Alberto Morone: i1 i2a i2b i2c i2d i2e i2f i2g i2h i3 i4
Alberto Morone, storico mancato di Papa Urbano Cenni introduttivi
Nato a Cremona [1]
il 14 settembre 1602, Alberto Morone fu ammesso nella Compagnia di Gesù
intorno ai diciotto anni.[2] Seguì
il consueto corso di studi nel Collegio Romano - due anni di retorica, tre di
filosofia, quattro di teologia [3] -
concludendolo nel ‘33. Nel 1636 aveva già insegnato per due anni grammatica e
per altri due umanità.[4] Il
catalogo triennale lo diceva, nel 1642, «aptus ad docendam Rhetoricam», ma
l’insegnamento non doveva essere il suo impegno principale se è vero, come
pare, che, tra il 1636 e il 1645, almeno nel Collegio Romano, aggiunse al
suo curriculum un solo altro anno di umanità.[5]
Nel 1641 era annoverato tra quanti «scribunt imprimenda», il che corrispondeva
senza dubbio alla sua vocazione più spiccata.[6]
Di Morone i superiori avevano, mi pare, un'alta, ma non altissima
considerazione. Nel 1636 lo definivano «ingenii boni, iudicii et prudentiae mediocris»;
e aggiungevano: «in litteris bene profecit, complexionis sanguineae, talentum
habet ad gubernandum».[7] Nel
1639 confermavano il giudizio, ma con una significativa modifica: «est boni
ingenii, mediocris iudicii, prudentiae atque experientiae; bene profecit in
litteris; est complexione cholericae ac melancholicae, talentum habet ad
litterarum humanarum excercitationem»[8]:
in quell’anno usciva infatti per i tipi di Vitale Mascardi la Oratio
de Christi Domini morte, ripubblicata due anni più tardi in una raccolta
di orazioni che, a quasi un secolo di distanza, avrebbe avuto l’onore di una
ristampa. Due anni prima, nel 1637, Morone aveva dedicato al card. Francesco
la De pontificalibus Urbani VIII comitiis historia rimasta
manoscritta.[9]
Solo nel 1645, quando Morone si era trasferito dal
Collegio Romano a quello Germanico, i giudizi nei Cataloghi triennali
diventavano meno elusivi e meno avari di lodi: «pollet ingenio, iudicio,
prudentia. Bene profecit in litteris, complexionis malinconicae et
colericae sed moderate. Habet talentum scribendi historias, agendi cum
Principibus».[10] Giudizio
positivo, senza dubbio, ma non esaltante per uno studioso non più giovane
che nell’ultimo decennio aveva composto e in parte pubblicato diverse opere,
tra cui almeno una – la Lettera scritta ad un Signore in risposta del libro
stampato sopra le ragioni del Serenissimo Duca di Parma – di grande
impatto polemico [11]; e
per uno studioso che, in ogni caso, era stato designato storico e biografo
ufficiale di Urbano VIII e che aveva goduto della fiducia incondizionata
di Francesco Barberini, ultimo, autorevolissimo “cardinal padrone”. C’era
anzi un che di ambiguo in quei riconoscimenti – quasi un diploma di “perdente” –
visto che quel talento «agendi cum Principibus» si era esercitato all’interno
di una consorteria le cui fortune, col nuovo Papa, stavano vistosamente
calando, mentre la sua erudizione e il suo talento di scrittore erano
stati impiegati principalmente contro i Principi della Lega usciti
vincitori dalla guerra di Castro e, almeno per il momento, padroni
a Roma della Corte e della Città.
