Fine di pontificato: 1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Guerra generale

Nel Concistoro del 1° dicembre 1642 Urbano chiamò Antonio a sovrintendere sul fronte “di Lombardia”, che era di gran lunga il più importante, allo sforzo bellico contro Parma, che si annunciava poderoso. Gli conferì per questo l’autorità di legato, e gli affiancò nel comando Achille d’Estampes di Valençay. [1]
La nomina di Antonio comportava l’allontanamento dei Cardinali Durazzo, Ginetti e Franciotti, rispettivamente Legati di Bologna, Ferrara e Romagna, colpevoli di non aver opposto alcuna resistenza ad Odoardo ed anzi di averlo accolto più come difensore che come nemico della Santa Sede.[2] Ma suonava sfiducia anche nei confronti del Principe Prefetto, che nella direzione delle armi pontificie aveva dato pessima prova, e costituiva uno smacco per Francesco, che, se non poteva essere infastidito dall’umbratile presenza di Taddeo, non gradiva affatto quella assai più ingombrante di Antonio. E infatti Antonio contro i tentennamenti e le ambiguità del fratello, manifestò subito la volontà di prender di petto i problemi e di giungere almeno a porre con chiarezza l’alternativa tra pace e guerra.
Dubbioso della buona riuscita di un’azione militare ancora tutta da preparare e incerto, a ragione, sull’effettiva inclinazione dei Veneziani alla neutralità, nel gennaio del 1643 Antonio si offrì di andare personalmente e in incognito a Venezia per sincerarsene. Contemporaneamente non si peritò di marcare una netta divergenza dalla politica di Francesco segnalando ad Urbano «il danno che risulta al servitio di Sua Santità» dal prolungarsi di una situazione in cui «sapendo i popoli che non si può attaccar i stati de i vicini talmente che impune possono altri venirci a offendere [...] non confidano che in una pace o in un discioglimento della nostra gente».
Francesco, da parte sua, irritatissimo per l’atteggiamento di Antonio, non disperava di dividere e «straccare i vicini» con la sola ostentazione di imponenti apparati di guerra. Il che, scriveva a Taddeo censurando insieme la dissidenza di Antonio e le sue continue richieste di quattrini, «non meglio può procedere che dalla costanza de’ nostri e dallo spendere in maniera il denaro che si possi durare».[3] I Duchi di Parma e di Modena erano sempre più impazienti di agire. Ma Venezia non voleva la guerra e il Granduca non la voleva senza Venezia. Il Cardinale Barberini, contro l’allarmismo e il dispendioso attivismo di Antonio ne traeva la convinzione che non ci fosse per il momento motivo di preoccuparsi.
Nella speranza di sfruttare ancora una volta la sorpresa, Odoardo Farnese tentò nel febbraio un colpo di mano su Castro e mandò per la via di Sarzana qualche migliaio di uomini ad imbarcarsi per la Maremma. Ma il vescovo di Sarzana, Prospero Spinola, dalla sua sede seguiva attentamente le mosse del Duca e ne informava regolarmente Roma, sicché la sorpresa mancò del tutto.[4] In più il commissario della città, Stefano Raggi, sbarrò con le poche forze a sua disposizione il passo alle truppe di Parma costringendole a proseguire, fuori del Dominio genovese, per strade lunghe e disagevoli.[5] Infine una tempesta rovinò del tutto l’impresa disperdendo la flottiglia su cui le truppe erano imbarcate.[6]
Il fallimento della spedizione invece di allentare la tensione in Italia, la fece precipitare verso la guerra aperta. Il governo di Venezia sempre più persuaso della scarsa affidabilità di Odoardo e del pericolo di lasciarlo operare da solo, scelse il male minore, e cioè l’intervento. Nel marzo il Senato ordinò alle sue truppe di muovere nel Polesine di Rovigo. Ancora una volta, tuttavia, si trattava di una iniziativa unilaterale, non concordata nell’ambito della Lega e formalmente estranea alla questione di Castro. Il pretesto fu trovato nelle fortificazioni che Antonio era venuto erigendo nel Ferrarese contro un possibile attacco dalla parte di Modena, ma che secondo Renier Zeno, presunto capo degli interventisti, costituivano, come gli faceva dire Raffaele Della Torre, «una provocazione manifesta», una «novità pregiudiciale alla sicurezza del Nostro Dominio».[7]
A Roma il partito della pace era molto forte anche tra i più fedeli seguaci dei Barberini. Contrario da sempre alla guerra era uno dei più ascoltati consiglieri di Urbano, quel Cardinale Ottaviano Raggi, che avendo istruito, in qualità di Uditore della Camera, e poi seguito sino alla vigilia della sentenza la causa contro Odoardo, era stato protagonista dell’atto iniziale della vicenda.[8] Ma non era il solo.

