteria del Duca, che forse la riguardava. Di Aurelio Boccalini Scotti diceva il 13 marzo che era «stimato soggetto di qualche senno»; il 31 maggio aggiungeva: «Egli è dell’ordine servita, figlio del già Traiano Boccalini, soggetto di molto spirito e lettere». Boccalini non era ignoto alla Corte di Parma. Insieme a Girolamo Brusoni, che ricorda la cosa nella sua Historia d’Italia, aveva servito il Duca nel 1636 facendo da tramite in segreti negoziati col governo spagnolo e sarebbe tornato a rendergli analoghi servigi nel 1643-44 (Luzzatto, p. 290). Aurelio Boccalini è spesso citato assieme a Vittorio Siri nei dispacci da Venezia del Conte Scotti: ASP, CFE, Venezia 517, per es. fasc. 1645 e 1646). Su Aurelio Boccalini vedi in DBI le voci che G. Benzoni dedica a lui ed al fratello maggiore Rodolfo (morto nel 1629) ed ora, specialmente per quanto riguarda la sua attività di agente doppio o multiplo, Preto, p. 186 e soprattutto Tirri. I fratelli Boccalini erano da tempo in diversi e ambigui modi (Aurelio figura più volte nelle carte degli Inquisitori di Stato) legati a Renier Zeno. Rodolfo, che era stato nel 1623 confidente e informatore dello Zeno, allora ambasciatore a Roma, ne fu poi a lungo ospite a Venezia. Uno dei fratelli (Aurelio, suggerisce Cozzi 1958, pp. 253-254, Rodolfo, ritiene Benzoni in DBI) aveva tenuto i contatti tra lo Zeno e il nunzio Agucchia nel 1628 quando il primo aveva tentato di convincere il secondo delle sue buone disposizioni verso Roma sollecitando in cambio un altrettanto benevolo atteggiamento della Santa Sede nei suoi confronti. Anni dopo – nel 1642 – Aurelio si fece portavoce presso il nunzio Vitelli delle aspirazioni dello Zeno alla porpora (di cui ho fatto cenno in altra parte di questo lavoro). Non escluderei che quel Biboni che, frutto probabile di un fraintendimento, compare nel verbale di un’esposizione di Vitelli al Collegio pubblicata da Coci, 1987, p.307 e che la Coci suppone essere Gio Battista Bertanni, possa identificarsi invece col Boccalini. Vitelli nel respingere l’accusa formulata (tra gli altri da Ferrante Pallavicino) contro di lui e contro gli ambasciatori dell’Imperatore e di Spagna di promuovere la diffusione e la stampa clandestina di scritti contrari alla Repubblica aveva detto tra l’altro: «haveranno sparso che si vendano in casa dell’Ambasciator dell’Imperatore, che è tutto falsità; ben il Biboni che è qui [segretario (?)] del Re di Polonia, e che è come amalato in casa dell’Ambasciatore, haveva preso per suo servitore qualche fratte, che va con calzette sguarde, ma il Signor Ambasciator avvertendolo lo ha licenziato, et ne è sapputo male, per che haveva caro che ne andasse». Il brano è tutt’altro che chiaro, ma sembra alludere ad un’attività – il commercio di scritti clandestini – che non era estranea al Boccalini; l’accenno al servizio del Re di Polonia, poi, è un indizio di qualche peso. Il titolo di “segretario” attribuito a Boccalini è usato anche da Testi, 1982, in una lettera del settembre 1645 diretta, appunto, al Re di Polonia.

[11] BAV, Barb.lat. 7722, c.18v. «Sono noti al mondo i disgusti che ricevè il Duca di Parma a Roma da Cardinali fratelli Barberini…”: è l’incipit della Vera e sincera. «Suppongo adonque essere noto a quasi tutta la Christianità l’origine delli disgusti fra il Duca di Parma e li signori fratelli Barberini…», si legge in Birago, Ponderatione, p. 7. Espressioni analoghe ricorrono un po’ in tutta la pubblicistica filofarnesiana. Ma, come osservava la Lettera scritta, dare qualcosa per noto non è prova della sua esistenza.


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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