Morone storico di Corte e uomo di potere: in effetti,
proprio in virtù della fiducia in lui riposta da Papa Urbano e dal
Cardinale Francesco Barberini, Morone poteva vantare molti e, almeno in
apparenza, saldi legami con diversi cardinali ed altri importanti personaggi
della Curia, alcuni dei quali (mi sembra interessante notarlo) non annoverabili
tra gli uomini più fidati della fazione urbana. Del Cardinale Maculano, Morone
era considerato «amico intrinseco».[12]
Il Cardinale Bernardino Spada riceveva da Morone regolarmente avvisi di cui
faceva gran conto e si serviva di lui per far avere a Barberino
appunti e documenti e soprattutto, al tempo dell'affare di Parma, per scansare
a Palazzo il sospetto che volesse defilarsi dal servizio di Curia (come però
in effetti, almeno per il momento, voleva) o che fosse in qualche modo
in dissenso con le scelte del Papa o addirittura propenso a favorire i
Medici a cui era notoriamente legato.[13]
Il Padre Morone mi scrive la lettera che V.R. vedrà annessa –
scriveva il 2 agosto Bernardino Spada al fratello Virgilio da
Castelviscardo dove si era ritirato –. Io gli rispondo e procuro
d’impegnarlo a continuarmi gli avvisi. Egli oltre l’orecchie e la
confidenza in molte cose dal Card. Barberino ha spesso lettere
dal Marchese Luigi Matthei e dal Cornelio Malvasia...
Bernardino Spada non era infatti il solo a
servirsi del Morone per agire su Barberino:
«Si vede – scriveva Bernardino
il 16 di quel mese – che il Marchese Matthei scrive al Padre Morone con
fine che mostrando le lettere ad altri metta le cose in riputatione e
mostrandole al Card. Barberino scopra la sua prudenza in tener alte le
carte. Io vo mandandogli [a Morone] de fogli e de foglietti da mostrar
al Card. per che dapoi che mi trovo in queste
congiunture fuori di Roma con la persona conoschino a Palazzo che so’
presente col pensiero di quelle, così che possono far utile o dar gusto...»
E a Morone Bernardino affidava documenti che, destinati
a Barberino e noti a una ristrettissima cerchia di amici – il Buratti,
il Ferragallo, il Conte Carpegna – voleva che restassero riservati:
«Veramente avrei havuto gusto e creduto che non havesse potuto produrre
se non buono officio ch’egli [Morone] havesse mostrate quelle scritturette
al Card. Barberino [...] Restai meravigliato quando sentii che altro
Cardinale che un di quelli della Congregatione di Stato arrivasse a dire e conseguentemente
ad haver penetrato che i miei consigli erano stati diversi da quelli che
poi s’erano continuati a pratticare».
Mons. Panciroli, a cui erano dirette le lettere sulla
guerra di Castro che pubblico qui di seguito, era un altro
influente personaggio di Curia: già segretario del Card. Magalotti al
tempo della sua fortuna, poi utilizzato da Urbano in varie missioni diplomatiche – a
Napoli, in Spagna, nell’Italia settentrionale – nel gennaio del 1642 fu
nominato nunzio in Spagna, e nel luglio del 1643 fu promosso cardinale.
Allievo e collaboratore di Pamphili, al suo ritorno dalla Spagna, durante
il conclave del ’44, diede, col farsi latore della volontà del Cattolico,
un forte contributo all’elezione al soglio pontificio dell’antico maestro,
che lo ricambiò prontamente nominandolo Segretario di Stato. Se l’amicizia di Spada e
di Panciroli fosse stata sincera, Morone avrebbe potuto contare su buoni
appoggi anche nel nuovo gruppo dirigente. Ma i due, come ho avuto modo di
ricordare in più luoghi,[14]
non brillavano per sincerità di sentimenti e lealtà di comportamenti e in ogni
caso Morone non ebbe il tempo di mettere alla prova la loro amicizia. La sua salute
precaria - «vires mediocres» nel 1639, «bonae» nel 1642, «infirmae» nel
1645 si legge nei cataloghi della Compagnia -
doveva condurlo, il 13 ottobre 1646, a prematura morte.[15]
Come storico Morone non aveva avuto fortuna. La sua storia del pontificato di
Urbano era stata stroncata da Cesare Becillo, al cui giudizio l'aveva
sottoposta nel giugno del 1644, e cioè nell'imminenza della morte del Pontefice.