«Dirò con il segreto che mi concede l’esser Vostra Eminenza della Congregatione», scriveva Francesco ad Antonio Barberini il 14 aprile, «sono tanto disposti i cardinali creature di Nostro Signore a gl’accomodamenti, che ardirò di dire (se non contengono in se stessi i loro pensieri senza palesarli) sono troppo propensi. De gli altri cardinali io non parlo perché con loro non v’ho molto trattato; ve ne sono però uno o due che ne i loro discorsi si mostrano per desiderosi della reputatione et interesse della Santa Sede, ma quando si venisse alle scritture non so poi quello si dicessero». [9]

Anche i Francesi si mostravano desiderosi di arrivare sollecitamente alla pace. Rientrato a Roma Fontenay aveva preso a lavorare con Francesco Barberini a una nuova bozza di accordo.[10] Il 30 marzo Celio Bichi, fratello del cardinale e braccio destro di Francesco, in un colloquio con Montreuil, segretario dell’ambasciata, si sentì dire con accenti assai persuasivi che la Francia era interessata a impiegare le armi del Farnese in modo più utile che non nel far guerra al Papa. Ma il problema era, al solito, Odoardo.

«In Francia assolutamente desiderano l’aggiustamento di quel Duca con Sua Santità e però il Signor di Lione se n’è andato a trovar il Duca per fargli diverse propositioni per quanto il medesimo Signor di Lione ha detto in Genova a monsù d’Amontot e questo ha scritto al Signor Imbasciator Fontané, soggiungendoli che havendole sapute il Pallavicini che in Genova serve il Duca, disse che S.A. non l’harebbe accettate». [11]

Di fronte all’ostinazione del Duca di Parma fermo nel dire «che non lasceria né pur un filo d’herba, et altrimenti per recuperarlo farà la guerra» lo stesso Montreuil aveva riconosciuto «che il Duca parla in tono di capitano spagnolo». [12]
In maggio fu annunciato l’arrivo in Italia del Cardinale Alessandro Bichi, nuovo e più abile mediatore fra quanti avevano fino a quel momento operato in Italia per conto della Francia.[13] Celio, suo fratello, propose che Michele Mazzarino, nuovo Maestro di Palazzo, si incontrasse con Lionne per trovare insieme il modo di persuadere il Duca di Parma e il Granduca ad aspettare «quel che d’ordine del Re» avrebbe portato il Cardinale, «la venuta del quale essendo vera et imminente non puole l’altra parte sospettare che s’adduca con artifizio».[14] Ma il 26 maggio 1643 veniva concluso un nuovo trattato tra i Principi della Lega, a carattere questa volta offensivo.[15]
Lionne e l’ambasciatore francese a Venezia, che ne erano stati tempestivamente informati, concordarono nel giudicare di nessun profitto per la Francia la prevista azione della Lega contro il Papa.[16] Quanto agli scopi dell’alleanza il nuovo trattato non riuscì per nulla più chiaro del precedente. Raffaele Della Torre rilevava per esempio che «non si legge in tanto numero di capitoli né pure un minimo indizio benché lontano che una parte minima di tante forze destinata fosse alla restituzione del Duca [di Parma]  nel suo Ducato [di Castro]», sicché nessuno degli alleati sapeva esattamente per che cosa dovesse combattere. Il Duca di Parma, poi, si riteneva più che mai libero di fare o non fare, «anzi lasciato in libertà dei propri capricci», tanto che, ricevuta notizia dal conte Scotti dell’imminente conclusione della nuova lega, l’aveva voluta anticipare e, senza consultare nessuno, il 25 maggio era entrato nel Ferrarese e vi si era fortificato.[17]
I Veneziani non uscirono dal Polesine di Rovigo che a giugno. Ultimo a muoversi fu Francesco d’Este che avrebbe voluto unirsi ai Veneziani e condurre energicamente l’offensiva. Ma Venezia prese subito a svolgere azione di freno e un efficace coordinamento tra gli alleati non uscì mai dallo stadio di progetto. Così la guerra ristagnò tra scaramucce e ingloriosi saccheggi. Un tentativo dei Veneziani di impadronirsi di Crevalcore fu abbandonato al primo sopraggiungere delle forze guidate dal Cardinale Antonio e da Valençay. In compenso, «quasi guerreggiando di viltà le genti venete e le pappaline», al solo avviso di una mossa offensiva tentata dal Duca di Modena le truppe pontificie si sbandarono.[18]
La guerra doveva però incattivirsi. La coppia Antonio-Valençay era riuscita a portare un po’ di ordine e di dinamismo nell’esercito pontificio. Battuto dai Modenesi di Raimondo Montecuccoli, Antonio si era rifatto poco dopo con i Veneziani del provveditor generale Giovanni Pesaro; agli inizi di agosto, dopo una nuova vittoria di Montecuccoli su Mattei, mentre le cose sembravano volgere al peggio per i papalini e Francesco d’Este s’apprestava a marciare su Bologna, al Cardinale Antonio riuscì di conquistare il forte di Pontelagoscuro, un’impresa «quanto meno sperata tanto più gloriosa e profittevole» [19] che costrinse a una ritirata generale gli avversari e a Roma suscitò insieme gli entusiasmi di Urbano e le gelosie di Francesco.
Sul fronte toscano, a metà giugno, il Granduca aveva spinto le sue truppe, agli ordini del principe Mattia e del Borri, verso il Perugino dove caddero senza combattere Città della Pieve e Castiglione del Lago.[20] Dopo Castiglione del Lago i Toscani si proponevano di investire Citerna, «la quale conquistata aprivasi l’argine d’inoltrarsi a dirittura a Città di Castello sprovveduta fin’all’hora di molte cose necessarie alla resistenza». Ma «in quegli emergenti vi fu mandato per governatore monsignore Giulio Spinola, genovese, prelato di diligenza, di sollecitudine e di destrezza, con titolo ancora di governatore dell’armi», il quale, salvata bravamente la città, riuscì già alla fine di luglio, con l’aiuto di Cornelio Malvasia, luogotenente generale della Cavalleria, e di Tobia Pallavicino, maestro di campo, mandatigli di rinforzo, a passare alla controffensiva.[21]
Contro i Toscani, tuttavia, i papalini dovevano subire altri rovesci. Nel sanguinoso scontro di Castello Mongiovino, una frazione di Panicale, finito in disfatta per colpa principalmente del principe Taddeo, cadde prigioniero lo stesso comandante delle truppe pontificie in questo settore, il napoletano fra Vincenzo Della Marra,  che aveva da poco sostituito il duca Savelli e che fu ora sostituito dal genovese Federico Imperiale.[22] La stessa sorte toccò, in un incontro fortuito con un reparto nemico, a Tobia Pallavicino, uno dei migliori ufficiali dell’esercito pontificio.[23] Quanto a Taddeo continuò a dare cattiva prova di sé fuggendo davanti ai Toscani del Borri che avrebbe avuto compito di fermare e rifugiandosi sotto Perugia, dove Francesco, con l’assistenza di Federico Imperiale, stava riorganizzando le forze. [24] Un’altra rotta toccò a Pitigliano ai papalini guidati dal maestro di campo Cesare degli Oddi, mentre anche la sorpresa tentata dal Valençay attraverso gli Appennini contro Pistoia, pur servendo a distrarre le forze toscane dall’offensiva nel Perugino, fallì l’obbiettivo più ambizioso di conquistare la città.




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[1] BAV, Barb.lat.2933, Acta Concistorialia, cc. DXXVIr sgg, 1 dicembre 1642 e Nicoletti, IX, c. 410. Nel febbraio del 1643 Lionne giudicava le forze pontificie insufficienti ad attaccare con qualche speranza di successo Parma, ma largamente superiori a quanto richiesto da un strategia di pura difesa (ASP, CFE, Roma 422, Lionne al Duca di Parma, 24 febbraio 1643).

[2] Il 9 dicembre 1642 il Cardinale Durazzo, arcivescovo di Genova, rientrava nella sua diocesi «per havere eglino in particolare risposto a lettera del Duca di Parma nel ritrovarsi esso Duca col suo campo in quelle parti»: Schiaffino, 1642, n. 72. Sul Cardinale Durazzo: Musso; Alfonso, Durazzo; Alfonso Fassolo; Puncuh.