Morto Urbano, qualunque fosse la fondatezza del giudizio di Becillo, non c'era più,
per ovvi motivi politici, alcuna possibilità che l'opera riuscisse
a vedere la luce. Del resto è probabile, almeno a giudicare dalla risposta di Morone,
che anche il giudizio di Becillo fosse stato condizionato dall'attesa di un prossimo
cambio di governo e dalla marea montante di sentimenti e risentimenti
antibarberiniani. Da certi appunti di Cassiano dal Pozzo sembra che Morone,
in difesa dei Barberini, avesse approntato una polemica risposta al Mercurio
del Siri, che però non ottenne - et pour cause - l'imprimatur
di Michele Mazzarino, Maestro del Sacro Palazzo, che dichiarò di non poterla
concedere senza l'esplicita autorizzazione del Papa.[16]
Che fine abbia fatto il manoscritto della vita di Urbano non so dire.
Nell'Archivo romano della Società di Gesù, dove potrebbe esserne rimasta copia, non
ne ho trovato traccia, né le sollecitazioni rivolte al direttore dell'Archivio,
che avrebbe la possibilità di farne approfondita ricerca, hanno avuto risposta.
Il Nicoletti, che poté utilizzare le carte di Morone per la sua opera,
Della vita di Papa Urbano Ottavo e della guerra di Castro, rimasta,
certo non a caso, anch'essa inedita,[17]
cita la Lettera scritta a un signore, ripiglia la relazione latina della presa di Castro,
ricorda che Morone vi si era trovato di persona «con disegno di scriver anche
la guerra essendo del principio di essa stato testimonio occulato» e che di questa
«distese qualche parte con fedeltà e purità di stile, ma» - aggiunge - «non
poté proseguir l’impresa».[18]
Evidentemente Nicoletti ignorava del tutto la storia di Urbano VIII
scritta dal Morone. Il che sembra avvalorare l'ipotesi che il Morone
abbia messo in atto il proposito di darla alle fiamme espresso nella
lettera a Becillo qui riportata. Un proposito, invero, incoerente
con l'appassionata difesa che ne aveva fatto, ribattendo puntigliosamente
le obiezioni di Becillo, ma per nulla incompatibile con l'orgogliosa rivendicazione
della propria lealtà verso Urbano e del proprio disinteresse nel servirlo, né
con la coscienza dell'imminente fine di quel mondo - colto, intransigente, magnanimo,
"grande" in tutto, nel successo e nella sconfitta - che in Urbano si era espresso:
io mai ho messo penna in carta né per desiderio
né per isperanza di gloria humana, come fa la maggior parte di loro [gli storici
del suo tempo], la quale d’ordinario fugge quelli che la seguitano. Onde non ne
pretendendo cosa alcuna non ne potrò né anche alcuna perdere et il
lasciare di comporre e l’essere spettatore delle altrui opere e
compositioni mi sarà guadagno.
Per avere un'idea della storia di Morone ci si deve rifare agli
scritti che quasi certamente erano confluiti - in un modo o nell'altro -
nella stesura dell'opera maggiore: il conclave di Urbano, la Lettera
scritta a un signore, la relazione sulla presa di Castro e infine gli
avvisi sulla guerra inviati a diversi personaggi, tra i quali quelli per il
nunzio Panciroli che sono arrivati sino a noi e che qui si pubblicano.
Non è un gran che. E la lettera a Becillo, pur di notevole interesse, non
risolve il dubbio fondamentale: se quella di Morone fosse storia meramente encomiastica oppure francamente
e robustamente partigiana. In quest'ultimo caso, la sua perdita si collocherebbe
come elemento non secondario all'origine di una tradizione storiografica
plurisecolare uniformemente, ripetitivamente e - a dirla tutta - un po'
ottusamente antibarberiniana.