[3] BAV, Barb.lat. 8816, Francesco a Taddeo Barberini, cc. 20 e 31, 17 e 24 gennaio 1643. «Non sto a dire», scriveva Francesco il 24, «quanto l’apprensione che si vede nel Signor Cardinale Antonio di questi oggetti travagli l’animo di Sua Beatitudine poiché non sappiamo chi pubblichi ai popoli che si deve offendere o non offendere e se pure l’apprendono non tocca ad essi il giudicare troppo avanti. Se l’Eminenza Sua considera i svantaggi del consumo de i viveri, questo lo trovarebbe ancora in casa de vicini, come chi c’assalisce dove noi non potiamo sostener la gente puoco o niente potrà il medesimo mantenervi la sua. Ma chiaro è che niuna cosa stracca più i vicini, et come li fece pensare all’invaderci, se li fusse stato riuscibile, astretti dalla penuria e proprie rovine, così il medesimo se non a tutti, almeno a parte di essi cagiona forse che si pensi ad altro». Il 17 gennaio Francesco Barberini aveva avvertito il nunzio Vitelli che «a Nostro Signore non pare espediente per alcun conto che il Signor Cardinale Antonio venghi incognito in Venetia questo Carnevale» (ASV, Segr.Stato, Venezia 66, c. 258r).

[4] Prospero Spinola figlio di Agostino, era stato nominato nel 1637 vescovo di Sarzana dopo esser stato vicelegato a Bologna. La sua corrispondenza con i Barberini (tra cui una decina di minute di Francesco Barberini a lui dirette) è in BAV, Barb.lat. 9811, cc.83-197, 22 febbraio 1643 e sgg. La sua attività in favore dei Barberini (segnalata anche da Gerolamo Bon segretario dell’ambasciata veneta in Roma: ASVe, DAS, Roma, 120, c. 7) è ricordata tra gli altri da Capriata, Historia 1663, p. 111.

[5] Stefano Raggi non era imparentato, se non alla lontana, con il Cardinale Ottaviano. Morì suicida in carcere nel 1650, accusato di congiurare contro la Repubblica. Il comportamento di Stefano Raggi nell’occasione del passo preteso dalle truppe del Farnese è ricordato con grandi lodi da Della Torre, Historie, II, pp. 740-741. Con una tale benemerenza nei confronti dei Barberini Stefano entrò naturalmente a far parte dei loro clienti: «La certezza che Vostra Eminenza mi dà della Sua protettione», scriveva nel giugno del 1644 al Cardinale Francesco alludendo a pericolose macchinazioni da cui, non senza fondamento, si sentiva minacciato, «non solo per me ma per gli amici miei ancora nell’occorrente bisogno m’assicura dall’impeto della contraria fortuna e de miei inimici» (BAV, Barb.lat. 10039, c. 94). Sull’episodio il governo genovese mandò ampie relazioni al suo ambasciatore a Roma, Agostino Centurione (ASG, AS, 1904, cc. 32-35).

[6] Per la scarsa collaborazione del governo genovese con l’agente del Duca, Francesco Maria Pallavicini, vedi il dispaccio di quest’ultimo del 22 marzo e la lettera della Signoria al Duca del 13 marzo 1643 in ASP, CFE, Genova, 141. Sulla disastrosa conclusione della spedizione vedi Morone, c.13v.

[7] Della Torre, Historie, II, pp. 742-747. Renier Zeno, scrive Della Torre, «era stimato d’ingegno torbido» (p.746; «eloquenza torbida» aveva scritto a 744). Sulle sue intemperanze vedi i dispacci del Cardinal Cornaro (per es. BAV, Barb.lat. 7776 cc. 5, 10 maggio, e 8r, 19 luglio 1642), uno dei suoi bersagli preferiti, e naturalmente quelli del nunzio Vitelli. Di Cornaro nell’estate del 1642 Zeno aveva detto fra l’altro che «era molto amato e favorito da Nostro Signore e da Signori Cardinali Barberini. Che bisognava inquirere contro di lui da che derivavano questi favori. Che haveva fini grandi etc. Che haveva perciò rimessi a Roma 80.000 ducati. Che voleva ridurre là tutte le cose sue» e così via (BAV, Barb.lat. 7723, cc. 33-34 e 47, 17 giugno 1642, e 7724, cc. 40, 5 luglio 1642). Interessante, nello stesso torno di tempo, l’attacco contro i Somaschi e gli altri ordini “nuovi” «trovati da gli Ecclesiastici per mettere sotto di loro tutti li Principi» (Barb.lat. 7724, c. 66, 12 luglio 1642). Zeno tuttavia ostentava ossequio nei confronti della Santa Sede ed anzi aspirava a ritirarsi nello Stato Ecclesiastico, magari in veste di cardinale. Vitelli, stupefatto, aveva ricevuto dallo stesso Zeno, per mezzo del Padre Boccalini, la richiesta del cappello cardinalizio «sotto pretesto del gran bisogno che ha la Chiesa di un huomo delle maggiori qualità che si truovi per legationi a Principi della Europa ne’ presenti affari et che simile a lui che habbia concorso di tante qualità non si trovi». «Tutte queste cose mi ha fatte dire e», commentava, «non è burla» (BAV, Barb.lat. 7723 c. 18, 3 maggio 1642). Zeno era tornato alla carica nel maggio vantando «di haver fatto miracoli» in Senato durante la discussione sul problema degli assistenti laici al Capitolo di San Giorgio in Alga e «di haver parlato pienamente in sostentamento della riputatione della Sede Apostolica». Ma a chi (probabilmente il Boccalini) gli aveva trasmesso l’ambasciata dello Zeno il nunzio aveva risposto «che sempre sia benedetto chi parlerà conforme si conviene ad un Senatore suo pari della Santa Sede, ma che tuttavia nel riverso di quella sua espressione havev[a] letto un gran supplanto [sic] contro un cardinale della qualità del Signor Cardinale Cornaro e che intendev[a] che era molto improprio alle sue pretensioni et al suo buon affetto» (BAV, Barb.lat. 7723, c. 60, 17 maggio 1642). L’aspirazione di Zeno alla porpora era un po’ comica, ma non nuova: vedi Menniti Ippolito 1993, pp. 124-127. Vitelli, in ogni caso, nonostante la diffidenza che gli ispirava il personaggio, giudicava lo Zeno «un gran cervellaccio» e nel dicembre del 1641 ricordava come, proprio a proposito della costruzione dei forti nel Polesine, avesse assunto un atteggiamento tutto sommato prudente, raccomandando «che si avertisse bene perché», arrivando a una rottura col Pontefice, «si sarebbe necessitato Sua Santità ad unirsi con una delle Corone et si sarebbe arisicata la publica quiete» (BAV, Barb.lat. 7719, c. 106; ma vedi ASV, Segr.Stato, Venezia 66, cc. 73 e 79, 11 e 22 febbraio 1642). Quella dei forti sul Polesine era una questione alla quale il governo di Venezia restò sempre molto sensibile. «Mi vien detto», scriveva il Cornaro a Francesco Barberini il 14 marzo 1643 (c. 17r), «che qua fanno gran riflesso di quella catena nel Po et di certo forte che sia per farsi et questa sera in Pregadi devono trattare sopra la materia essendo entrati in gran gelosia». Francesco Barberini ripeteva a Rapaccioli il 22 marzo che i Veneziani minacciavano la guerra «per una catena che il Signor Cardinale Antonio faceva preparare per mettere nel Po». Vedi Giandemaria, pp. 96-97 e Morone,c. 14v; cfr. ASP, EP, b.15, fasc. Fulvio Testi, Francesco d’Este a Odoardo Farnese, 19 marzo 1643: «La Republica inteso il disegno de’ Barberini di gettare un ponte sul Po ne ha mostrato sentimento tale...».

[8] Siri, Mercurio, III, 1652, p. 104: «Nel procinto poi della sua partenza per condursi alla residenza della sua chiesa, con la solita sua ingenua libertà, doppo havere il Cardinale esortato il Papa agli accordi disse che grandemente li era per dispiacere et come creatura tanto obligata della Santità Sua et come cardinale di lasciarlo inviluppato nell’angustie et calamità presenti et che s’impoverisse la Sede Apostolica et si rovinasse, sapeva Dio con che scapito del nome gloriosissimo della Santità Sua et delle fortune della sua Casa». Del discorso pronunciato dal cardinale nel concistoro del 16 marzo 1643 dava ampia e, credo, più corretta notizia Gerolamo Bon nel dispaccio del 21 marzo al Senato. Raggi, precisava Bon, aveva parlato a nome della Repubblica di Genova esprimendo il «discontento e apprensione grande» del suo governo per «i pericoli sempre maggiori che soprastavano per il negotio di Castro» e formulando l’auspicio che si addivenisse prontamente alla restituzione del Ducato «unico mezzo per divertire tanti mali imminenti» (ASVe, DAS, Roma, 120, c. 35). Il resoconto del Bon conferma il tono insolitamente duro che Raggi poteva permettersi di usare col Papa, il che contribuì alla sua fama di «ingenua libertà» ripresa da diversi autori. In ogni caso, se Ottaviano era per la pace, la sua famiglia di sicuro era per la guerra, occasione straordinaria di affermazione a Corte.

[9] BAV, Barb.lat. 8816, c. 87r, 14 aprile 1643: si tratta della copia destinata a Taddeo della lettera ad Antonio.

[10] Della Torre, Historie, II, p. 859. Pastor, XIII, p. 890.