[1] Così il Sommervogel, seguendo l’indicazione del catalogo triennale 1642-1645 (ARSI, Rom. 58, 1642, 1, c. 15; 1642, 2, c. 71; 1645, 1, p. 45, n. 3). Ma il catalogo triennale precedente (ARSI, Rom. 57, CT 1636-1639, 1636, 1, c. 13, n. 4) lo diceva mediolanensis.
[2] Il citato catalogo triennale 1636-1639 dice il 24 marzo 1620. In Sommervogel si legge 24 maggio 1673: se l’anno è un evidente refuso, sul mese non mi pronuncio.
[3] Il catalogo breve della provincia romana lo annovera nel ’23, a febbraio, tra i Rethores, a fine anno tra i logici, nel 1625 tra i fisici; tra il 1626 e il 1630 non compare più. Riappare nel 1632 tra i teologi del secondo anno e poi tra quelli del terzo, prima come socius bibliothecarii, poi come Bibliothecarius. Lo si trova infine, nel 1633, tra i teologi del quarto anno (ARSI, Rom. 80, CB 1618-1645, cc. 31v, 54v, 73v, 187v, 213r, 240v).
[4] ARSI, Rom. 57 , CT 1636-1639, 1636, 1, c. 13 n. 4.
[5] ARSI, Rom. 58 CT 1642-1645, 1645, 1, c. 45, n. 3.
[6] ARSI Rom. 80, Catalogum Brevem Prov. Romanae 1618-1645, 1641, c. 293.
[7] ARSI, Rom. 57 , CT, 1636-1639, 1636, 2, c. 69, n. 4.
[8] ARSI, Rom. 57 , CT, 1636-1639, 1639, 2 c. 210.
[9] Oratio A.M. e Soc. Jesu de Christi Domini morte
habita ad Sanctiss. D.N. Urbanum VIII Pontificem Maximum ipso parasceves die in
Sacello Pontificum Vaticano, Romae, typis Vitalis Mascardi, MDCXXXIX, 4° pp.
14, ristampato in Orationes quinquaginta de Christi Domini morte... Romae,
1641, poi Neoburgi 1724: è la sola opera ricordata dal Sommervogel. Sempre in BAV,
Barb.lat. 4593, si conserva di Alberto Morone un Sermone fatto a
Cardinali sopra quelle parole “Beatus qui intelligit etc...” La De
pontificalibus Urbani VIII comitiis historia, che si conserva in BAV,
Barb.lat. 2283 e che è ricordata dal Pastor tra le opere dedicate
al Cardinale Francesco Barberini, segna probabilmente l'arruolamento di Alberto Morone
tra gli intimi del Francesco Barberini: quanto stretta fosse la loro collaborazione
si può dedurre dai pochi biglietti rimastici in BAV, Barb. lat. 6551.
[10] ARSI, Rom. 58 CT 1642-1645, 1645, 1, c.281.
[12] ASM, DP 434, Instruzione al Sig. Card. d'Este per lo Conclave dopo la morte d'Urbano Ottavo (incipit: Egli è veramente cosa strana...): «Il Padre Moroni suo amico intrinseco asserisce che sta ottimamente con gli Spagnoli». Evidentemente Morone era intrinseco anche con gli agenti di Modena.
[13] Sulla posizione del Card. Bernardino
Spada vedi in Fazione Urbana il paragrafo La Lega dei principi, nota 6.
La corrispondenza di Bernardino con suo fratello
Virgilio, dove si nomina frequentemente il Morone e da cui traggo le
citazioni che seguono, è in ASR, SV 563 (Bernardino
a Virgilio) e ASR, SV 572 (Virgilio a Bernardino). A Castelviscardo, come ho
detto a suo luogo (vedi in appendice Le scritture di Roma),
Bernardino aveva ricevuto la prima edizione a stampa della
Lettera scritta (che aveva già avuto occasione di leggere manoscritta)
e si era vivamente congratulato con l’autore.