[11] BAV, Barb.lat. 8941, c. 81, Celio Bichi a Francesco Barberini, 30 marzo 1643. Il Pallavicino di cui qui si parla è il già citato Francesco Maria, che a partire dal 1645 e poi di nuovo nel 1658 tentò di accreditarsi alla Corte di Parigi come possibile agente in Italia (diverse sue lettere in AAE, CP, Gênes 4 e 10; è frequentemente citato nelle lettere del suo rivale Giannettino Giustiniani, ivi, Gênes 4, 5 e 6).

[12] BAV, Barb.lat. 8941, c. 83, Celio Bichi a Francesco Barberini, 17 aprile 1643.

[13] Ho già ricordato, però, come Bichi avesse validamente assicurato una presenza diplomatica francese a Roma tra l’infelice ambasceria di d’Estrées e quella, non molto più fortunata, di Fontenay: Bichi dunque non era affatto nuovo a questo genere di negoziati e conosceva molto bene la situazione in Italia. Su Alessandro Bichi vedi la voce di De Caro in DBI.

[14] BAV, Barb.lat. 8941, c. 85, Celio Bichi a Francesco Barberini, 4 maggio 1643. L’incontro ebbe effettivamente luogo di lì a poco a Reggio (Lionne ne dava l’annuncio a Odoardo il 5 maggio 1643: ASP, CFE, Francia 24) nonostante l’irritazione del Duca (che, scriveva Gaufrido a Fulvio Testi lo stesso 4 maggio, pensa «che il sudetto Padre non porti altro che vanità, al solito»: ASP, EP, b. 15, fasc. Fulvio Testi). In effetti non ne uscì nulla: Valfrey, pp. 137-143.

[15] La notizia della nuova lega, sostiene Nicoletti (IX, c. 510), giunse a Roma inaspettata anche per la coincidenza con quella della morte di Luigi XIII. Nel concistoro del 22 giugno il Pontefice diede le due notizie contemporaneamente: «abitis ex Urbe ministris qui nobis insalutatis discesserunt...» (BAV, Barb. lat. 2933, Acta Concistorialia, cc. DXXXVI sgg). In realtà nella corrispondenza di Celio Bichi con Francesco Barberini la conclusione del nuovo trattato appare «vociferata» già da un paio di mesi (BAV, Barb.lat. 8941, c. 84, 23 aprile 1643) e mons. Domenico Carretti, che era uditore della Rota Civile a Genova, confermava da questa città il 9 maggio le voci che circolavano in proposito (BAV, Barb.lat. 9844, cc. 8 sgg). Il 17 maggio Morone, cc. 19-21, dava la guerra per inevitabile e imminente. «Questa lettera», scriveva a Panciroli, «sarà sicuramente l’ultima che scrivo degli apparati di guerra perché la nuvola gravida che è andata girando scaricarà fra due giorni o forse prima, non potendo più le cose trattenersi. Vedremo mutationi di cose, se Iddio non disarma gli huomini con qualche accidente». Il Cardinale Cornaro aveva da tempo mandato messaggi allarmanti circa le intenzioni del governo veneto e circa i sentimenti prevalenti tra i cittadini: «sebene da questa parte si dice che tutto si fa con fine solo perché si venga col deposito di Castro all’aggiustamento del negotio, tuttavia io vedo e sento gli animi così mal intentionati e guasti che non so più quello si possa credere». Lo preoccupava soprattutto «la rabbia, il livore et l’abborrimento verso gli Ecclesiastici e le cose della Chiesa» che, scriveva, a Venezia erano «arrivati tanto all’eccesso che non si può dire né fare peggio fra heretici». A marzo aveva scritto: «Habbiamo le spie intorno e tutti li galanthuomini son sospetti». A giugno lamentava che dopo l’inizio delle ostilità la sorveglianza intorno a lui si fosse fatta più stretta. Ormai era tenuto dai più «non pure per diffidente, ma per nemico» (non a torto, si direbbe, visto che faceva, appunto, la spia per i Barberini). «Se Vostra Eminenza sentisse li concetti che corrono se gli rizzarebbono li cappelli. Siamo peggio che in Ginevra» (BAV, Barb.lat. 7776, Cifre del card. Cornaro, cc. 18, 20, 31-32, rispettivamente 28 marzo, 11 aprile e 27 giugno 1643). La conclusione della lega diede occasione, naturalmente, a un nuovo diluvio di scritti propagandistici, di cui faccio sommaria rassegna nell’appendice Guerre di scrittura.

[16] Valfrey, pp. 144-145. Urbano VIII aveva parlato fin dal 2 maggio con l’ambasciatore di Francia (e questo con il segretario veneto Girolamo Bon) di una possibile guerra e gli aveva lasciato intendere che se davvero si fosse giunti a rottura aperta avrebbe richiesto e ottenuto l’aiuto degli Spagnoli. La presenza di Casanate a Roma serviva ad evocare la possibilità di un intervento spagnolo a favore del Pontefice. Ma nessuno prendeva troppo sul serio questa eventualità. Alla vigilia della partenza di Casanate da Roma, il rappresentante veneto scriveva di lui: «mi si conferma che non ha negotio di rilievo, ch’egli è malsodisfatto di Pallazzo e che Pallazzo è malcontento di lui, che il Viceré di Napoli lo tiene qui otiosamente impegnato et che gli è hora difidentissimo» (ASVe, DAS, Roma 120, c. 114v, 9 maggio 1643).

[17] Della Torre, Historie, II, pp. 748-755. Nel prosieguo della campagna il Duca si sarebbe rifiutato ripetutamente di impiegare le sue truppe in operazioni comuni con gli alleati, ma lo stesso avrebbero fatto i Veneziani (II, 762). Cfr. Giandemaria, pp. 97-98. Nani, VIII, 729-734. Delle operazioni militari dell’estate del ‘43 c’è in BEM, ms. It. 812 (a.Q.7.12) un Diario della mossa dell’armi del Serenissimo Odoardo Duca di Parma (incipit: “A li 22 magio 1643…”). Cfr. “Eccomi ubidiente…”.

[18] Della Torre, Historie, II, pp. 756-760. «Qua dopo le prime prese», scriveva il Cardinale Cornaro il 20 giugno 1643, «erano divenuti così fastosi e altieri» che andavano sproloquiando «d’impadronirsi in puoco tempo di Ferrara overo di ridurre in necessità gli ecclesiastici di cedere et accomodarsi a modo loro», ma quasi subito erano «calate le ciancie» e ora, a neppure un mese dall’inizio delle ostilità, «si dice che anco le armi degli Ecclesiastici tagliano, che la guerra non fa per la Republica, che si sono infilzati a puoco a puoco non credendo mai che Sua Santità potesse e volesse resistere alla Lega quando la vedesse risoluta, che Parma è matto, che Modena non ha cervello, che Fiorenza è vario et altre cose simili....» (BAV, Barb.lat. 7776, cc. 27-28). Sodini, p. 91 nota come questa «quasi comica guerra» (come la giudicava Muratori) ebbe presto a rivelarsi, sul modello della contemporanea guerra in Germania, «anche feroce e determinata».

[19] Della Torre, Historie, II, pp. 831-832. «Questo è stato un bel colpo improviso et inaspettato», scriveva Cornaro il primo d’agosto, «et se si seguiterà di questa maniera mancheranno le ciancie e svaniranno le chimere» (BAV, Barb.lat. 7776, c. 53).

[20] Su Città della Pieve vedi BAV, Ott.lat. 2435 cc. 125-133, Relatione del seguito in Città della Pieve, inc.: “Il Capitan Gabriele fu mandato…” (a c. 125 una grande Pianta di Città della Pieve). La resa di Castiglione del Lago parve un episodio di scandalosa viltà e provocò un pesante scambio di accuse tra Federico Savelli comandante delle truppe pontificie e Fulvio Della Corgna, comandante della piazza, che in un suo manifesto aveva cercato di gettare sui colleghi la responsabilità dell’accaduto. Cfr. Difesa del Duca Federico Savello contro la falsa imputatione datagli da don Fulvio Duca Della Corgna nel suo manifesto, Roma, Stamp. della R. Camera Apostolica, 1644; Ristretto di discolpa per il Capitano Montino Nini Perugino, Roma, Francesco Cavalli, 1644 (il Nini era stato accusato di complicità col Duca Della Corgna); Risposta del Maestro di Campo Pirro Caetano al manifesto del Duca Fulvio della Corgna intorno alla resa di Castiglione del Lago, snt. Tutte queste scritture (e il Manifesto Della Corgna) si trovano riunite in BUB, ms. 880 (1321) III, cc. 163-212; una raccolta analoga in BNF, II, IV, 320 (Magl. XXV, 454); copia della Difesa del Duca Savelli in BAV, Ott.lat. 2435, I, cc. 208-229. Cfr. BAV, Barb.lat. 8817, cc. 30, Francesco a Taddeo Barberini, 22 luglio 1643 (Francesco parla apertamente di fellonia) e 31-34, lettera di giustificazione del Duca Della Corgna, 3 luglio 1643. Urbano, alla fine della guerra, lamentando col Cardinale Cornaro di essere stato ripetutamente tradito dai suoi comandanti faceva esplicito riferimento a questo episodio (ASVe, DAS, Roma, 121, cc. 16-17). Nelle clausole della pace si prevedeva il perdono del Duca della Corgna e la sua reintegrazione nelle cariche e negli onori precedentemente goduti. Ma, faceva osservare il Cardinale Bichi a Battista Nani, «potere il Papa rendere li beni et li stati a questo soggetto, ma l’auttorità sua non estendersi a redintegrarli la reputazione nel concetto del mondo»: BMV, ms. It. VII. 1242 (8824), c. 36v; cfr. ASVe, DAS, Francia 101, cc. 17-18. Sul manifesto di Della Corgna vedi anche Chiovelli, p. 176, nota 35.