[15] ARSI, Rom. 57 , CT, 1636-1639, 1639, 1 c. 153; ARSI, Rom. 58 CT 1642-1645, 1642 1, c. 15; ivi, 1645, 1, c. 45, n. 3. Alberto Morone morì il 13 ottobre 1646. Il nipote, Carlo Morone, ne dava notizia a Francesco Barberini il 15 (BAV, Barb. lat. 6469, c. 2):
«Em.mo e Rev.mo Sig.re e P.ron Col.mo
«Non poco dispiacere sentirà l'Em.za V. intendendo la morte del P Alberto Moroni mio zio, che sia in gloria perché l'humilissima mia servitù con lei e la somma sua benignità verso di me e di quell'anima benedetta me lo persuadono. Questa perdita così dolorosa seppi sabbato mattina mentre fu cosí morto ritrovato in ginocchione appoggiato al letto, credendosi che si preparasse per celebrar la messa. Ne do riverentissima parte a V. Em.za e per debito mio e per supplicarla insieme ad accrescermi nella sua benigna gratia, poiché in me se ne augmenta il bisogno per la privatione di questo unico domestico mio appoggio. Ma prima di farmi consapevole della morte di lui erano giã state trasportate alla Casa Professa del Giesû non solo le sue scritture, ma ancora molti libri che prima della partenza di V. Em.za furono riposti appresso di lui, havendone doppo l'aggiustamento ripigliati la maggior parte, io pregai il Padre Generale che diceva volerli ritenere per restituirli poi a V. Em.za, che si contentasse consegnarli di presente a me, come ha fatto, assicurandolo che V. Em.za ne haverebbe havuto gusto, e che in testimonio di ciò haverei fatto che V. Em.za gliene scrivesse, come humilissimamente ne la supplico. E per fine confessando esser mie proprie obligationi tutte le gratie e favori che si degnò compartire a mio zio mentre visse eterne et infinite le professo all'infinita humanità dell'Em.za V. alla quale fo profonda riverenza. Roma 15 ottobre 1646.
«Di V.Em.za Rev.ma
«Humil.mo divot.mo et oblig.mo servitore
«Carlo Moroni»
[16] Lumbroso p. 187. Di questa risposta del Morone al
Siri non so nulla, salvo che doveva riferirsi al primo volume del Mercurio che, uscito nel 1644, per quanto riguardava Castro, trattava solo delle origini del conflitto: la questione dei Monti Farnese, quella
delle tratte del grano, la fortificazione voluta da Odoardo e l'occupazione della piazza da parte dei papalini. Le lettere che pubblico in appendice, Due lettere contro il Siri,
sono cosa diversa, perché fanno riferimento all'introduzione premessa al secondo volume del Mercurio e non possono essere datate prima del 1646.
[17] Francesco Barberini aveva commissionato ad Andrea
Nicoletti la vita di Papa Urbano, ma non era affatto nel suo interesse, dopo essersi
a fatica rappacificato con tutti i suoi ex nemici, che l'opera fosse pubblicata,
con la conseguenza inevitabile di riaprire antiche polemiche. Così la storia del Pontificato di Urbano
scritta da Nicoletti, anche sulla scorta di quanto era sopravvissuto del lavoro di Alberto Morone, restò opera ad uso interno ed esclusivo della famiglia.
[18] La relazione latina sulle presa di Castro riportata da Nicoletti (BAV, Barb. lat. 4738, cc. 113r-116r) è quella che comincia: "Bellum apud nos brevi peractum est". Quanto all'incarico che Francesco Barberini avrebbe affidato a Morone di scrivere una storia della guerra dall’uscita del Farnese alla sua ritirata, anche Vittorio Siri ne parla (Mercurio, II, 1647, p. 144).
|