[21] Nicoletti, IX, cc. 574v sgg. Della Torre, Historie, II, p. 837. Capriata, Historia, 1663, p. 167. BAV, Barb.lat. 8817, c. 92, Francesco a Taddeo Barberini, 13 agosto 1643. Sull’attività di Giulio Spinola quale governatore di Città di Castello vedi sempre Nicoletti, IX, cc. 559, 603, 614. La corrispondenza di Giulio Spinola da Città di Castello, degli anni 1643-1644 è in BAV, Barb.lat. 9007-9008. Parte della corrispondenza di Tobia Pallavicino con Francesco e Taddeo tra il giugno del 1643 e l’agosto del 1644 è in BAV, Barb.lat. 9562.

[22] La corrispondenza di Vincenzo Della Marra tra l’agosto del 1643 e il luglio del 1644 in BAV, Barb.lat. 9563-9564. Sulla rotta di Mongiovino e la prigionia del Della Marra: BAV, Barb.lat. 8748, c. 281, Francesco Barberini a Francesco Rapaccioli, senza data. In una composizione satirica dedicata ai fatti del Mongiovino (BAV, Chig. I.III.87, cc. 89-91, «Ardea guerra crudele...») Taddeo, invitato da un ufficiale a intervenire tempestivamente nella battaglia in modo da evitare la disfatta dei papalini, risponde: «Vedi che piove / ond’io non vo’ bagnarmi. / Altro non posso fare / mentre che si combatte / che pregar Dio che gli emoli confondi / e cantar per li morti il De profondi...». Storico di Palazzo, Morone, cc. 32-33, getta naturalmente tutta la colpa sul Della Marra: «Il Prefetto non poté e, come dice il marchese Mattei, non dovè andar al soccorso [...] per non ricevere un colpo maggiore...». Sulle reciproche accuse di incompetenza e tradimento tra Della Marra e Mattei vedi il Cartello di Fra Vincenzo della Marra al luogotenente dell’esercito Ecclesiastico in Perugia (incipit: “È prudenza de gli huomini che sono huomini...”) in BUB, ms. 880 (1321) III, cc. 466-467.

[23] Brusoni 1661, p. 408; Nicoletti, IX, c. 613. Sulla prigionia di Tobia vedi anche BAV, Barb.lat. 10038, c. 241, Camillo De Mari a Francesco (o Antonio?) Barberini, 23 gennaio 1644.

[24] Della Torre, Historie, II, pp. 837-840. Nicoletti, IX, c. 588v. L’incapacità di Taddeo come uomo d’arme era notoria: cfr. per es. la relazione di Giovanni Nani del luglio 1640 in Barozzi Berchet, Roma, p. 33.


Claudio Costantini

Fazione Urbana

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Indice
Premessa
Indice dei nomi
Criteri di trascrizione
Abbreviazioni
Opere citate
Incipit

Fine di pontificato
1a 1b 1c 1d 1e 1f 1g 1h 1i 1l 1m

Caduta e fuga
2a 2b 2c 2d 2e 2f 2g 2h

Ritorno in armi
3a 3b 3c 3d 3e 3f 3g 3h 3i

APPENDICI

1

Guerre di scrittura
indici

Opposte propagande
a1 a2 a3 a4 a5 a6 a7
Micanzio
b1 b2 b3 b4 b5
Vittorino Siri
c1 c2 c3 c4

2
Scritture di conclave
indici

Il maggior negotio...
d1 d2 d3 d4 d5 d6 d7
Scrittori di stadere
e1 e2 e3
A colpi di conclavi
f1 f2 f3 f4 f5 f6

3
La giusta statera
indici

Un'impudente satira
g1 g2 g3 g4 g5
L'edizione di Amsterdam
Biografie mancanti nella stampa

4
Cantiere Urbano
indici

Lucrezia Barberini
h1 h2
Alberto Morone
i1 i2a i2b i2c i2d
i2e i2f i2g i2h
i3 i4

Malatesta Albani
l1 l2


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